Lobbisti di tutta Europa unitevi
di Leda Petrone
Ideazione di settembre-ottobre 2006

In Italia è un’acquisizione recentissima l’uso del termine lobbying nel suo significato proprio1 e non più come dirty word2, sinonimo di affarismo fraudolento e corruzione. L’apertura all’accezione positiva del termine e quindi dell’attività stessa di lobbying si deve da un lato alla intuizione e al coraggio di quei pochi che nel nostro paese, sfidando opinione diffusa ed arretratezza culturale, hanno dato vita ad esperienze pionieristiche in questo campo, educando dal basso le aziende e il sistema politico ad un nuovo approccio alle istituzioni e al momento decisionale. Dall’altro, tale apertura è la conseguenza naturale della scomposizione del sistema decisionale e del ruolo che in esso svolge il dibattito comunitario, nel quale l’attività di lobbying gode di uno dei più alti livelli di maturità ed articolazione, e dove peraltro l’incapacità del nostro sistema in materia di rappresentanza degli interessi emerge in maniera eclatante.
Il dato non stupisce. La partecipazione del nostro paese alle fasi decisionali dell’Unione Europea è stata viziata per lungo tempo da un deficit di rappresentanza persino degli interessi più propriamente istituzionali. Il piano è completamente altro, ma sembra illuminante – rispetto alla scarsa consapevolezza con cui il nostro sistema decisionale si integra con quello comunitario – considerare il ritardo con cui l’Italia si è adeguata agli “standard di partecipazione dei parlamenti nazionali” dei paesi membri alla fase ascendente del diritto comunitario. Per quanto essa abbia partecipato attivamente al dibattito sviluppatosi in merito – segnato tra l’altro in maniera cruciale dal contributo del “Protocollo Napolitano”3 – solo nel 2005, con la legge comunitaria4, nel nostro paese è stato introdotto il sistema della “riserva di decisione parlamentare”, che consente finalmente al parlamento nazionale di esprimere un indirizzo al governo sulle principali questioni in via di definizione nell’ambito dei Consigli ue. Il ritardo con cui l’Italia è riuscita a veicolare le istanze provenienti dal suo parlamento, rispetto alla media degli altri paesi membri, è di circa dieci anni.

I fragili fondamenti di un pregiudizio teorico
Le ragioni di tale ritardo risiedono in un vero e proprio pregiudizio teorico, generato dall’impatto che il riconoscimento del ruolo dei gruppi d’interesse e della loro attività può avere su concetti cardine della teoria dello Stato alla base del nostro ordinamento: il concetto di rappresentanza politica, di interesse pubblico, di rappresentanza degli interessi. L’induzione fatta propria anche dai commentatori più attenti si può riassumere grosso modo così: la politica decide in base all’interesse pubblico, lobbying è fare pressione per ottenere una decisione favorevole a pochi, dunque contraria all’interesse pubblico. Tale induzione, solo apparentemente semplicistica e poco articolata, è in realtà la sintesi di una crisi del concetto di rappresentanza politica che assume nuove forme in relazione alla entrata in scena dei gruppi d’interesse, ma che non è certo nuova nella riflessione giuridica.
L’idea contemplata nel nostro ordinamento è quella di rappresentanza politica come rappresentanza dell’interesse generale5, legata al principio dell’assenza di vincolo di mandato, e ben lontana da quella concezione fluida e dinamica di interesse pubblico come «somma degli interessi dei componenti una determinata comunità» che risale già a Bentham. Tale impianto ha impedito di accedere alla convinzione che sia compito del governo e di un quadro regolatorio efficiente garantire un trasparente e corretto confronto degli interessi. Questo confronto permetterebbe, in base ad una valutazione politica, la selezione degli interessi meritevoli di tutela, come nella conclusione classica dell’importante teoria economica di stampo liberale cosiddetta della Public Choice, mai penetrata davvero nel dibattito teorico italiano6.
