Le due guerre culturali
di George Weigel
Ideazione di settembre-ottobre 2006

La mattina dell’11 marzo 2004, nell’orario di maggior traffico di pendolari, dieci bombe esplosero all’interno di quattro stazioni ferroviarie di Madrid e negli immediati dintorni. Quasi 200 spagnoli restarono uccisi e circa 2000 feriti. Il giorno successivo sembrava che la Spagna avesse preso una posizione netta contro il terrorismo, con manifestanti che in tutto il paese esibivano cartelli con scritto “assassini” o “criminali”. Ma la situazione non ha retto. Settantadue ore dopo che le bombe avevano sparpagliato braccia, gambe, teste e altre parti di corpi per tre stazioni ferroviarie e un piazzale di manovra, il governo spagnolo di José María Aznar, un solido alleato degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in Iraq, fu sonoramente sconfitto in un’elezione che l’opposizione socialista aveva a lungo tentato di trasformare in un referendum sul ruolo spagnolo nella guerra al terrorismo. Così come, evidentemente, hanno fatto gli uomini di al Qaeda che hanno piazzato le bombe. Un documento di al Qaeda di 54 pagine, venuto alla luce tre mesi dopo gli attentati, sosteneva che il governo di Aznar non avrebbe «sopportato più di due o tre attentati prima di ritirarsi [dall’Iraq] per la pressione della sua opinione pubblica». In realtà ne è bastato uno solo – così come per i soldati spagnoli in Iraq che sono stati richiamati poco dopo, proprio come aveva promesso il neoeletto primo ministro, José Luis Rodríguez Zapatero, il giorno dopo che gli spagnoli avevano scelto l’appeasement.
Quest’anno, cinque giorni prima del secondo anniversario degli attentati di Madrid, il governo Zapatero, che aveva già legalizzato il matrimonio fra partner dello stesso sesso, l’adozione da parte delle coppie omosessuali e cercava di limitare l’educazione religiosa nelle scuole spagnole, ha annunciato che le parole “padre” e “madre” sarebbero scomparse dai certificati di nascita spagnoli. Secondo il bollettino ufficiale del governo, invece, «l’espressione “padre” sarà sostituita da “Progenitore A” e “madre” sarà sostituita da “Progenitore B”». Come il capo del Registro Civile Nazionale ha spiegato al quotidiano madrileno ABC, il cambiamento si limiterebbe ad adeguare i certificati di nascita spagnoli alla legislazione spagnola sul matrimonio e l’adozione. Più acutamente, l’editorialista irlandese David Quinn ha visto nella nuova regolamentazione «l’abolizione del riconoscimento statale del ruolo delle madri e dei padri e l’estinzione della biologia e della natura». Queste norme ridicole sono state ritirate in seguito alle proteste dell’opinione pubblica, ma l’originaria intenzione del governo rimane sintomatica.
A prima vista gli attentati di Madrid e il linguaggio propagandistico di “Progenitore A” e “Progenitore B” sembrerebbero accomunati solo dalle stravaganze della politica elettorale: gli attentati hanno aggravato il dissenso contro un governo conservatore, determinando la vittoria di un primo ministro di sinistra, che poi ha iniziato a fare molte delle cose che i governi aggressivamente laici in passato avevano cercato di fare in Spagna. Il collegamento fra le due cose, però, è più complesso. Gli eventi spagnoli degli ultimi due anni, infatti, sono un microcosmo delle due guerre culturali, collegate fra loro, oggi in corso nell’Europa occidentale.
La prima di queste guerre – seguendo l’esempio dei certificati di nascita spagnoli, chiamiamola “Guerra culturale A” – è una forma più acuta della contrapposizione fra Stati rossi e blu che esiste in America: una guerra fra le forze post-moderne del relativismo morale e i difensori dei convincimenti morali tradizionali. La seconda – la “Guerra culturale B” – è la lotta per definire la natura della società civile, il significato della tolleranza e del pluralismo e i limiti del multiculturalismo in un’Europa che invecchia e i cui bassi tassi di natalità hanno aperto le porte a una popolazione musulmana aggressiva e in rapida crescita.
Nella Guerra culturale A gli aggressori sono i laici estremisti, spinti da quella che lo studioso Joseph Weiler ha chiamato “Cristofobia”. Cercano di cancellare l’eredità della cultura giudaico-cristiana europea da un’Unione Europea post-cristiana, chiedendo il matrimonio fra persone dello stesso sesso in nome dell’uguaglianza, limitando la libertà di parola in nome della civiltà e abrogando alcuni aspetti essenziali della libertà religiosa in nome della tolleranza. Nella Guerra culturale B gli aggressori sono i musulmani jihadisti estremisti che disprezzano l’Occidente, vogliono imporre i tabù islamici alle società occidentali con proteste violente e altre forme di coercizione se necessario, e che considerano queste operazioni la prima fase della islamizzazione dell’Europa – o, nel caso di quella che spesso chiamano al-Andalus – della restaurazione del corretto ordine delle cose, momentaneamente rovesciato nel 1942 da Ferdinando e Isabella.
