Il fattore Chavez nell'anno elettorale
di Maurizio Stefanini
Ideazione di settembre-ottobre 2006

Era stato Alberto Ronchey a parlare per l’Italia di “fattore k”, da comunismo. Fu criticato, ma è un fatto che solo dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e il cambiamento di nome l’ex pci è riuscito a diventare forza di governo, e anche a portarsi appresso qualche scheggia che il nome di “comunista” lo usa tuttora. Per l’America Latina, si potrebbe iniziare a parlare di “fattore Ch”: che nell’alfabeto spagnolo è considerata una lettera diversa dalla “c”, e che si pronuncia “cè”. Esattamente come il Che Guevara, solo che qui ci riferiamo alla “ch” del presidente venezuelano Hugo Chávez.
Il fenomeno si è verificato più o meno alla metà di quella lunga serie di appuntamenti che nella regione chiamano “l’anno elettorale latino-americano”: dal voto in Honduras del 27 novembre 2005 alle presidenziali in agenda nello stesso Venezuela per il 3 dicembre 2006. Ma prima ancora ci sono state le elezioni che hanno portato a insediarsi alla presidenza il primo gennaio del 2003 Luiz Inácio da Silva Lula in Brasile, il 25 maggio 2003 Néstor Kirchner in Argentina e il primo marzo 2005 Tabaré Vázquez in Uruguay. Personaggi in realtà non del tutto assimilabili. Lula, infatti, è un ex sindacalista alla testa di un partito espressione diretta dei sindacati che in qualche modo riproduce la storia del laburismo inglese. Inoltre, per rassicurare l’elettorato moderato si è scelto come vicepresidente un industriale tessile espressione di un piccolo Partito liberale che può far parlare di una formula lib-lab: sbilanciata a sinistra dall’ulteriore alleanza con un Partito comunista già filo-albanese, ma riequilibrata poi al centro da successive intese con i centristi del Partito del movimento democratico brasiliano (pmdb) e addirittura con la destra del Partito progressista, già sostenitore del regime militare. Al contrario Kirchner è espressione di un Partito giustizialista la cui ultima delle molte giravolte storiche prima di lui era stata con Menem l’adesione alle privatizzazioni del Consenso di Washington e l’affiliazione all’Internazionale dc. Eletto contro Menem in un contesto in cui sia i peronisti che i radicali si erano frantumati in tre tronconi, l’oriundo svizzero ha fatto un cambiamento ulteriore, tornando a una retorica populista che ha scavalcato Lula a sinistra. Quanto a Vázquez, è un socialista alla testa di un “Fronte Ampio” che va dagli ex guerriglieri Tupamaros ai dc e a fuoriusciti degli storici partiti Colorado e Blanco. Ovvero, qualcosa di equiparabile alla coalizione di Prodi. Inoltre, approssimativamente tra l’insediamento di Lula e quello di Vázquez, si consuma la vicenda di Lucio Gutiérrez: colonnello fallito golpista riciclato alla lotta elettorale come leader populista alla Chávez; presidente però dell’Ecuador dal 15 gennaio 2003 dicendo di voler piuttosto assomigliare a Lula; e cacciato infine il 20 aprile 2005 da un’insurrezione popolare. Terzo capo di Stato ecuadoriano a fare quella fine in otto anni.

