«La fine delle ipocrisie»
intervista a Claudio Velardi di Angelo Mellone
Ideazione di settembre-ottobre 2006

Claudio Velardi è una delle porte di accesso più referenziate al micromondo del lobbismo italiano. Una di quelle figure genuinamente complesse, un esempio calzante e vestito di lobbista “impuro”, da anni uscito dal porto franco delle ideologie per navigare nella politica per ciò che è: über alles, un gioco tra interessi contrapposti. Quello che, nella tradizione pluralista, con Robert Dahl si definisce pluralismo competitivo. Meglio d’ogni altra cosa lo dimostra un suo breve excursus biografico: comunista in gioventù, scala il pci fino a vestire alla fine degli anni Novanta la divisa di capostaff di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, e dunque caposquadra dell’ormai leggendaria crew dei “Lothar” dalemiani. Nel 2000 fonda Reti, che orgogliosamente definisce «la prima vera e trasparente agenzia di lobbismo italiano». Sede nello stesso palazzo del quartier generale berlusconiano di via del Plebiscito, con terrazza mozzafiato. I simboli contano. Come il suo portafoglio di clienti: Enel, Telecom, Fastweb, Autostrade, Sky, aziende delle telecomunicazioni e delle nuove tecnologie.
Nel 2001 è la volta di Running, agenzia di comunicazione pubblica e politica, che sforna campagne per candidati d’ogni taglia e schieramento e un master che, anno dopo anno, sta formando una piccola classe di comunicatori politici professionisti.
Nel 2002, invece, Velardi fonda il Riformista e con Antonio Polito dà vita a una piacevole avventura di giornalismo corsaro e sfacciatamente trasversale, oggi abbandonata a favore di un nuovo progetto annunciato qualche tempo fa in un’intervista a Barbara Palombelli sul Corriere della Sera: un web-channel interamente dedicato alle istituzioni. «Il nostro obiettivo» spiega «è quello di trattare in un formato giornalistico il linguaggio delle istituzioni a ogni livello, in modo da garantirne la più ampia diffusione. In un certo senso si tratta di “tradurre” quel linguaggio per rendere accessibile, in modalità soprattutto video, tutte le attività sia delle istituzioni rappresentative, dal Parlamento agli Enti locali, sia di quelle non rappresentative, come la Corte Costituzionale o le varie autorità, che vengono oggi percepite dall’opinione pubblica come luoghi accessibili solo a chi ne conosce i codici e gli stili “esoterici”».

Ecco, in tema di esoterismo, cominciamo ad affrontare il regno delle “arti oscure” del lobbismo: è la stessa cosa parlare di pubbliche relazioni?
Per niente.

Spieghiamolo.
È molto semplice. Mentre nelle pubbliche relazioni si fa da intermediari, proprio attraverso un sistema relazionale, tra diversi soggetti, nel caso del lobbismo propriamente inteso si fa un passo in più. Noi rappresentiamo aziende alle quali, per prima cosa, chiediamo di esporre la questione per cui si rivolgono a noi. Così creiamo una strategia di intervento nei rapporti con le istituzioni, un “percorso mirato” per risolvere il problema del nostro cliente, non solo individuando una pista da percorrere ma discutendo – e talvolta eccependo – la natura dei problemi. Mi spiego: prima di trasformare in una strategia d’azione la richiesta di un’azienda, ne accertiamo la plausibilità, in entrata, e ne moduliamo il contenuto. Per questo chi lavora con Reti deve avere una preparazione culturale solidissima.

Ovvero?
Il servizio base che offriamo come prodotto industriale è il monitoraggio quotidiano di tutte le attività istituzionali che interessano il nostro cliente, e che gli presentiamo sotto forma di resoconto. Poi elaboriamo un progetto di intervento, un insieme di strategie che ci consentano di portare a casa il risultato voluto: un contatto “importante”, un canale di dialogo per modificare un testo legislativo e così via.