Nel nostro paese l’ipocrisia del dibattito sul monopolio della rappresentanza degli interessi da parte dei partiti politici ha concorso in maniera determinante alla scarsa visibilità e la scarsa legittimazione politica degli interessi particolari. Nascondendosi dietro la “missione” di dover rappresentare l’interesse generale, e nella consapevolezza omertosa di tutto il sistema sulla totale inadeguatezza del finanziamento pubblico, i partiti hanno fatto proprie le istanze ed i metodi meno legittimi, dando luogo a quelle commistioni tra politica ed affari che poi sono esplose in maniera devastante.
Tendere ad una definizione più marcata della distinzione tra ruolo rappresentativo dei partiti e loro attività di veicolazione degli interessi, mediante l’istituzionalizzazione di un sistema che legittimi i gruppi di pressione, può restituire ai partiti stessi la loro vocazione «costituente degli organi rappresentativi e di governo»7, luogo privilegiato di sintesi di tutte le istanze provenienti dalla società. I partiti non perderanno certo il ruolo di mediatori, ma potrà essere riservata loro un’area più confacente di rappresentanza di quegli interessi strettamente legati alle ragioni fondanti del movimento, o comunque di connotazione più generale. Le due forme sono da considerare nient’affatto sostitutive l’una dell’altra: anche nel caso di un partito fondato in maniera specifica sulla tutela dell’interesse di una determinata categoria (il Partito pensionati, ad esempio), le forme, il metodo e la capacità di influire sulle decisioni politiche saranno differenti e non in conflitto con un metodo lobbistico.
La legittimazione dell’attività di lobbying si accompagna inoltre alla conquista di un certo grado di autonomia della società civile e della sua capacità di associarsi per rappresentare e tutelare interessi economici e civili, accedendo in maniera diretta alle sedi deliberative e di governo. In un vero tessuto democratico la dialettica tra potere politico e autonomie civili è fondamentale ed in Italia è una conquista recente la consapevolezza del diritto dei gruppi rappresentativi degli interessi più vari a essere interlocutori diretti dei decisori e della loro legittimazione istituzionale8. Analizzate le cause della “questione pregiudiziale” nei confronti dell’attività lobbistica, si può con serenità finalmente affermare che essa non solo non ha effetti distorsivi sull’attività del legislatore, ma può avvantaggiarla notevolmente.
Come è facilmente riscontrabile forse più in ambito comunitario che in quello nazionale, il patrimonio di conoscenze mirate e dettagliate accumulate nell’ambito di un lavoro di lobbying può incrementare il livello di consapevolezza del decisore e diventare uno dei maggiori punti di forza dell’attività lobbistica. La complessità dei fenomeni da normare implica infatti che il singolo deputato o senatore, o il funzionario stesso della istituzione coinvolta, non possano essere in possesso di tutte le conoscenze ed i dati settoriali di cui può avvantaggiarsi un lobbista, interessato ed incentivato ad aggregare ed analizzare il maggior numero possibile di informazioni sul tema.
Nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione è alta la consapevolezza della significatività del ruolo dell’attività di lobbying nella garanzia di qualità ed efficienza delle norme. Da qui la necessità di tutelare la sua funzione come fattore fondamentale per la competitività del paese. La miopia nei confronti dell’azione dei gruppi di pressione in Italia ha determinato finora non solo la mancanza di una riflessione lucida su questo tipo di attività, ma soprattutto la incapacità di comprendere l’impatto che questa può avere sul sistema economico. Tale impatto è determinato da due fattori: il contributo effettivo che un’attività adeguata di lobbying può dare ad una migliore regolazione; i costi veri e propri, per il sistema, della mancata partecipazione di tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale.
Quanto al primo punto, le considerazioni già svolte sull’importanza dell’apporto delle informazioni in possesso di un gruppo di pressione, rispetto alla qualità ed efficienza della legislazione, sono supportate e valorizzate da quanto avviene in altre democrazie. Nel Regno Unito, ad esempio, da tempo l’attività di lobbying è considerata parte integrante delle politiche legislative, tanto da giocare un ruolo fondamentale nella strategia di better regulation.