Quando Chávez inizia a parlare dell’“asse bolivariano” di governi di sinistra che si starebbe formando in America Latina il carisma di Gutiérrez è già abbastanza appannato da indurlo a non includercelo. In compenso assieme a Lula, Kirchner e Vázquez ci mette dal ferragosto del 2003 il paraguayano Nicanor Duarte Frutos, di quel Partito Colorado che è storicamente di destra, e che è rotto a ogni trasformismo peggio ancora dei peronisti: colorado quel generale Alfredo Stroessner dittatore tra 1954 e 1989; colorado quel generale Andrés Rodríguez che lo ha poi cacciato; colorado quel Juan Carlos Wasmosy che è stato tra 1993 e 1998 il locale referente delle politiche del Consenso di Washington; colorado quel generale Lino Oviedo che tentò contro di lui un golpe nel 1996; colorado quel Raúl Cubas divenuto presidente come prestanome dello stesso Viedo nel 1998; colorado quel vicepresidente Luis María Argaña del cui omicidio Cubas e Oviedo furono accusati; colorado quel Luis Ángel González Macchi portato alla presidenza fino al 2003 dopo l’insurrezione contro Cubas; e ora colorado anche Duarte, che mantenendosi sulla stessa macchina clientelare di potere flirta ora con Kirchner e Chávez. Inoltre nel blocco il presidente venezuelano colloca evidentemente lui stesso, al potere dal 2 febbraio 1999, ma riconsacratosi clamorosamente con la pur contestata vittoria al referendum revocatorio del ferragosto 2004. E, come precursore, Fidel Castro, líder máximo di Cuba dal capodanno del 1959.
A questo “asse bolivariano”, dal libertador Simon Bolívar, Chávez ha contrapposto un “asse monroiano”, da quel presidente James Monroe sotto cui fu elaborata quella dottrina “l’America agli americani” oggi vista dalla vulgata anti-yankee come una rivendicazione imperialista sull’intero Continente. Andrés Oppenheimer, un editorialista argentino che vive tra Miami e Città del Messico, ha vinto il Premio Pulitzer nel 1987, è il più noto latino-americanologo della cnn e redige una rubrica di analisi che dal Miami Herald è ripresa in tutti i paesi latino-americani, parla invece di “asse atlantico” e “asse pacifico”. Con valutazioni evidentemente opposte, le due coppie di definizioni definiscono però lo stesso fenomeno. A lungo “rappresentata” a colpi di votazioni pro e contro la condanna di Cuba alla Commissione per i Diritti Umani dell’onu, la spaccatura viene infine ufficialmente allo scoperto al quarto vertice delle Americhe tenutosi il 4 e 5 novembre 2005 nell’argentina Mar del Plata, col rifiuto dei quattro paesi del Mercosur e del Venezuela di concordare una data per la ripresa delle trattative sulla costruzione di un’area di libero scambio delle Americhe: vecchio progetto usa noto con l’acrostico di afta in inglese, di alca in spagnolo e portoghese. «Trenta paesi vogliono tornare al tavolo di discussione e cinque no», commenta il presidente messicano Vicente Fox, mentre Chávez celebra i contestatori come “i cinque moschettieri”.

Al fondo, la politica traduce un dato economico di fondo per cui mentre i paesi “pacifici” sono comunque interessati al mercato usa, quelli “atlantici” hanno prodotti in gran parte concorrenziali con quelli statunitensi, e il Venezuela esporta poi solo petrolio, che non ha comunque bisogno di intese per entrare negli usa. D’altra parte, nello stesso Congresso di Washington vi sono forti resistenze protezioniste, tant’è che da tempo ormai la Casa Bianca si muove sulla via degli accordi bilaterali. Né l’atteggiamento dei “cinque moschettieri” è in realtà univoco come sembrerebbe. Chávez, infatti, è contrario per principio a un’afta che al suo export petrolifero non serve, e lancia dunque lo slogan di una “Alternativa Bolivariana per le Americhe” (alba) per soli latinoamericani. Brasile e Argentina, invece, dicono che a loro l’afta andrebbe pure bene, se gli usa togliessero i sussidi alla loro agricoltura, e non mancano di collaborare con la Casa Bianca su vari temi, fino a fare peace-keeping tutti assieme ad Haiti. Mentre i piccoli Uruguay e Paraguay, pur accettando la disciplina interna al Mercosur, lasciano intendere che un accordo bilaterale con gli usa a loro potrebbe anche interessare.