Ha parlato di “prodotto industriale”. In termini più ampi, esiste oggi una vera e propria industria del lobbismo che opera nel nostro paese?
Sinceramente, penso di no. Chiariamoci: insieme a quello più noto, il lobbismo è uno dei lavori più antichi al mondo. Tutti quanti siamo lobbisti, pure a casa nostra: io, per esempio, faccio il lobbista di mio figlio intercedendo su mia moglie, con una serie di argomentazioni, per convincerla ad aumentargli la paghetta settimanale. Insomma, si fa lobbismo ogni volta che si lavora per far prevalere le proprie ragioni. Quando diventa la tua fonte di reddito, ecco che sei un lobbista vero e proprio. Noi facciamo quest’attività in maniera industriale e trasparente, altri – legittimamente, per carità – in modo meno professionale. Meno moderno.

Cioè scambiano il lobbista per un oscuro “inciucione”?
Più o meno. Prenda il Parlamento: è pieno di lobbisti. O di tantissimi studi legali che, a differenza di ciò che avviene negli Stati Uniti, agiscono come tali senza però dichiararlo pubblicamente.
Perché, e veniamo al punto, in Italia sopravvive una retorica negativa del lobbismo. “Lobbista uguale tipo poco raccomandabile” che tratta in segreto affari che spesso superano il limite della legalità.
C’è un’antichissima e radicatissima ostilità per il lobbismo in quanto tale. E ancor di più una terribile ipocrisia. Il lobbismo, lo ripeto, c’è sempre stato, solo che fino a pochi anni fa questo genere di attività era strutturato all’interno dei più grandi agenti di lobbismo mai presenti nel nostro paese: i partiti, gli agenti del lobbismo nel Novecento, che si regolavano attorno alle dinamiche della lotta di classe.

La classe operaia va dal consulente?
Il paradosso c’è, anche se meno stridente se buttiamo via le lenti distorcenti dell’ideologia. Siamo sinceri: fino a una ventina d’anni fa la classe operaia aveva il suo lobbista di riferimento, il pci e il sindacato, la Coldiretti eleggeva direttamente i propri rappresentanti nelle fila della dc. Ma anche Enrico Mattei o la Fiat riuscivano a far entrare in Parlamento dei propri “agenti di rappresentanza”. Bastava non dirlo, condire tutto con una spruzzatina di ipocrisia sull’interesse generale e il gioco era fatto. Poi, quando la nostra società s’è modernizzata e il contenitore-partito si è rivelato insufficiente per rappresentarne la complessità, gli interessi sono emersi in maniera più nitida. Questa è una delle conseguenze della laicizzazione della vita pubblica. Meno ideologia e più interessi. O meglio: meno retorica ideologica e più attenzione alle reali dinamiche sottostanti la politica.

Par di capire che il lobbismo “dichiarato” è un’invenzione della Seconda Repubblica.
Direi di sì, in un processo che da una marcata frammentazione dei processi si sta via via evolvendo verso una loro professionalizzazione. Con il solito handicap di partenza da un punto di vista terminologico: il lobbismo come sinonimo di un’attività che confina pericolosamente con l’illecito. È che continuiamo a confondere, i giornalisti per primi, “lobby” e “corporazioni”.

Distinguiamo.
È semplicissimo. Prendiamo ad esempio il decreto Bersani sulle liberalizzazioni. Tutti l’hanno presentato come il punto di partenza di una battaglia contro le “lobby”. Mentre bisognava scrivere che si tratta di una battaglia contro le corporazioni. Ovvero contro interessi strutturati e corazzati spesso in maniera non legittima. Il sistema neocorporativo italiano, che abbiamo ereditato dal fascismo, è legato all’idea di una società chiusa, strutturata per “pilastri” – i notai, gli avvocati, i giornalisti, i tassisti, i farmacisti e chi più ne ha più ne metta. Tu non entri in un gruppo di interesse, ma in una casta a cui aderisci per la vita e per la morte, il cui scopo è quello di perpetrare nel tempo un sistema di privilegi, il monopolio delle regole d’accesso. La lobby è tutt’altro, come il lobbismo: interessi trasparenti. Trasversali. Propri di una società di mercato.