In sedi istituzionali come la Task Force per la better regulation9, priorità assoluta è data al ruolo consultivo che i gruppi di pressione svolgono nel corso del procedimento legislativo10; e, cosa più importante, la stessa politica di better regulation è vista come strumento potenzialmente al servizio dell’attività lobbistica. Il Department of Trade and Industry, competente nella struttura di governo del Regno Unito per lo sviluppo delle politiche di competitività e concorrenza, riporta, tra i vantaggi della stessa, come la «Better regulation can be used as a guiding principle in lobbying. Companies should ask to see impact assessments. If they don’t agree with the evidence provided, they should make their views known». Dunque, addirittura una strategia istituzionale al servizio dell’attività lobbistica, intesa come momento fondamentale per lo sviluppo e per la competitività delle imprese.
Nonostante buona parte della disciplina in materia di semplificazione normativa11 preveda anche l’ampliamento delle procedure di consultazione e il diretto coinvolgimento delle categorie interessate nei processi di regolazione, è ragionevole dubitare che i lobbisti potrebbero disporre tempestivamente o in maniera agevole degli strumenti di analisi di impatto della legislazione. Essi infatti non sono ancora pacificamente ammessi in Parlamento e si scontrano con la reticenza delle istituzioni parlamentari e governative a far filtrare informazioni che esulano dall’ordinario procedimento legislativo.
Un’ampia ed articolata concezione della competitività economica, in altri sistemi politici fa dell’attività lobbistica non solo un momento fondamentale della migliore regolazione ma della migliore efficienza del sistema economico in generale. L’incapacità poi di un paese di fare un’adeguata pressione sulle istituzioni europee – è stato giustamente rilevato nel Rapporto cipi (Centro italiano prospettiva internazionale) 200612 – si traduce in una rinuncia netta ad un ritorno economico che non consiste, come nella visione più diffusa, nella capacità di partecipare adeguatamente alla spartizione dei fondi comunitari, bensì nell’essere in grado di influenzare in maniera adeguata il processo normativo e regolamentare dell’Unione. Un’efficace azione di lobbying europeo consiste proprio nella capacità «di influenzare quell’80 per cento della normativa europea che ha un impatto diretto o indiretto sullo sviluppo economico e sociale degli Stati membri»13. I dati forniti dal rapporto citato invece registrano il numero scarso di efficaci azioni di lobbying portate avanti dall’Italia nel contesto comunitario, l’incapacità di fare sistema, l’inadeguatezza professionale.
L’assenza di un’esperienza nazionale in tal senso è alla base di queste carenze; l’attività di rappresentanza degli interessi nel nostro paese è ancora poco riconosciuta e guardata con distacco o sospetto.

La regolamentazione dell’attività di lobbying
Uno dei principali ostacoli, nello svolgimento di tale tipo di attività, è la scarsa collaborazione da parte delle istituzioni. Non è questa la sede per discutere del livello di trasparenza del processo decisionale in Italia, ma si può denunciare senza dubbio un atteggiamento ostruzionistico delle istituzioni, che tendono a rilasciare le informazioni in tempi lunghi – rendendole dunque inutili – o a non rilasciarle del tutto. Conoscere i contenuti degli emendamenti ad un determinato testo di legge, come la Finanziaria, a distanza di poche ore dalla presentazione può essere del tutto inutile.
L’arroccamento delle istituzioni registrato fin qui ha avuto in alcuni casi anche delle giustificazioni teoriche, rintracciate nella debolezza dell’interlocutore pubblico che in Italia non può contare su strutture corpose e stabili proprie dei paesi in cui il fenomeno lobbistico è più radicato, e che dunque potrebbe portare ad una permeabilità eccessiva dell’apparato decisionale rispetto alle pressioni dei privati. È chiaro, invece, come il processo normativo ormai coinvolga in maniera sempre più complessa cittadini ed imprese, e sia necessario dunque anche per le istituzioni coinvolte dialogare e confrontarsi con tali realtà, anziché chiudersi.