A quel punto, però, le armi sono ormai affilate. E l’anno elettorale scandisce appunto le date degli scontri di questo immenso campo di battaglia, anche se per la verità il primo assaggio in Honduras è interlocutorio. Nell’ultimo paese in cui il tipico bipartitismo latinoamericano ottocentesco si è mantenuto pressoché intatto, infatti, entrambi i candidati principali hanno un profilo moderato e filo-usa. Anche lì, però, con la vittoria del liberale Manuel “Mel” Zelaya Rosales sul nazionale Porfirio “Pepe” Lobo Sosa si impone il candidato più a sinistra, mentre il presidente uscente era stato un nazionale. Il 4 dicembre scende poi in campo lo stesso Chávez con elezioni politiche che l’elezione decide all’ultimo momento di boicottare dopo aver presentato le liste, accusando la mancanza di garanzie. Malgrado il presidente dica che «chi non vota per me o non va votare è come se votasse per Bush», solo il 25 per cento dei venezuelani si reca alle urne: cifre ufficiali, perché l’opposizione parla di non più del 15 per cento. Lo schiaffo è notevole, benché la propaganda di regime cerchi di occultarlo in tutti i modi. Resta però il fatto che a questo punto i deputati dei partiti chavisti compongono la totalità dell’Assemblea Nazionale di Caracas.
L’11 dicembre la vittoria della socialista Michelle Bachelet in Cile rappresenta un dato interlocutorio. Figlia di un generale lealista con Allende che fu vittima del regime di Pinochet e perseguitata dal regime a sua volta, la Bachelet ostenta inoltre un linguaggio femminista e modernizzatore alla Zapatero che induce molti osservatori distratti a parlare di “onda lunga di sinistra”. In realtà i socialisti cileni stanno con dc e radicali nella Concertazione, alleanza rigidamente chiusa alla sinistra comunista. Più di Lula, del Frente Amplio o dell’Ulivo, dunque, ricorda quello che era in Italia il pentapartito della Prima Repubblica. Dopo essere stata esule in Germania Est, la Bachelet per diventare ministro della Difesa si è poi impratichita in Studi Strategici presso il Pentagono, ed ha anche fatto un figlio con un ex pinochetista. Dall’altra parte, il candidato che la costringe al ballottaggio è, per la prima volta nella storia della destra cilena dal ritorno alla democrazia, uno che nel 1988 si schierò contro il regime militare in occasione del referendum. Insomma, lo scenario è più di riconciliazione nazionale che di “sfondamento” dell’asse bolivariano nel Pacifico, e d’altra parte la Concertazione continua a far propria la politica economica ortodossa che ha iniziato il boom del paese fin dagli ultimi anni del regime militare.

L’asse di Chávez, invece, sfonda in Bolivia, dove il giorno 18 è eletto presidente al primo turno col 53,74 per cento dei voti Evo Morales, il cui Movimento al Socialismo (mas) ottiene la metà dei seggi al Congresso. Ora, come biografia Morales assomiglia più a Lula che a Chávez: non un ufficiale golpista ma un sindacalista, la cui organizzazione politica non si struttura dall’alto ma si costruisce dal basso. La Bolivia è però un paese molto più arretrato del Brasile, con gravi problemi economici e razziali, e il sindacato di Morales non era di operai metalmeccanici e dipendenti pubblici come quello di Lula, ma di piccoli produttori di coca, in lotta contro le politiche di sradicamento forzato imposte da Washington. In un paese dove i due terzi della popolazione sono indigeni, Morales è pure il primo indio ad arrivare alla presidenza, e per di più non è venuto alla ribalta attraverso quattro campagne elettorali come Lula, ma essenzialmente come capo delle mobilitazioni popolari che hanno costretto alle dimissioni di tre presidenti in due anni. Una volta eletto, va detto, Morales tenta di annacquare un po’ la sua immagine radicale e, dopo aver cavalcato la tigre della rivendicazione irredentista dello sbocco al mare perso dalla Bolivia in favore del Cile in una guerra ottocentesca, si reca in visita alla Bachelet per il suo insediamento, vede anche Condoleeza Rice e a entrambe regala un charango, tipico strumento musicale del suo paese. Ma insediatosi a sua volta, il 22 gennaio 2006, stabilisce subito un’alleanza economico-politica con Cuba e Venezuela, e annuncia una politica di nazionalizzazione degli idrocarburi e di espropriazione delle terre che certo corrisponde in gran parte a genuine esigenze nazionali, ma è fatta con modalità che non possono non evocare il chavismo.