La domanda che l’Europa deve porsi, ma che non sembra volere affrontare, è se gli aggressori della Guerra culturale A non abbiano reso molto difficile che le forze della vera tolleranza e dell’autentica società civile possano vincere nella Guerra culturale B.

Gli eccessi ideologici del politicamente corretto
La “depoliticizzazione” apatica, come l’hanno chiamata alcuni analisti, in cui è scivolata l’Europa occidentale sembrava un tempo una questione fatta di politiche sociali, di economia socialista e di politiche commerciali protezionistiche condite da irritanti regolamentazioni europee che si applicavano a tutto, dalla circonferenza dei pomodori all’allevamento delle pecore sarde. E infatti non c’è stata tregua nell’apparente determinazione dell’Europa a vincolarsi sempre più con le corde della regolamentazione burocratica. Così chi visitava la Polonia dopo che, nel 2004, era entrata nell’Unione Europea non poteva fare a meno di notare che ora su ogni uovo venduto nei negozi polacchi era impresso il codice numerico europeo, e che ogni pecora polacca aveva una targhetta ufficiale europea pinzata ad un orecchio. Poi c’è la regolamentazione del Grande Fratello del posto di lavoro. L’anno scorso, grazie alla direttiva europea n. 6 riguardante chi lavora a determinate altezze, gli elettricisti di Eccles, un paese nel Suffolk, non hanno potuto usare una scala per cambiare cinque lampadine nel soffitto della chiesa di San Benet. Ci sono voluti due giorni di lavoro per costruire un’impalcatura e alla fine ogni lampadina è venuta a costare circa 500 dollari.
Cosa c’entra tutto questo con la Guerra culturale A? Il fatto è che anche se le passioni normative europee continuano ad avere conseguenze economiche deleterie, si è arrivati a un eccesso ideologico non ultimo quando entra in gioco la religione. Lo scorso ottobre, per esempio, i custodi ufficiali dell’integrità ortografica olandese hanno decretato che, a partire dall’agosto del 2006, “Cristo” si dovrà scrivere con la “c” minuscola, mentre “Joden” (ebrei) si scriverà con la “j” maiuscola quando indica la nazionalità e quella minuscola quando indica i membri di una religione. Un po’ di tempo fa un insegnante di matematica ateo in Scozia ha vinto una causa anti-discriminazione, sostenendo che la sua domanda per un “posto di assistenza pastorale” in una scuola cattolica era stata respinta perché era una posizione riservata ai cattolici.
In parte, quindi, la Guerra culturale A rappresenta un chiaro tentativo da parte dei laicisti, tramite meccanismi normativi nazionali ed europei, di marginalizzare la presenza e l’impatto sull’opinione pubblica dei cristiani praticanti in Europa, che sono sempre meno. A questo si ricollegano questioni cruciali sull’inizio e la fine della vita, poste in maniera particolarmente acuta nei Paesi Bassi, non più vincolati dalla tradizione. L’Olanda per molto tempo ha avuto la reputazione di paese libertino con droga e prostituzione legalizzate, mentre guidava l’Europa lungo il percorso dell’eutanasia e del matrimonio omosessuale. Ora i belgi, una volta imperturbabili, sembrano decisi a recuperare il terreno perduto. Oltre ad aver eguagliato i vicini olandesi nell’ammettere il matrimonio omosessuale e l’eutanasia – nelle Fiandre fra il 1999 e il 2000, metà delle morti infantili sono state per eutanasia – la coalizione socialista/liberale di governo permette la procreazione con l’utero in affitto. Come ha affermato il filosofo ed ex ministro italiano Rocco Buttiglione, «una volta citavamo Marx che protestava per l’“alienazione”, l’“oggettificazione” e la “commercializzazione” della vita umana. È possibile che oggi la sinistra stia inserendo nella sua bandiera proprio il diritto a commercializzare gli esseri umani» – e tutto in nome della tolleranza e dell’uguaglianza?
La Guerra culturale A si esprime anche negli sforzi di imporre comportamenti giudicati progressisti, compassionevoli, scevri da giudizio o politicamente corretti in termini di femminismo estremo o multiculturalismo. Ultimamente questo si è tradotto in una regolamentazione, praticamente una restrizione, della libertà di espressione da parte dell’Unione Europea. Commenti moralmente critici sui comportamenti omosessuali, per esempio, sono stati definiti “parole di odio” e un parlamentare francese è stato multato per aver detto che l’eterosessualità è moralmente superiore all’omosessualità.
