In un
libro pubblicato in Italia un paio di anni fa dall’editore Liberilibri,
intitolato Il giudice sovrano, Robert H. Bork, celebre avvocato e professore
di Diritto costituzionale alla Yale University, discute delle Corti Costituzionali.
Ma l’assolutismo dei giudici, che depreca, vale per qualsiasi grado
di giudizio, non solo di legalità ma anche di merito. Da decenni
si osserva che l’ordine giudiziario, senza rispondere in nessun modo
all’elettorato, si assume un compito politico: cerca di sostituirsi
al legislatore nel decidere come ci si debba comportare. Il pretesto è
che la società è corrotta e che solo una magistratura indipendente
può correggerla. L’argomento è esatto, ma l’abuso
che se ne fa è evidente, soprattutto in Italia, dove il primo requisito
sarebbe l’indipendenza dei giudici dal pubblico ministero. Su ciò
Bork sorvola, perché negli ordinamenti anglosassoni (o non italiani
in genere) è ovvio. Eppure “l’estendersi mondiale della
funzione dei giudici” (sottotitolo dell’edizione americana,
Coercing virtue, 2002) fa sì che il caso italiano divenga emblematico.
Cominciamo col ricordare la definizione scolastica di giudizio: “sussunzione
di un caso particolare sotto un concetto generale”. La parola “sussunzione”
non deve spaventare: a chiunque capita di domandarsi se, ad esempio, in
circostanze ben precise l’epiteto “figlio di puttana”
(usato verosimilmente da Materazzi contro Zidane prima della famosa testata)
rientri o no sotto il concetto di “ingiuria grave”. Nel far
ciò chiunque di noi giudica. La differenza è che il giudice
di merito fa ciò professionalmente ed è pagato per farlo.
Ne viene che i giudici – che hanno istituzionalmente il compito di
giudicare – ricevono dalla pubblica autorità l’incarico
di compiere qualcosa che chiunque fa di continuo a proposito di qualsiasi
problema. Il giudice penale lo fa a proposito di comportamenti vietati dalla
legge, per i quali cioè la legge commina (o minaccia) una sanzione.
Se in nome del sovrano (cioè un tempo del re, oggi del popolo italiano)
il giudice stabilisce che la fattispecie rientra effettivamente sotto il
divieto, “irroga” la sanzione che la legge commina (mi diverto
a usare questi termini tecnici perché, a volte, perfino gli “operatori
giudiziari” li usano a sproposito). Entro questi limiti il diritto
è “conservatore”. La legge stabilisce una volta per tutte
ciò che è vietato, e non muta fin quando una nuova legge non
la cambi. Il costume può darsi che cambi più in fretta, e
che trovi ad esempio penalmente irrilevante l’adulterio quando ancora
la legge lo vieta. Il giudice innovatore, allora, si incarica di adeguare
le conseguenze dell’atto al nuovo modo comune di sentire (caso tipico:
il comune senso del pudore). Nel far ciò «si parrà la
sua nobilitate»: a volte i giudici lo fanno abilmente, senza violare
apertamente la legge. Quando però sono mediocri, o addirittura pessimi,
lo fanno platealmente, con motivazioni che un’istanza superiore trova
spesso aberranti, per non dire “suicide”.
Nei casi studiati da
Bork un’istanza superiore per lo più non c’è,
e la situazione diviene irrimediabile. L’organo giudiziario usurpa
quel compito di mutare la stessa Costituzione che spetterebbe a un’assemblea
legislativa ad hoc, quale si elegge a intervalli lunghissimi; o, nel caso
migliore, sostituita dal potere legislativo ordinario. La costituzione americana
– ufficialmente la più antica in vigore – è stata
ripetutamente emendata dal legislatore; ma soprattutto le sentenze della
Corte suprema, osserva Bork, l’hanno di fatto totalmente cambiata.
Veniamo alle conseguenze politiche, che sono quelle che ci interessano.
Tra noi, fin dall’immediato dopoguerra, chi si è reso conto
delle possibilità che gli offriva la situazione è il pci.
Grazie alla sua influenza ha provveduto a migliorare la situazione dei magistrati,
a proteggerli da giudizi di demerito grazie al concetto di “magistrato
unico”, ad assicurare loro una progressione economica indipendente
dal grado, distinguendo tra “qualifica” e “funzione”;
e a immettere nella carriera mediante concorsi non truccati ma guidati il
maggior numero possibile di magistrati fedeli (in teoria non dichiaratamente).
In tal modo ha dato alla magistratura una compattezza corporativa e ai propri
seguaci l’incarico di guidarla, anche da posizioni di minoranza.