Apparentemente opposta alla Bolivia è la situazione del Costa Rica, dove si vota il 5 febbraio 2006. Noto come “Svizzera dell’America centrale”, si tratta infatti dell’oasi di democrazia in testa a tutti gli indici di sviluppo umano, e che ha perfino abolito l’esercito, in nome dello slogan “meglio i maestri che i soldati”. Eppure, anche lì arriva l’ondata a sinistra. Affonda infatti completamente il Partito di Unità Social-Cristiana (pusc) del presidente uscente Abel Pacheco de la Espriella: un’amministrazione molto attiva in sede onu per il suo impegno ideologico, sulla violazione dei diritti umani a Cuba e su posizioni pro-vita in tematiche come l’aborto o la clonazione, ma colpito da alcuni gravi scandali. Mentre tradizionalmente il psuc era uno dei pilastri dello storico bipartitismo costaricense, stavolta il suo candidato Ricardo Toledo non oltrepassa il 3,43 per cento dei voti, e sul fronte moderato è addirittura superato dall’8,48 per cento di Otto Guevara: nome nazista, cognome comunista ma leader dell’ultraliberale Movimento Libertario. E per la presidenza c’è una specie di derby “progressista” tra Óscar Arias Sánchez e Ottón Solís Fallas. Il primo, già presidente tra 1986 e 1990, fu premio Nobel per la Pace nel 1987 per la sua decisiva mediazione nelle guerre civili in Nicaragua e El Salvador. Ed è esponente di quel socialdemocratico Partito di Liberazione Nazionale (pln) che è stato negli ultimi sessant’anni il principale protagonista della democrazia costaricense. Anche Solís viene dal pln, ma se ne andò sbattendo la porta nel 2000 per protesta contro l’abbandono della tradizionale ideologia assistenzialista del partito, e fondò il Partito di Azione Cittadina (pac). È avversario dichiarato del Trattato per il Libero Commercio con gli Stati Uniti e, pur essendo un personaggio certo lontano da gente come Chávez o Morales, è indubbiamente il leader più vicino a loro che si possa trovare in Costa Rica. Di fronte a lui Arias rappresenta l’omologo di altri ex presidenti come Rafael Caldera in Venezuela o Gonzalo Sánchez de Lozada in Bolivia: recuperati come ultima risorsa prima che i Chávez e Morales arrivassero al potere. E l’impressione è accentuata dalla revisione costituzionale con la quale nel 2003 si rimuove il divieto di rielezione del capo dello Stato, previsto fin dal 1969. Invece dei 20 punti di distacco che i sondaggi avevano pronosticato ad Arias, finisce 40,92 contro 39,80 per cento: appena 18.000 voti di scarto. Il Nobel comunque è eletto al primo turno, visto che la legge si accontenta di un quorum del 40 per cento. Ma il Tribunale Supremo Elettorale sposta la proclamazione di un paio di settimane per ricontare le schede da capo, lo sconfitto aggiunge nuove polemiche a quelle già avanzate sulla legittimità della candidatura di Arias, e la sensazione di generale malessere è accentuata da un livello di astensionismo record, al 34,56 per cento.