A livello transnazionale, le pressioni dell’Unione Europea hanno recentemente fatto cadere la coalizione di governo in uno dei nuovi paesi membri, la Slovacchia. Il problema era un concordato con il Vaticano che prevedeva che la Slovacchia rispettasse la decisione di quei medici che, per loro convinzioni morali, decidono di non compiere aborti. Questa disposizione è stata duramente attaccata dal Network of Independent Experts of Fundamental Human Rights, il quale sostiene che il diritto di abortire è un diritto umano internazionale e che, quindi, non si può consentire ai medici di astenersi dalla procedura. Il dibattito che ne è seguito sui rischi di offendere i mandarini dei diritti umani a Bruxelles o a Strasburgo ha destabilizzato il governo di Bratislava al punto che il primo ministro ha dovuto sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni.
Questo strisciante autoritarismo nella risoluzione del Parlamento europeo di gennaio del 2006, condannava come “omofobi” quegli Stati che non riconoscono il matrimonio omosessuale e definiscono la libertà religiosa “fonte di discriminazione”. Durante il dibattito su quella risoluzione, un europarlamentare britannico, equiparando le leggi tradizionali sul matrimonio ad una “violazione dei diritti umani dei gay e delle lesbiche”, ha proposto di sospendere l’adesione all’ue di quei paesi che dissentivano, come la Polonia e la Lituania. Alla Polonia era stata minacciata anche la sospensione del diritto di voto negli incontri ministeriali europei, se avesse reintrodotto la pena di morte.

Il suicidio demografico dell’Europa
Qualsiasi cosa si possa aggiungere su questi sviluppi, il fatto che l’Europa, in questo particolare momento storico, si trovi coinvolta in un acerrimo conflitto per imporre per legge il politicamente corretto, deve sembrare anche ai più benevoli osservatori come un bizzarro tentativo di sviare l’attenzione dall’avvenimento drammatico che coinvolge il continente in questo inizio di Ventunesimo secolo: l’Europa sta commettendo un suicidio demografico ormai da un po’ di tempo. Alla fine del Ventesimo secolo alcuni ambientalisti estremisti avevano previsto con sicurezza che, mentre nel mondo si sarebbero esaurite varie risorse – oro, zinco, stagno, mercurio, petrolio, rame, piombo, gas naturale e così via – l’umanità sarebbe stata schiacciata da una esuberante “sovrappopolazione”. All’inizio del Ventunesimo secolo il mondo è ancora pieno zeppo di risorse naturali. L’Europa, però, sta esaurendo la più cruciale delle risorse: le persone.
Il quadro generale è abbastanza preoccupante. Non c’è un singolo paese che abbia tassi di fertilità abbastanza alti, cioè pari al 2,1 bambini per donna, il tasso necessario per mantenere una popolazione stabile. Inoltre undici paesi – fra cui Germania, Austria, Italia, Ungheria e i tre paesi Baltici – hanno “incrementi naturali negativi” (cioè più morti che nascite all’anno), un chiaro passo in discesa nella spirale della morte demografica.
Questi dati sono abbastanza impressionanti nel complesso. Ma il diavolo è nei dettagli che illustrano graficamente cosa succede quando un continente più in salute, più ricco e più sicuro che mai, non riesce a produrre il futuro umano nel senso più elementare. Così, salvo improvvisi capovolgimenti, gli stessi belgi che adottano forme sempre più avanzate di politicamente corretto, nel 2020 vedranno la loro popolazione ridotta a 7 milioni di persone; a metà del secolo potranno essere appena 4 milioni e mezzo di persone. Nel 2050 gli spagnoli, il cui governo sta ferventemente smantellando la vita sociale e culturale tradizionale, potrebbero vedere una diminuzione della loro popolazione del 25 per cento.
In Germania né durante la campagna elettorale, né dopo con l’insediamento del governo democratico cristiano di Angela Merkel, è stato affrontato il problema incombente del sistema sanitario e pensionistico statale tedesco, in cui un numero sempre minore di lavoratori contribuenti deve sostenere un numero sempre crescente di pensionati. Contemporaneamente, grazie agli stessi trend demografici, entro la metà del secolo probabilmente la Germania perderà l’equivalente dell’intera popolazione dell’ex Germania dell’Est. Sebbene il presidente tedesco Horst Köhler si sia speso pubblicamente per aumentare il tasso di crescita del paese, ora pari a 1,39 un sondaggio recente indica che il 25 per cento dei ragazzi e il 20 per cento delle ragazze fra i venti e i trent’anni non intende avere figli – e la reputa una scelta del tutto legittima.
Poi c’è l’Italia, le cui grandi famiglie allargate sono state per lungo tempo un ingrediente dell’immaginario mondiale. Ma la realtà è molto diversa: in base ai trend attuali, nel 2050 quasi il 60 per cento degli italiani non saprà cosa vuol dire avere un fratello, una sorella, una zia, uno zio o un cugino. Ma forse non è una cosa sorprendente in un paese in cui l’età media di un uomo alla nascita del suo primo figlio è di 33 anni e le persone con più di 65 anni sono molte di più di quelle con meno di 15 anni. (Anche in Germania, Spagna, Portogallo e Grecia la popolazione con più di 65 anni supera quella con meno di 15 anni). Né il fenomeno disastroso è limitato alla “Vecchia Europa”; si prevede che nel 2050 la popolazione della Bulgaria diminuirà del 36 per cento e quella dell’Estonia del 52 per cento.
