Identità e integrazione
di Norbert Lammert
Ideazione di settembre-ottobre 2006

Quasi 200 anni fa, il 6 agosto 1806, l’imperatore d’Austria Francesco II deponeva la corona tedesca sotto la pressione della campagna vittoriosa di Napoleone in Europa contro l’alleanza, senz’altro significativa, di Austria, Russia e Inghilterra. Si concludeva così il Sacro Romano Impero della nazione tedesca durato per secoli. Un Impero che, a ben vedere, non era né sacro, né romano, né tedesco, ma che, per un periodo considerevole di tempo, aveva comunque rappresentato una costituzione sopranazionale, non dell’Europa ma in Europa.
Allora non si parlava né di identità europea né di integrazione europea. Quando l’Impero giunse alla sua fine ingloriosamente, silenziosamente, quasi in sordina, si chiuse un’era e in Europa iniziò un’epoca nuova, caratterizzata dall’esigenza vitale della fondazione degli Stati nazionali. In quella fase, sia la Germania sia l’Italia hanno trovato la loro identità nazionale. L’epoca della fondazione degli Stati nazionali europei ha risolto alcuni dei vecchi problemi del continente creando al contempo problemi nuovi.
Alla fine, per la stessa dinamica insita negli Stati nazionali forti e rivali, moltiplicata per la megalomania dei dittatori, dopo due conflitti mondiali originati in Europa, il continente stava per farsi saltare in aria. Successivamente, a mio avviso, l’unico tentativo, veramente nuovo e serio, di trarre dalle esperienze di una storia comune le conclusioni per un futuro diverso è stato il Trattato di Roma del quale, il prossimo anno, celebreremo il cinquantesimo anniversario.
Il Trattato di Roma è stato concluso tra sei Stati fondatori, tra cui la Germania e l’Italia, e all’epoca nessuno avrebbe immaginato che, cinquant’anni dopo, la Comunità avrebbe avuto 25 Stati membri – 27 dall’1 gennaio del prossimo anno – e che sarebbe stata superata la divisione dell’Europa, occasione e motivo, insieme ad altri fattori, della fondazione della Comunità. Ad una prima lettura superficiale, cinquant’anni di Comunità europea appaiono come un’unica storia ininterrotta di successi. In effetti, nella storia europea, nessuno dei paesi interessati ha vissuto un periodo tanto lungo di pace e di libertà, lo sviluppo di un mercato comune e, infine, l’introduzione di una moneta unica, l’espressione quasi classica della sovranità degli Stati nazionali. Oggi, tutte queste conquiste ci appaiono un fatto scontato. Uno dei singolari talenti degli europei è quello di considerare gli eventi ritenuti impossibili per decenni, una pura ovvietà nel momento in cui essi divengono realtà. I tedeschi hanno sviluppato questo talento in una straordinaria perfezione, come possiamo osservare non da ultimo, e in modo particolarmente deprimente, nel modo in cui è stata affrontata la riunificazione della Germania.
Anche se – o forse proprio perché – la Comunità europea è stata una storia di cinquant’anni di successi, oggi assistiamo a un costante indebolimento dell’entusiasmo dei cittadini per questa Comunità, un indebolimento che, nei nuovi paesi di adesione, avviene in modo drammaticamente più rapido e palese che nei vecchi Stati membri. In Polonia e nella Repubblica Ceca, subito dopo l’adesione alla Comunità, i partiti hanno condotto, e hanno vinto, le campagne elettorali su posizioni decisamente eurocritiche. Attendersi da questi paesi iniziative specifiche per l’ulteriore sviluppo della Comunità, può essere definito soltanto una pura proiezione del pensiero.

I tre errori dell’Unione
Nell’imminenza del suo cinquantesimo anniversario, la Comunità europea non è stata mai così estesa ed è stata raramente tanto debole. È difficile non rilevare che alla crescita di dimensioni non fa riscontro un corrispondente aumento di forza. A mio avviso, il provvisorio fallimento del trattato costituzionale è l’espressione, ma non è l’essenza, della crisi in cui versa oggi la Comunità europea. A mio giudizio, in relazione al trattato costituzionale sono sfuggiti almeno tre errori rilevanti, per varie responsabilità, che contribuiscono a spiegare il fallimento del processo di ratifica.