Ma la polemica del Costa Rica è niente rispetto a Haiti, dove si vota il 7 febbraio, dopo quattro rinvii. È il paese più povero di tutto l’Emisfero Occidentale, e in 202 anni di storia indipendente ha registrato solo nel 2001 il primo passaggio pacifico di consegne tra due presidenti democraticamente eletti. Un successo peraltro presto vanificato prima dal rinvio delle elezioni politiche da parte dell’eletto Jean-Bertrand Aristide, poi dalla sommossa armata che lo ha costretto alla fuga, imponendo l’arrivo di una Missione delle Nazioni Uniti di Stabilizzazione (minustah). Lì il 70 per cento di affluenza è invece un record, dopo che il 90 per cento dei 3,5 milioni di aventi diritto si era iscritto a registri elettorali. Ciò malgrado i 162 sequestri di persona solo a dicembre, una media di trenta assassinii al mese nella sola capitale Port-au-Prince, i 9 caduti in combattimento in 20 mesi tra i 9000 uomini della minustah, e il misterioso suicidio avvenuto il 7 gennaio del comandante stesso della minustah: il tenente generale brasiliano Urano Teixeira da Matta Bacellar. E a riprova dello spasmodico bisogno di normalità che questo voto ha espresso, ai primi due posti sono proprio arrivati i due unici ex presidenti con un carisma di istituzionalità: René Préval, tra 1996 e 2001 il primo e finora unico presidente in due secoli di storia di Haiti che dopo essere stato eletto democraticamente sia poi riuscito a trasmettere il potere a un successore in modo istituzionale; e Leslie François Manigat, nel 1988 il primo presidente democraticamente eletto nella storia di Haiti, anche se poco dopo rimosso dal golpe del generale Namphy. Mentre Manigat è un dc appoggiato pure dalle Chiese protestanti, Préval è però in odore di aristidismo, e riceve un’aperta simpatia dalla stampa cubana, anche se è visto bene pure negli usa. Comunque, quando i primi dati sembrano indicare che Préval ha mancato di poco il 50 per cento che gli permetterebbe di essere eletto al primo turno, i suoi sostenitori scatenano una sommossa al grido “Jacques Bernard non sa contare!” (Bernard è il direttore generale del Consiglio Elettorale di Haiti). Scorre altro sangue, e il 16 febbraio Préval è dichiarato vincitore, dopo che il conteggio è stato riaggiustato al 51,21 per cento. Non con particolare clamore, ma una volta al potere anche Préval si inserisce nell’orbita del Venezuela chavista, accettando le offerte di petrolio e assistenza di Caracas.

Ma a marzo, l’onda lunga “bolivariana” inizia a rifluire. Il 12 si vota infatti per il rinnovo del Congresso in Colombia, dove la sinistra radicale è handicappata in partenza dal massiccio ripudio popolare verso la narcoguerriglia di Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (farc) e Esercito di Liberazione Nazionale (eln). Per la prima volta nella storia i due partiti tradizionali Liberale e Conservatore non ottengono la maggioranza assoluta degli eletti: appena 36 liberali e 30 conservatori su 166 alla Camera; 18 conservatori e 17 liberali su 102 al Senato. Ma un’ampia maggioranza è acquisita dalla coalizione che appoggia il presidente Álvaro Uribe Vélez: ex liberale che ha rotto col suo partito su una piattaforma di intransigenza verso la guerriglia, e considerato il più stretto alleato di Bush in Sud America, dove il suo è l’unico governo che ha appoggiato l’intervento in Iraq (Nicaragua, El Salvador, Honduras e Repubblica Dominicana, che hanno mandato contingenti, stanno in America Centrale). Tutti assieme i conservatori, i due gruppi di ex liberali, il gruppo di ex guerriglieri, il movimento regionale e il gruppo indipendente che formano la maggioranza uribista prendono 95 deputati e 68 senatori. E il successo è ulteriormente confermato alle presidenziali del 28 maggio. Uribe Vélez, che pure ha fatto revisionare la Costituzione per candidarsi una seconda volta, diventa il presidente più votato dell’Emisfero, col 62,2 per cento. Il liberale ortodosso Horacio Serpa, il cui partito sta nell’Internazionale Socialista, si candida per la terza volta, ma non oltrepassa l’11,84 per cento, forse pagando anche una linea trasformista che l’ha portato ad appoggiarsi all’“ondata di sinistra” di Chávez. Secondo invece arriva col 22,04% Carlos Gaviria Díaz, leader di un fronte di sindacati, ong e partitini denominato Polo Democratico Alternativo, e che rappresenta in effetti come struttura un omologo del Partito dei Lavoratori (pt) di Lula o del mas di Morales. Attenzione, però! Per le peculiari condizioni di discredito in cui le farc gettano il radicalismo di sinistra in Colombia, il Polo Democratico Alternativo è in realtà un partito che su Chávez e Castro è abbastanza critico. Certamente più critico dei teoricamente più moderati liberali. In particolare Gaviria Díaz dice di non poter «accettare che Chávez faccia cose che condannerei se le facesse Uribe».