Nel prossimo quarto di secolo in Europa il totale dei lavoratori diminuirà del 7 per cento, mentre il numero degli ultra sessantacinquenni aumenterà del 50 per cento, tendenze che produrranno difficoltà fiscali intollerabili per il welfare state di tutto il Continente. I conseguenti dissidi intergenerazionali metteranno sotto forte pressione le politiche nazionali, pressioni che potrebbero, in molti modi, liquidare definitivamente il progetto di “Europa” come era stato concepito sin dai tempi dell’istituzione, nel 1952, della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio, il predecessore istituzionale dell’attuale Unione Europea. La demografia è un destino, e le demografie del declino europee – mai viste nella storia dell’umanità in assenza di guerre, epidemie e catastrofi naturali – stanno creando inevitabili enormi problemi.

L’immigrazione musulmana colma il vuoto demografico europeo
Ancora più profeticamente, la caduta libera demografica dell’Europa rappresenta il legame fra la Guerra Culturale A e la Guerra Culturale B. La storia aborre i vuoti e il vuoto demografico, creato dai tassi di crescita autodistruttivi europei, viene colmato ormai da diverse generazioni, da una massiccia immigrazione proveniente da tutto il mondo islamico. Chiunque si sia preso la briga di dare uno sguardo, avrà notato che gli effetti più immediati di questa immigrazione sono ben visibili nel panorama urbano sempre più segregato dell’Europa continentale, dove normalmente una periferia suburbana povera e musulmana circonda un cuore urbano europeo benestante.
Ma il cambiamento va ben oltre l’apparenza delle aree metropolitane europee. In Francia esistono dozzine di aree “ingovernabili”: sobborghi in gran parte dominati dai musulmani, dove la legge francese non vale e la polizia francese non entra. Anche in altri paesi europei si possono trovare tali enclave extraterritoriali, dove chierici musulmani locali applicano la legge della sharia. Inoltre, come Bruce Bawer illustra dettagliatamente nel suo nuovo libro, While Europe slept, le autorità europee si curano poco o per niente delle pratiche della loro popolazione musulmana che sono fisicamente crudeli (la circoncisione femminile), moralmente crudeli (i matrimoni combinati e imposti), socialmente dannosi (come rimandare i bambini musulmani nelle madrasse estremiste del Medio Oriente, del Nord Africa o del Pakistan per l’istruzione primaria e secondaria ) e illegali (i delitti di “onore” in caso di adulterio o di stupro – dove è la vittima dello stupro che viene uccisa).
In realtà il problema non è solo che i governi europei scelgono di chiudere un occhio davanti a queste cose. I sistemi di welfare europei sostengono generosamente immigrati che disprezzano i paesi che li ospitano e che si rivoltano con violenza contro di loro – per esempio nel caso degli attentati alla metropolitana e agli autobus di Londra del 7 luglio del 2005. Come Melanie Phillips scrive in Londonistan, gli attentatori di Londra erano «ragazzi britannici, il prodotto di scuole e università britanniche e dello Stato sociale britannico, che con il loro comportamento hanno ripudiato non solo i valori britannici, ma i più elementari codici di umanità. Né erano dei pazzi solitari. Quello che li ha spinti ad entrare nella metropolitana con i loro zaini e a far esplodere se stessi e i loro concittadini è stata un’ideologia che si è diffusa come un cancro non solo nelle madrasse del Pakistan, ma nelle strade di Leeds e Bradford, Oldham e Leicester, Glasgow e Luton».
Come se non bastasse, grazie alla liberalità delle leggi penali europee, i criminali musulmani sediziosi vengono spesso trattati in maniere che ricordano il mondo della Regina Rossa e dei suoi “impossibile prima di colazione”. Così Mohammed Bouyeru, l’olandese-marocchino che nel 2004 ha ucciso il regista Theo van Gogh in una strada di Amsterdam e poi ha affisso la sua fatwa personale al petto della vittima con un coltello da cucina, mantiene il diritto di voto e potrebbe, se volesse, candidarsi al Parlamento olandese. Nel frattempo, almeno due parlamentari olandesi che criticavano l’estremismo islamico, essendo stati oggetto di minacce da parte di musulmani sono stati costretti a vivere in prigioni o in caserme dell’esercito sotto tutela della polizia o dei militari.