Facciamo un esempio di lobby potente ma non corporativa.
Lo prendo non dai nostri clienti. L’Eni, un’azienda che riesce bene a fare lobbismo in campo nazionale e internazionale attraverso una propria struttura interna. E difende come si deve i suoi interessi, senza barare o falsare le regole del gioco. In maniera professionale. Capito? Esattamente l’opposto di quello che immaginano gli apologeti della società corporativa.

Ma abbiamo detto che anche in Italia, come altrove, il lobbismo è sempre esistito.
È sempre esistito ma in una forma perversa. Prendiamo l’idealtipo – se così lo possiamo chiamare – del lobbista italiano. Noi formiamo giovani con una consistente preparazione giuridica, trentenni che in due giorni sono in grado di prospettare a un’azienda un’efficace strategia d’azione per il problema che ci viene sottoposto. E i trentenni che formiamo fanno i lobbisti di professione, dichiarati. Il tradizionale lobbista all’italiana, invece, è un uomo del sottobosco governativo che, nell’Italia della Prima Repubblica, veniva “comprato” da qualche azienda che utilizzava la sua rete di conoscenze e le sue entrature per promuovere, sempre nei fumi del retrobottega, in maniera non trasparente, i propri interessi. Il Transatlantico è pieno di gente con il tesserino d’accesso che non ne ha i requisiti, perché non sono né parlamentari né ex parlamentari né giornalisti accreditati. Ogni tanto qualche presidente della Camera ha provato a cacciarli, a far fuori questo genere di traffichini – perché di questo in realtà si tratta – ma sono come un potentissimo virus: non lo debelli.

Non saranno tutti così, i lobbisti italiani.
Naturalmente. Poi ci sono le piccole minoranze. I grandi consulenti alla Guido Rossi, che intervengono quando bisogna concludere una grande operazione di mergering finanziario. Ma sono pochissimi e, soprattutto, non accettano la qualifica di lobbisti. Ancora, ci sono gli ex parlamentari che per campare si mettono al servizio di qualche azienda, ma interpretano il loro mestiere di lobbisti con la puzza sotto il naso, come un mero e poco onorevole espediente per sopravvivere. Da ultimi, ci sono i parlamentari eletti, i parlamentari “classici”, come il deputato che entra nelle istituzioni perché espressione dei cacciatori o degli ambientalisti, gruppi di pressione che gli forniscono le risorse. E lì è normale che si spendano per promuovere le ragioni delle associazioni e degli interessi di cui sono espressione.

Sarebbe bello, però, se lo dichiarassero esplicitamente.
D’accordissimo. Ho anche uno slogan: il lobbismo è la fine delle ipocrisie.

È per questo che non esiste nel nostro paese una legislazione che regoli le attività di lobbismo?
E meno male!

Ma come! Non dovrebbe essere contento per primo lei stesso di un riconoscimento per via legislativa della sua attività?
Se fosse questo, sì. Ma fino a oggi nel nostro paese hanno provato a fare il contrario: tutte le proposte di intervento legislativo sul tema del lobbismo sono state avanzate “in negativo”. Vale a dire per impedire o mettere barriere al lobbismo. Ma torniamo al punto di partenza: la classe politica vuole conservare per sé i privilegi non dichiarati dell’attività di lobbying. Oppure continua a intendere, soprattutto a sinistra, il lobbismo come un’attività coperta da un pericoloso velo di opacità. Poi se glielo vai a spiegare che non è così, alla fine capiscono. E per fortuna, i tentativi di “criminalizzare” il lobbismo sono stati bloccati.

È meglio il far west di oggi, allora?
Nemmeno quello, certamente. Tant’è che già a partire dalla scorsa legislatura abbiamo lavorato perché venga creato, presso tutte le istituzioni, un “Registro delle attività di lobbying”. Un meccanismo semplice e trasparente, che permetta di far emergere quel reticolo di rapporti, influenze, ingerenze – perché ci sono anche quelle – quel terreno pulviscolare di attività che avvengono e si creano dentro e attorno alle istituzioni. È una battaglia civile che abbiamo già ripreso. E contiamo di vincere. Altrimenti, che lobbisti saremmo?


Claudio Velardi, presidente della società Reti.

Angelo Mellone, giornalista, ricercatore di Comunicazione politica.

(c) Ideazione.com (2006)
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