Tra il voto politico e quello presidenziale in Colombia il 9 aprile fa intanto in tempo a svolgersi il primo turno in Perù, paese che tra l’asse “bolivariano-atlantico” e quello “monroiano-pacifico” gioca un ruolo di frontiera. Da una parte, infatti, come nel primo gruppo ha una popolazione povera, divisa da risentimenti razziali e inviperita contro i risultati non soddisfacenti dei 16 anni di consenso di Washington praticati dalle amministrazioni di Fujimori e Toledo. Dall’altro, però, anche qui la sinistra è stata screditata: dai pessimi esiti del governo militare di sinistra del generale Velasco Alvardo e di quello del populista Alan García, e dal terrorismo di Sendero Luminoso e del Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru. Al voto dunque, arriva primo col 30,6 per cento Ollanta Humala: un colonnello di sangue indigeno che ha tentato a sua volta un golpe, e che a differenza da Gutiérrez è sponsorizzato da Chávez in modo aperto, tant’è che ne segue una clamorosa lite col governo Toledo, con tanto di ritiro dei rispettivi ambasciatori. E al secondo posto il redivivo Alan García, capitalizzando una tenuta quasi etnica dell’elettorato di appartenenza del suo Partito Aprista, la spunta dopo un lungo conteggio col 24,3 per cento contro il 23,8 per cento della cattolica Lourdes Flores Nano, in odore di Opus Dei. Ed è a questo punto che si scatena “il fattore Ch”. Nella sua campagna, infatti, García inizia a chiamare a raccolta l’elettorato moderato agitando il fantasma di Chávez, fino al punto di ottenere addirittura la dichiarazione di voto dello scrittore Mario Varga Llosa, che proprio contro il suo populismo aveva deciso di scendere in campo alle elezioni del 1990 con un suo partito liberale. Innervosito, Chávez reagisce nel modo più controproducente, scambiando insulti con García e suscitando negli elettori un soprassalto nazionalista per combattere il quale Humala è costretto a una scomoda presa di distanza da Caracas. Nel contempo, la nazionalizzazione di idrocarburi decisa da Morales in Bolivia è venuta a danneggiare soprattutto Brasile e Argentina, mentre un litigio per una cartiera al confine giudicata inquinante da Buenos Aires provoca un duro scontro tra Kirchner e Vázquez, che per rappresaglia annuncia addirittura l’intenzione dell’Uruguay di abbandonare il Mercosur e di stipulare un Trattato di Libero Commercio con gli usa per conto proprio. Insomma, invece di rafforzare l’“asse bolivariano” l’alleanza tra Chávez, Morales e Kirchner lo manda in pezzi, e si delinea un’alleanza alternativa tra Lula, Vázquez e la Bachelet, che attraverso l’Internazionale Socialista sponsorizzano Alan García. E finisce il 4 giugno 2006 con la vittoria dello stesso Alan García, col 52,6 per cento.