Sessant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’istinto di pacificazione europeo è vivo e vegeto. Le piscine pubbliche francesi sono state divise per sesso in seguito alle proteste musulmane. Le tazze con “Piglet” [personaggio dei cartoni animati raffigurante un maialino, ndt] sono scomparse da alcuni negozi britannici dopo che i musulmani avevano lamentato di trovare il personaggio di A. A. Milne offensivo per le sensibilità islamiche. Lo stesso è successo al gelato al cioccolato Swirl di Burger King, che ricordava ad alcuni musulmani delle scritte in arabo del Corano. Bawer racconta che la Croce Rossa Britannica ha eliminato gli alberi di Natale e le rappresentazioni della natività dai suoi negozi per paura di offendere i musulmani. Per ragioni simili, la polizia olandese, negli strascichi dell’omicidio van Gogh, ha distrutto un murale a Rotterdam che proclamava “Quinto, non uccidere” e agli studenti è stato proibito di applicare la bandiera olandese agli zaini, perché gli immigrati potrebbero ritenerla una “provocazione”. I media europei ricorrono spesso all’autocensura quando debbono parlare di estremismo islamico nei loro paesi o di crimini commessi dai musulmani, e la loro copertura della guerra al terrorismo fa apparire equilibrati i mainstream media americani. Quando vengono alla luce problemi interni legati ad immigrati musulmani, la reazione dei media europei, secondo Bawer, di solito è autocritica. A Malmö, la terza città svedese per grandezza, gli stupri, i furti, gli incendi alle scuole, i delitti “d’onore” e le agitazioni antisemite erano così sfuggite dal controllo che molti svedesi del luogo sono andati via; il governo ha dato la colpa dei problemi di Malmö al razzismo degli svedesi e ha rimproverato chi aveva erroneamente concepito l’integrazione come “due categorie ordinate gerarchicamente”, un “noi” che dobbiamo integrare e un “loro” che devono essere integrati.

Quando appeasement vuole dire arrendersi
Il Belgio, da parte sua, ha istituito un Centro governativo per le pari opportunità e la lotta al razzismo (ceeor) che recentemente ha accusato un fabbricante di cancelli per garage, di far lavorare gli operai musulmani solo in fabbrica, senza mai mandarli a istallare i cancelli a domicilio. Secondo il giornalista belga Paul Belien, il cui Brussels Journal (www.brusselsjournal.com) è un’importante fonte di informazioni sulle guerre culturali europee, il ceeor ha rifiutato di perseguire un musulmano che aveva creato una serie di fumetti antisemiti, perché facendolo avrebbe “infiammato la situazione”.
Come forse si poteva prevedere, gli ebrei europei hanno spesso fatto la parte del canarino nella miniera nei processi di integrazione islamica. Due anni fa un disc jockey parigino fu brutalmente assassinato e il suo assalitore gridava: «Ho ucciso il mio ebreo, andrò in paradiso». Nella stessa notte un altro musulmano uccise una donna ebrea, davanti agli occhi inorriditi della figlia. Ma al tempo, come ha scritto l’editorialista Mark Steyn, «nessuno dei principali giornali francesi riportò la storia» di questi omicidi. Lo scorso febbraio i media francesi riportarono, invece, l’orribile assassinio di un ragazzo ebreo di 23 anni, Ilan Halimi, torturato per tre settimane da una banda di islamisti; la sua famiglia sentiva le urla del ragazzo torturato durante le telefonate che chiedevano il riscatto mentre, scrive Steyn «i torturatori leggevano a voce alta versi del Corano». Cita un detective della polizia che si scuoteva di dosso la dimensione jihadista dell’orrore dicendo che era tutto piuttosto semplice: «Gli ebrei significano denaro».
Questi modelli di sedizione e pacificazione sono divenuti finalmente palesi a tutti all’inizio di quest’anno nella jihad contro le vignette danesi. Le vignette che raffiguravano Maometto di per sé causarono scarsa attenzione in Danimarca e altrove quando furono pubblicate sul quotidiano di Copenhagen, Jylliands-Posten, per la prima volta, l’anno scorso. Ma quando gli imam islamici danesi iniziarono ad agitare tutto il Medio Oriente (aiutati da tre ulteriori vignette, molto più offensive, di loro invenzione) esplose un furore internazionale e dozzine di persone furono uccise da musulmani in rivolta in Europa, Africa e Asia. Come Henrik Bering scrisse sul Weekly Standard: «Improvvisamente i danesi erano il popolo più odiato della Terra, le loro ambasciate venivano attaccate, la loro bandiera bruciata e paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita ed altri vati dell’illuminismo davano lezioni di tolleranza religiosa».
L’Europa, nel complesso, ha reagito intensificando l’appeasement. Così l’allora ministro italiano per le Riforme, Roberto Calderoli, fu costretto a dimettersi per aver indossato una maglietta con una delle vignette offensive – un atto sconsiderato che, deduceva l’allora Primo ministro Silvio Berlusconi, aveva causato gli assalti al consolato italiano a Benghazi in cui erano state uccise undici persone. I giornali che pubblicavano le vignette subirono forti pressioni politiche; alcuni giornalisti furono oggetto di accuse penali; siti web furono costretti a chiudere. La catena di supermercati Carrefour, presente in tutta Europa, inchinandosi alla pretesa islamista di boicottare i prodotti danesi, espose nei suoi magazzini cartelli in lingua araba e inglese che esprimevano “solidarietà” alla “comunità islamica”, notando, cosa inelegante ma rivelatrice, che “Carrefour non vende prodotti danesi”. Il governo norvegese costrinse il direttore di una pubblicazione cristiana a scusarsi pubblicamente per aver pubblicato le vignette danesi; alla conferenza stampa il povero direttore era circondato da ministri e imam norvegesi. Il commissario per gli Esteri dell’Unione Europea, Javier Solana si è trascinato in un pellegrinaggio di scuse da un paese arabo all’altro, dichiarando che gli europei condividevano “il dolore” dei musulmani “offesi” dalle vignette danesi. Per non essere da meno, il commissario agli Affari giuridici dell’ue, Franco Frattini, ha annunciato che l’Unione europea istituirà un “codice per i media” che incoraggi la “prudenza” – dove “prudenza” è un sinonimo di “resa”, comunque la si pensi sui meriti artistici o sulla sensibilità culturale dimostrata dalle vignette più famose del mondo.