Giungere ad una regolamentazione adeguata dell’attività di lobbying sembra un’esigenza improrogabile. In primis, sarebbe auspicabile un adeguamento dei regolamenti parlamentari, nel senso di una più agevole ammissione di tali professionisti nelle sedi di Camera e Senato o, come in altri paesi, nel senso della formalizzazione di prassi consolidate di audizione dei gruppi di interesse da parte delle Commissioni parlamentari. Gli unici atti normativi che riconoscono l’esistenza dei gruppi di pressione sono rappresentati dai regolamenti dei questori delle due Camere in merito alla concessione agli estranei dei permessi di accesso permanente ai palazzi. Atti interni, dunque, strettamente discrezionali e dai contenuti che invece andrebbero opportunamente pubblicizzati. Le norme dei Regolamenti di Camera e Senato, che non riconoscono esplicitamente l’esistenza del fenomeno, ma che vengono nella pratica utilizzate per i contatti istituzionali tra parlamento e gruppi, sono quelle relative alle attività conoscitive svolte dalle Commissioni. Non sono previste esplicitamente hearings praticabili in relazione alla discussione di ogni disegno di legge, ma in via di prassi è possibile indire “audizioni informali”, cui qualunque soggetto interessato può essere ammesso, ma a discrezione della Commissione e senza alcuna forma di resocontazione o pubblicità.
Le varie ipotesi di emanazione di una disciplina di legge ad hoc, invece, sono fino ad oggi sfumate; proposte in tal senso sono state presentate in parlamento sin dalla IX legislatura, ma con esiti sempre vani. I tipi di regolamentazione cui questa attività può essere assoggettata sono vari, ed i modelli statunitense e comunitario ne riflettono gli indirizzi. L’assenza di un’adeguata disciplina agevola senza dubbio l’attività dei gruppi più forti, realizzando proprio la condizione che si teme di legittimare con l’approvazione di una legge in merito. La conseguenza di questo atteggiamento è la presenza de facto dell’influenza di pressioni particolaristiche nei processi decisionali, che si è svolta e si svolge nell’ombra, e dunque nella possibilità di dar vita realmente a distorsioni illegittime dell’attività dei decisori. Prendere atto di come questo fenomeno sia una manifestazione fisiologica di tutti i sistemi politici complessi pare ormai improrogabile, laddove gli interessi rappresentati siano chiaramente legittimi e meritevoli di tutela.
L’esperienza comparata, pur nella diversità di approccio al fenomeno, insegna come il punto essenziale sia quello di sottoporre il flusso delle istanze rivolte ai decisori ad una regolamentazione basata essenzialmente sulla trasparenza. È fondamentale cioè assicurare la piena pubblicità delle posizioni portate a conoscenza delle istituzioni, sancendo che rappresentare interessi dichiaratamente di parte, nel rispetto di regole di trasparenza valide per tutti, che diano luogo ad un confronto aperto ed esplicito, possa contribuire a far assumere decisioni finali che godono di un maggior grado di imparzialità, oltre che di consapevolezza. A tale esigenza risponderebbero sia l’istituzione di un registro di tutti coloro che svolgono tale attività, sia gli obblighi previsti in vari modi dalle proposte presentate di relazionare periodicamente su attività svolte, soggetti contattati, settori rappresentati, spese sostenute. Tutti quegli elementi, insomma, utili a valutare, da parte di un organismo di controllo appositamente istituito, la legittimità delle azioni poste in essere. Le esigenze di trasparenza sono particolarmente tutelate nel modello di stampo statunitense, mutuato in tutte le proposte di legge presentate in Italia, anche perché in quella sede il fenomeno lobbistico è strettamente intrecciato al tema dei contributi dei privati alla politica: è esplicitamente previsto, nel Lobbying Disclosure Act, che il privato che si rivolge al politico nell’ambito di un’attività di rappresentanza dei propri interessi, possa versare allo stesso un contributo in danaro.
Se è vero che un tale quadro normativo alimenta le degenerazioni del fenomeno lobbistico alla Abramoff14, è vero anche che la difesa del finanziamento pubblico ai partiti portata avanti per anni in Italia ha contribuito a sviluppare un sistema occulto di contributi illegali che è poi esploso con eccezionale virulenza.