Il metodo, dunque, è ormai individuato. E nella campagna elettorale messicana il “fattore Ch” è a questo punto di nuovo usato da Felipe Calderón, del centro-destra del Partito di azione nazionale (pan). Lo stesso partito del presidente uscente Vicente Fox, anche se per la verità Calderón è un “ribelle” che alle primarie si è imposto contro il suo delfino ufficiale. Associato al presidente venezuelano è qui Andrés Manuel López Obrador, ex sindaco di Città del Messico e candidato alla presidenza per il Partito della rivoluzione democratica (prd). Anche se l’accusa potrebbe sembrare ingiusta. López Obradoer non è infatti né un militare né un sindacalista, ma un politico di professione. Non è un idolo dei no global, ma è anzi contestato duramente dal subcomandante Marcos che contro di lui organizza marce per convincere la gente a non votarlo. Il suo partito prd sta nell’Internazionale Socialista come quello di Alan García, e dice infatti che i suoi modelli sarebbero piuttosto Lula e la Bachelet. E non contesta l’accordo di libero scambio con usa e Canada nel nafta, limitandosi a chiedere una rinegoziazione della clausola sull’apertura del mercato agricolo dal 2008. È però vero che l’elezione di López Obrador segnerebbe un ritorno ai buoni rapporti con Cuba dei tempi di prima di Fox, e suonerebbe pure come una sconfessione dello stesso Fox dopo lo scontro con Chávez di Mar del Plata, dopo il quale anche i rapporti diplomatici tra Messico e Venezuela sono stati congelati come quelli tra Venezuela e Perù. D’altronde Chávez cade nella trappola, minacciando querele contro l’uso della sua immagine da parte del pan. Come già in Costa Rica, Haiti e Perù anche qui il 2 luglio 2006 finisce con un risultato all’incollatura dopo un conteggio estenuante, manifestazioni di protesta e accuse di brogli. Ma prevale Calderón, col 35,89 per cento contro il 35,31 (qui basta invece anche la maggioranza relativa), dopo che il rivale era stato per mesi costantemente in testa ai sondaggi. E quando gli osservatori chavisti a differenza di quelli dell’ue obiettano sulla correttezza del voto il vincitore ironizza: «Meno male che Chávez diceva di non avere nulla a che fare con López Calderon!». Ha comunque offerto al prd di partecipare a un governo di unità nazionale, scontrandosi con un rifiuto.
Ma lo stesso 2 luglio 2006 si vota anche in Bolivia, per un’Assemblea Costituente che Morales ha voluto fortemente. E anche lì il “fattore Ch” usato massicciamente dall’opposizione in campagna elettorale ha qualche effetto: il mas non ottiene infatti i due terzi dei seggi cui puntava, ma conferma sostanzialmente il poco più della maggioranza assoluta delle politiche. E i quattro dipartimenti più ricchi del paese, contro le indicazioni del presidente, votano pure “sì” a un referendum sulla devolution che agli occhi di un italiano assume un curioso sapore leghista. Insomma, Morales è sempre forte, ma non onnipotente.

A questo punto, si annunciano tre mesi di pausa. Il primo ottobre del 2006 si riprende in Brasile, dove la popolarità di Lula sembra più forte degli scandali del suo partito, e dove la riconferma del presidente è probabile. Ma come abbiamo visto Lula sta tessendo una sua tela per ridimensionare Chávez, pur senza isolarlo, mentre Chávez sponsorizza i “movimenti sociali” che a Lula creano problemi. A ruota vota il 15 ottobre 2006 l’Ecuador, dove con Lucio Gutiérrez un Chávez o Humala locale è già fallito. In compenso l’ex ministro dell’Agricoltura, antropologo e presidente del sindacato indigenista conaie Luis Macas si avvicina come profilo a Morales. Ma sia la conaie che il partito indigenista Pachakutik sono famosi per la loro rissosità interna, e stanno già mettendo la sua candidatura in difficoltà. È presumibile comunque una corsa a tre alla peruviana, col sindaco di Guayaquil Jaime Nebot nel ruolo della Flores e l’ex socialista ed ex vicepresidente León Roldós Aguilera che dopo aver creato un partito fai-da-te sta delineando un’evoluzione simile a quella del nuovo García. In passato era infatti considerato filo-Chávez, ma ora dice di sentirsi anche lui più vicino a Lula, e di voler mantenere buone relazioni sia con Washington che con Caracas.