La distinzione non implausibile
tra giustizia sostanziale e giustizia formale ha dato luogo a sentenze con
relative motivazioni aberranti («non punibili, perché persuasi
di esercitare un loro diritto» e simili). Sentenze che, in un articolo,
proposi di raccogliere in un tempietto al centro di un “parco della
rimembranza”, dove i pensionati, portando a giocare i nipotini, potessero
leggere che cosa è stato giudicato “giusto”. Da Bork,
la situazione è studiata molto più a grandi linee, ed è
indipendente dalla tradizione comunistica della politica italiana. In quasi
tutto il resto del mondo la situazione è opera di una New Class –
che è opportuno tradurre con “nuova casta” – di
intellettuali, che si arroga il compito di decidere in proprio, contro la
maggioranza, che cosa sia giusto, ovvero, nel suo linguaggio “politicamente
corretto”; col sottinteso che chi la pensa diversamente è un
retrogrado, un egoista, un corrotto, al limite un degenerato. Da noi la
nuova casta ha ricevuto o volontariamente assunto denominazioni politiche
che ricordano il bolscevismo dal 1917 in poi. Altrove (si pensi ai “fabiani”
inglesi, ammiratori di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore) il bolscevismo
è stato accolto solo con severità, o con tolleranza, o con
comprensione, o al più con indulgenza, ma la situazione è
la stessa; stessa pretesa di influire coercitivamente, in virtù di
un pensiero illuminato (coercing virtue), sul diritto vigente; stabilendo,
ad esempio, che chi giudica delitti “contro l’umanità”
abbia una competenza territoriale planetaria e possa (pretendere di) far
arrestare dalla forza pubblica di uno Stato estero un cittadino straniero
accusato di crimini commessi all’estero contro cittadini stranieri.
Inoltre i giudici illuminati (non è forse loro l’incarico di
giudicare?) avrebbero il compito di stabilire contro chi debbano o non debbano
muoversi le forze armate di uno Stato qualsiasi. Non, ad esempio, contro
la minoranza armata che si era impadronita dell’isola di Grenada (1979).
Ricordo questo episodio perché un mio ex professore di filosofia,
nonché ex sindaco di Tortona dopo la guerra, incontrandomi per strada
in quei giorni mi confidò: «Ti confesso che approvo l’azione
degli Stati Uniti», quasi confessasse un’opinione paradossale
e, per i più, perversa. Quell’ex partigiano era divenuto frattanto
preside di un liceo scientifico di Milano, e aveva avuto occasione di guadagnarsi
la stima degli studenti in occasione delle assemblee, grazie alla sua abilità
nel judo.
Bork ignora quasi del
tutto la situazione italiana. Abituato a procuratori generali elettivi,
trova aberrante la pretesa del procuratore generale della Corte suprema
di Israele, Aharon Barak, di «occupare un ruolo indipendente, o perfino
dialettico, rispetto alle scelte politiche del governo eletto». L’alta
Corte di Israele, dove manca una Costituzione, è effettivamente fenomenale
nella sua pretesa di giudicare come Israele debba difendersi; nonché
nel riprodursi per cooptazione sotto la guida illuminata di Barak. Chissà
che cosa direbbe Bork se gli facessimo presente che in Italia un unico Consiglio
superiore della magistratura – che decide la carriera dei giudici
e dei procuratori – è composto in prevalenza da rappresentanti
della magistratura requirente, benché la base dei magistrati giudicanti
sia più numerosa. È come se la carriera dei giudici venisse
decisa da un organo in cui sono in maggioranza i rappresentanti dell’ordine
degli avvocati.
La Casa delle Libertà
ha avuto per cinque anni una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato,
eppure questa anomalia non è cambiata; ed è il centrodestra
ad essere accusato di attentare all’indipendenza della magistratura.
Qualcosa però è cambiato nell’ultima elezione, pur senza
eliminare lo strapotere dei pm. Sono i magistrati stessi quelli che hanno
cominciato a raddrizzare le cose, pur con qualche rischio di essere bollati
d’infamia. I politici hanno solo tentato fin qui di far passare una
“separazione delle carriere” sotto la denominazione ipocrita
di “separazione delle funzioni”: quasi che – poniamo –
le funzioni di inquirente e di giudicante non fossero separate già
per natura e occorresse uno speciale provvedimento legislativo per tenerle
distinte. Occorre forse una legge per distinguere le funzioni di un capostazione
da quelle di un macchinista, pur nell’unità dell’ordinamento
ferroviario?
Nell’eccellente prefazione al libro, Serena Sileoni non si allinea
in tutto sulle posizioni di Bork, ma fa notare l’importanza della
vicenda (fu bocciato da giudice della Corte suprema dal Congresso americano);
la quale ha indotto addirittura l’Oxford Dictionary a introdurre il
neologismo to bork: «Diffamare una persona, in particolare attraverso
i mass media, allo scopo di impedire la sua nomina a una carica pubblica».
Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei, presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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