La soluzione a tali degenerazioni non risiede certo nel mancato riconoscimento dei rapporti tra gruppi d’interesse e politica, che anzi vanno regolamentati al fine di garantire correttezza e trasparenza15. Ammettere il contributo dei privati alla politica nel nostro ordinamento ha significato prendere atto ed affrontare realisticamente un problema – quello degli ormai altissimi costi della politica – che è alla base dei principali fenomeni di corruzione della storia recente; improntare ora entrambe le discipline ad obblighi di assoluta trasparenza e di controlli adeguati, sembra indispensabile.




Note
1. «Una delle forme moderne di intervento e rappresentanza degli interessi della società civile verso il mondo dei decisori politici», da “Fare lobbying vuol dire rafforzare la democrazia”, di Massimo Micucci, Il Riformista, 6 maggio 2004.
2. Rubens Razzante, “Lobbies e trasparenza: una regolamentazione possibile?”, in Problemi dell’informazione, settembre 2003, n. 3.
3. Giorgio Napolitano, “Valorizzare il ruolo dei parlamenti nazionali nella costruzione europea”, su www.europa.eu.int/constitution/futurum, nella sezione documenti del parlamento.
4. Legge 4 febbraio 2005, n. 11 recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”.
5. Concezione di stampo francese, contrapposta a quella di matrice anglosassone che ammette invece la rappresentanza politica come rappresentanza di interessi particolari, vedi in proposito Ivano Moreschini, “Lobby: le regole negli Stati Uniti e in Italia”, in Democrazie e diritto, 1995, n. 2.
6. Vedi in proposito Nicola Lupo, “Verso una regolamentazione del lobbying anche in Italia? Qualche osservazione preliminare”, intervento alla tavola rotonda svoltasi a conclusione del Convegno “Chi ha paura delle lobbies? Come e perché le lobbies possono far bene alla democrazia”, Firenze, 16 settembre 2005. (www.amministrazioneincammino. luiss.it, nella sezione Parlamento, Note e commenti).
7. Piero Trupia, “La democrazia degli interessi, Lobby e decisione collettiva”, 1989.
8. «Proprio oggi si invera la massima di Tocqueville sulla tendenza e necessità per i cittadini di associarsi nelle democrazie che, più che governo di popolo, sarebbero governo di gruppi. Gruppi che però non “premono” come clienti su uno Stato-patrono, ma “negoziano” con altri gruppi – nelle istituzioni – la partecipazione ai benefici dello sviluppo”, Piero Trupia, op. cit.
9. La Better Regulation Task force (dal 2006 Better Regulation Commission) è un organismo indipendente dedicato alle politiche di migliore regolazione, istituito dal governo inglese nel 1997, presso il Cabinet Office.
10. «Involving those being regulated in the design of regulations is not just about good practice; it also makes for better, more effective legislation and avoids the pitfall of unintended consequences». Sir David Arculus, “Better Regulation Task Force Report del 22 September 2005”, disponibile su www.brc.gov.uk/news/2005/euconsultation.asp.
11. Legge 8 marzo 1999, n. 50; Legge 28 novembre 2005, n. 246.
12. Paolo Raffone, “Le lobby d’Italia a Bruxelles”, disponibile su http://www.cipi-network.org, nella sezione Archivio, 2006.
13. Paolo Raffone, op. cit.
14. Jack Abramoff, uno dei più noti lobbisti statunitensi, coinvolto in due inchieste giudiziarie con vari capi d’imputazione, tra cui frode, evasione fiscale e finanziamenti illeciti.
15. Lo scandalo Abramoff negli Stati Uniti ha indotto l’elaborazione immediata di una normativa più restrittiva in materia di lobbying, certo non la sua delegittimazione.

Leda Petrone, dottoranda di ricerca in “Sistemi politici e giuridici comparati” all’Università di Lecce, esperta di lobbying e pubblica amministrazione.

(c) Ideazione.com (2006)
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