Per quanto ciechi, i politici che negli anni Trenta tentarono un approccio pacificatore con l’aggressione totalitaria, almeno pensavano di difendere il loro stile di vita. Bruce Bawer (seguendo la ricercatrice Bat Ye’or) sostiene che l’appeasement europeo verso gli islamici corrisponde ad autoinfliggersi la dhimmitude: cercando di rallentare la crescente ondata islamica, molti leader nazionali e transnazionali europei cedono aspetti fondamentali della sovranità, trasformando gli europei origirnari in cittadini di seconda e terza classe nei loro stessi paesi.
Bawer attribuisce la mentalità pacificatrice europea e le sue conseguenze alla smania del politicamente corretto multiculturale, e sicuramente c’è del vero in questo. Perché, in un simpatico esempio di ironia intellettuale, il multiculturalismo europeo, basato sulle teorie postmoderne della presunta incoerenza del sapere (e quindi della relatività di tutte le rivendicazioni della verità), è diventato esso stesso estremamente incoerente, per non dire contraddittorio.
Prendete, per esempio, il caso di Iqbal Sacranie, segretario generale del Consiglio musulmano britannico, nominato dal primo ministro Tony Blair suo consigliere per gli affari musulmani, cosa che gli è valsa la nomina a cavaliere. In una serie di episodi che sembrano qualcosa visto attraverso le lenti di Lewis Carroll, Sir Iqbal ben presto si è recato alla bbc per annunciare che l’omosessualità «danneggia le stesse fondamenta della società»; in seguito alle proteste della lobby gay britannica, è stato posto sotto indagine dalla Comunity safety unit di Scotland Yard, la cui competenza include «i crimini razzisti e l’omofobia»; in seguito, quando una lobby musulmana chiese a Blair di cancellare la giornata commemorativa dell’Olocausto, istituita alcuni anni prima, Sir Iqbal appoggiò la richiesta, informando il Daily Telegraph che «i musulmani si sentono feriti ed esclusi perché le loro vite non sono considerate alla pari di quelle perse al tempo dell’Olocausto».
Però attribuire la responsabilità della paralisi europea alla mania per il politicamente corretto “multi-culti”, significa fermarsi alla superficie delle cose. La Guerra culturale A – il tentativo di imporre il multiculturalismo e uno stile di vita libertino in Europa limitando la libertà di parola , definendo bigotteria le convinzioni religiose e morali e usando i poteri dello Stato per imporre “integrazione” e “sensibilità” – è una guerra sul significato della tolleranza stessa. Quello che Bawer giustamente deplora come politicamente corretto fuori controllo, è radicato in un malessere più profondo: il rifiuto della convinzione che gli esseri umani, per quanto in maniera inadeguata e incompleta, possano cogliere la verità delle cose – una convinzione che per quasi due millenni è stata alla base della civiltà europea, formatasi dall’interazione di Atene, Gerusalemme e Roma.
L’alta cultura postmoderna europea ripudia questa convinzione. E poiché concepisce solo “la mia verità” e “la tua verità”, rifiutando con determinazione qualsiasi idea di “verità”, può concepire la tolleranza solo come indifferenza alle differenze – un’indifferenza che deve essere imposta da uno Stato coercitivo, se necessario. L’idea di tolleranza come confronto di differenze nel vincolo della civiltà (come disse una volta Richard John Neuhaus) è essa stessa considerata intollerante. Chi difende la vera tolleranza della discussione pubblica ordinata su rivendicazioni di verità in competizione fra loro (comprese le convinzioni religiose e morali) rischia di essere allontanato, e in alcuni casi è allontanato, dalle pubbliche piazze europee, marchiato come “bigotto”.
Ma il problema è ancora più profondo. Intanto, per quanto i postmodernisti europei possano proclamare la loro devozione alla relatività di tutte le verità, in pratica questo si traduce in una cosa molto diversa – cioè il disprezzo dei valori tradizionali occidentali combinato a una studiata deferenza di quelli non o antioccidentali. Nel modo di pensare relativista, viene quindi fuori, non tutte le religioni e le convinzioni morali sono bigotterie da sopprimere; lo è solo quella giudaico-cristiana. In breve, il relativismo morale dell’Europa è spesso solo di facciata, una maschera per l’odio di sé occidentale.