Il “fattore Ch” colpisce invece in pieno in Nicaragua, dove si vota il 5 novembre, in un quadro dominato dalle personalità discusse di due ex presidenti: il liberale Arnaldo Alemán, che è finito in galera per corruzione, e il sandinista Daniel Ortega, che ha rischiato di finirci per molestie sessuali alla figliastra. Contro il “ladro” e “il pedofilo” sono dunque cresciute le candidature dell’ex sindaco di Managua Herty Lewites, che Ortega ha fatto espellere dal Fronte sandinista, e dell’ex ministro degli Esteri, Eduardo Montealegre, che Alemán ha fatto espellere dal Partito liberale. E all’inizio è stato Lewites a partire in testa. Ma poi Chávez ha iniziato ad appoggiare massicciamente Ortega, anche con forniture di petrolio ai sindaci sandinisti. E con il calo delle intenzioni di voto per Lewites è passato in testa prima Montealegre, poi lo stesso Ortega, mentre arranca in fondo il candidato di Alemán, José Rizo. Anche contro Ortega i due liberali avevano comunque iniziato ad agitare l’accusa di chavismo, e al momento del voto in Messico i due liberali assieme stavano al 43,6 per cento (26,5 di Montealegre e 17,1 di Rizo) contro il 42,2 dei due sandinisti (28 per cento di Ortega e 14,8 di Lewites). Proprio in quello stesso fatidico 2 luglio Lewites è però improvvisamente deceduto, e non è molto probabile che il candidato a lui sostituito dal suo movimento conservi i suoi consensi. Per essere eletti presidenti basta la maggioranza relativa.

A questo punto, come si è detto, il 3 dicembre si tornerà al voto nello stesso Venezuela, dove l’opposizione è stata tentata di ripetere il boicottaggio, ma dove d’altra parte Chávez ha cercato in molti modi di ottenere un flusso alle urne e una gamma di candidati tale da rendere le consultazioni credibili. Ha alternato infatti le pressioni sugli elettori con le minacce all’opposizione di indire un referendum per “restare fino al 2031” se sarà il solo a presentarsi, ma anche con blandizie a chi accetterà di presentarsi. Alla fine, l’opposizione ha scartato l’ipotesi di primarie, per trovare una formula in grado di mettere assieme i tre nomi opiù gettonati. Candidato alla presidenza sarà dunque Manuel Rosales, governatore di quello Stato Zulia che assieme a quello insulare di Neva Esparta è al momento l’unico non governato dai chavisti, ma che al contempo è anche la principale cassaforte petrolifera del paese: proveniente dal partito socialdemocratico di Azione democratica ma ultimamente alla testa di una formazione localista, è l'unico leader che può dire di aver sconfitto i chavisti per ben due volte, e il suo Stato vide anche la vittoria del sì al referendum revocatorio del 2004. Candidato alla vicepresidenza sarà Julio Borges, leader di un partito moderato che si chiama Primero Justicia e che è nato proprio nella lotta contro Chávez. “Direttore generale della strategia” sarà infine Teodoro Petkoff, ex guerrigliero protagonista in gioventù di spettacolari azioni e evasioni, che è stato poi un teorico del revisionismo antisovietico, un leader e candidato presidenziale dell’estrema sinistra, un ministro privatizzatore e un direttore di giornale: visto con antipatia d’altronde ricambiata da gran parte dell’opposizione ma rispettato nella sinistra internazionale, con forti simpatie nei ds italiani, per controbattere l’uso clientelare che Chávez fa della rendita petrolifera ha fatto la proposta di sapore libertarian di redistribuire gli utili direttamente a ogni cittadino attraverso buoni. Si è però candidato ufficialmente anche il comico Benjamin Rausseo, in arte El Conde del Guácharo, appoggiato dai due “comandi” Pechuga e Rumbero (= “Tette” e “Casinaro” e dal suo nuovo Partito Indipendente Elettorale di Risposta Avanzata (P.i.e.d.r.a.: "¡Bota piedra!" in spagnolo del Venezuela sta per “non rompere le balle” o simili, e quindi una sigla del genere suona come in italiano un “B.a.l.l.e”). Accompagnato da un corteggio di capre e somari, ha criticato la polarizzazione tra chavisti e antichavisti, ha detto che Chávez può considerarsi licenziato, e dopo aver camminato 300 metri verso il palazzo presidenziale ha commentato: «Sono già più vicino a Miraflores». L'ultimissimo sondaggio al momento di chiusura di questo articolo gli dà il 6,2 per cento delle intenzioni di voto, contro il 19,3 di Rosales e il 56,8 di Chávez.

 

Maurizio Stefanini, giornalista e saggista collabora con Il Foglio e il Giornale. È esperto di America Latina.

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