Inoltre, il devastante scetticismo europeo va a braccetto con quello che Alan Bloom definì debonair nihilism – un nichilismo che, nella sua indifferenza a qualsiasi cosa oltre il sé, ha dato il suo contributo alla incapacità del continente di creare il futuro, creando generazioni successive. Bruce Bawer ha lasciato l’America per l’Europa a causa di quella che considerava una minacciosa influenza della destra religiosa sulla politica americana, e perché l’Europa era molto più “aperta” degli Stati Uniti ai matrimoni omosessuali. Sembra non cogliere che quello che ha reso l’Europa attraente per quelli come lui – la sua presunta apertura morale – è quello che l’ha resa così vulnerabile all’Islam estremista.
Bawer suggerisce che l’Europa possa riguadagnare il suo coraggio e difendere le sue società libere, rifiutando il politicamente corretto multiculturale ma conservando l’espressione politica dello scetticismo e del relativismo: la libertà concretizzata nella legge sotto forma di autonomia personale estrema. Ma è proprio l’autonomia personale estrema che ha contribuito a far precipitare l’Europa in questo rapido declino demografico; è l’autonomia personale estrema che ha portato l’Europa a denigrare le conquiste della sua stessa civiltà, vedendo nella sua storia solo repressione e intolleranza; ed è l’autonomia personale estrema che è alla base del politicamente corretto e dei suoi effetti corrosivi sulla capacità dell’Europa di difendersi dall’aggressione islamica interna.

Ratzinger e Pera, una base di valori comuni fra laici e cattolici
Un’analisi diversa e molto più persuasiva delle guerre culturali europee è emersa da un rimarchevole dialogo avvenuto nel 2004. Gli interlocutori di questa conversazione potrebbero apparire un po’ improbabili: Marcello Pera, un accademico italiano agnostico poi dedicatosi alla politica (è stato presidente del Senato), e il Cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, la principale agenzia teologica della Chiesa cattolica.
Pera aveva tenuto una lezione su “Relativismo, Cristianità e Occidente” all’Università Pontificia Lateranense di Roma; Ratzinger, su invito di Pera, aveva tenuto un discorso in Senato su “Le radici spirituali dell’Europa”. I due avevano poi iniziato a scambiarsi lettere per esplorare l’impressionante convergenza di analisi che aveva caratterizzato i loro interventi. Le lezioni e le lettere sono state pubblicate nel 2005 in un piccolo libro che aveva creato un certo rumore, destinato a intensificarsi nel successivo aprile, quando Joseph Ratzinger divenne Papa Benedetto XVI. Il volume di Ratzinger e Pera è stato ora pubblicato negli Stati Uniti col titolo: Senza radici:Occidente, relativismo, Cristianità, Islam.
Molto prima di diventare Papa, Joseph Ratzinger, un intellettuale ampiamente rispettato che era subentrato a Andrei Sakharov alla presidenza della prestigiosa Académie des sciences morales et politiques francese, da molto tempo avvisava i suoi concittadini europei che il loro gingillarsi con i giochini del postmodernismo stava causando seri problemi alle loro società e alle loro politiche. Questi problemi, sostiene qui, sono al tempo stesso intellettuali, spirituali e morali. Il «crollo delle certezze originarie dell’uomo [europeo] su Dio, se stesso e l’universo» ha portato al «declino della coscienza morale fondata sui valori assoluti» e al «reale pericolo» della «autodistruzione della coscienza europea». Perché, chiede Ratzinger, l’Europa «ha perso ogni capacità di amare se stessa»? Perché l’Europa riesce a vedere nella propria storia solo «quanto vi è di deplorevole e distruttivo... [e] non riesce più a percepirne gli aspetti grandi e puri»?
I secolaristi europei hanno già ascoltato critiche come quelle di Ratzinger e le hanno liquidate come le perorazioni interessate dei cristiani militanti. La gradita sorpresa in Senza radici è la risposta di Marcello Pera: in sostanza una critica speculare da parte di chi si descrive come un non credente e un filosofo della scienza. «Infettati da un’epidemia di relativismo», scrive Pera, gli europei credono che «accettare e difendere la propria cultura sarebbe un atto di egemonia, di intolleranza, [che tradisce] un atteggiamento anti-democratico, anti-liberale e irrispettoso». Ma proprio questa tossina li ha portati nella “prigione” del politicamente corretto, una “gabbia” nella quale «si è rinchiusa l’Europa [...] per paura di dire cose che non sono per niente scorrette ma piuttosto comuni verità, per evitare di affrontare le proprie responsabilità».
Pera è diretto anche quando parla della riluttanza dell’Europa a difendersi contro l’Islam estremista. Gli europei comprendono, si chiede, «che è in gioco la loro stessa esistenza, che la loro civiltà è diventata un bersaglio e la loro cultura è sotto attacco? Capiscono che sono stati chiamati a difendere la loro stessa identità? Con la cultura, l’istruzione, i negoziati diplomatici, le relazioni politiche, gli scambi economici, il dialogo, la predicazione, ma anche, se necessario, con la forza?».
Nel suo saggio contenuto in Senza radici, Ratzinger, facendo sua una idea di Tonybee, ipotizza che qualsiasi rinnovamento della morale europea possa essere operato solo da “minoranze creative” che sfideranno il secolarismo, l’ideologia de facto dell’ue, ricorrendo a un nuovo incontro con l’eredità morale e religiosa giudaico-cristiana dell’Europa. Da parte sua, Pera suggerisce la necessità che «l’opera di rinnovamento [...] sia compiuta da cristiani e secolaristi insieme». Quell’opera, scrive, comporterà lo sviluppo di una «religione civile che istillerà i suoi valori attraverso la lunga catena che va dall’individuo alla famiglia, i gruppi, le associazioni, la comunità e la società civile, senza passare attraverso i partiti politici, i programmi di governo e la forza degli Stati e quindi senza alterare la separazione, nella sfera temporale, fra Chiesa e Stato» (enfasi nell’originale).
La proposta di una “religione civile” rimane piuttosto vaga, ma lo scorso febbraio i suoi contorni sono diventati più chiari, quando Pera ha lanciato un nuovo movimento chiamato “Per l’Occidente, forza di civiltà”. Il manifesto del movimento inizia con una vivida descrizione delle due guerre culturali dell’Europa, continua affermando che la civiltà occidentale è una «fonte di principi universali e irrinunciabili» e impegna i firmatari (fra cui molti intellettuali e politici del centrodestra) in un vasto programma di rinnovamento: «privare [il terrorismo] di ogni giustificazione o sostegno»; integrare gli immigrati «in nome della condivisione dei valori »; sostenere «il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale»; smantellare la burocrazia superflua; «affermare il valore della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio»; diffondere «libertà e democrazia quali valori universali»; conservare la separazione istituzionale fra Stato e Chiesa «senza cedere al tentativo laicista di relegare la dimensione religiosa solamente alla sfera del privato»; promuovere un salutare pluralismo nel campo dell’istruzione. Il manifesto si conclude con una chiamata alle armi e un ammonimento: «Chi dimentica le proprie radici non può essere libero né rispettato».
Rimane da vedere se iniziative come quella di Marcello Pera, o analisi come quella che ha avanzato in tandem intellettuale con Papa Benedetto, cominciano a prendere piede nelle alte sfere intellettuali in Europa. Secondo alcuni è già troppo tardi, il punto di non ritorno demografico è stato raggiunto e, come dice Mark Steyn, «con la popolazione successiva [cioè l’Islam] già pronta al suo posto [...] resta solo da vedere quanto sarà sanguinoso il trasferimento di proprietà». Ma se vogliamo evitare che le due guerre culturali dell’Europa producano una accelerazione dell’emergenza “dell’Eurabia” (come l’ha definita Bat Ye’or), c’è bisogno, e presto, di qualcosa di simile all’iniziativa di Pera.
L’approccio alternativo al futuro dell’Europa è stato ben evidente nell’agosto del 2004, quando è morto Robin Cook, l’ex ministro degli Esteri britannico (contrario alla guerra in Iraq). Il funerale si è tenuto nella storica High Kirk di Edimburgo, St. Giles, ed è stato officiato dal vescovo Richard Holloway, l’ex primate anglicano di Scozia che alcuni anni fa ha scritto un libro in cui tentava di riconciliare i suoi lettori con quella che definiva la «grande indifferenza dell’universo». In seguito Holloway descrisse il funerale con queste parole: «Ero lì, un anglicano agnostico che diceva messa in una chiesa presbiteriana per la morte di politico ateo. E ho pensato che era una cosa meravigliosa».
Il nichilismo radicato nello scetticismo, prodotto dalla cattiva fede del relativismo morale e del disprezzo di sé dell’Occidente, che si consola con un vacuo umanitarismo: non solo tutto questo non è meraviglioso, ma ha contribuito a uccidere demograficamente l’Europa e a paralizzarla di fronte ad una ideologia aggressiva che vuole sradicare l’umanitarismo occidentale in nome di una idea distorta della volontà di Dio. Chi ama l’Europa e quello che essa ha significato e potrebbe significare per il mondo, farebbe bene a sperare che siano Marcello Pera e i suoi alleati fra i credenti e non il vescovo Holloway e i suoi compagni nichilisti raffinati, a vincere nella competizione per risolvere le due guerre culturali dell’Europa.


© Commentary, maggio 2006. Titolo originale: “Europe’s Two Culture Wars”.

(Traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)


George Weigel, Senior Fellow dell’Ethics and Public Policy Center di Washington, esperto del Vaticano per NBC News, è autore della più significativa biografia di Giovanni Paolo II. In uscita in italiano il nuovo libro sull’elezione di Benedetto XVI.

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