Il primo aspetto, e il più importante, è stato lo svolgimento di referendum non necessari in due Stati fondatori della Comunità europea, in Francia e in Olanda, che non sono stati indetti unicamente per motivi di politica europea né sono falliti unicamente per motivi di politica europea.
Il secondo motivo, a mio avviso rilevante, è costituito da una straordinaria mania di perfezione rilevabile nella stesura del testo, come in una competizione reciproca al rialzo che, alla fine, ha sottoposto ai cittadini dell’Europa non una Magna Carta della nostra idea di Comunità ma piuttosto un’enciclopedia delle direttive europee.
Infine, proprio a questo compendio enciclopedico è stata attribuita la pretesa di essere una Costituzione, una pretesa che il testo non riesce a soddisfare né sotto il profilo formale, né sotto il profilo sostanziale. In questa discrepanza tra volume e sostanza, lo scetticismo era addirittura pre-programmato e ha avuto come conseguenza quasi logica il fallimento dei referendum.
Adesso, tutti i governi degli Stati membri interessati si sono imposti una pausa di riflessione che, a quanto pare, è anche urgentemente necessaria. La domanda è se e quali risultati otterremo da una tale pausa di riflessione.
In Senza radici, un libro sulla crisi delle culture europee scritto insieme all’allora Cardinal Ratzinger – un libro che mi ha molto colpito – il senatore Pera parla del disagio dell’Europa: «ricca, ma insicura e incapace di risolvere il problema della propria identità e del proprio futuro». Nello stesso contesto ha parlato della disaffezione dell’Occidente nei confronti dei suoi principi e i valori.
Temo che la diagnosi sia corretta. Prima, con riferimento al trattato costituzionale, ho detto che, a mio avviso, il fallimento non costituisce l’essenza bensì l’espressione della crisi. Ho detto questo perché ritengo che, invece, l’essenza vada ricercata nella descrizione del Senatore Pera: in una forte insicurezza dell’Europa nei confronti della propria identità.
Di conseguenza, nessuna domanda è più urgente del chiarimento del seguente quesito: quale Europa vogliamo realmente? Abbiamo realmente un’idea comune di Europa? Vogliamo porre realmente un’idea comune dell’Europa alla base di una costituzione comune? La prospettiva di una comunanza, non soltanto di regole ma anche di convinzioni, aumenta realmente con il numero dei partecipanti che devono e/o vogliono essere parte della stessa organizzazione?
Personalmente ritengo che, tra qualche anno, gli storici si occuperanno intensamente del quesito e, con ogni probabilità, discuteranno anche accanitamente sul fatto se l’unico gravissimo errore, peraltro storico, dei cinquant’anni di storia della Comunità europea non sia stato affrontare l’allargamento della Comunità a nuovi Stati membri prima del suo approfondimento, finendo praticamente con il privilegiare l’allargamento rispetto all’approfondimento. Da uno sguardo obiettivo sulla reale costituzione di questa Comunità a 25, e prossimamente a 27, appare comunque evidente che la prospettiva di un approfondimento, la prospettiva di adottare le necessarie riforme istituzionali che assicurino la capacità di agire di una Comunità che vuole essere qualcosa di più di un club o di un’associazione politica, si è enormemente ridotta con l’aumento del numero degli Stati membri. Per la verità, ciò non è affatto dovuto unicamente all’aumento del numero degli Stati membri, ma alla specifica esperienza storica di tali Stati, non identica all’esperienza che ha indotto gli Stati fondatori, e alcuni paesi dell’Europa occidentale che hanno aderito successivamente, a fondare questa Comunità. Anche se sono consapevole del fatto che i confronti storici sono raramente calzanti, consentitemi, a titolo puramente illustrativo e senza alcuna pretesa di prova, di ricordare che, alla fine, neanche l’Impero Romano è crollato a causa di una rapida contrazione, ma è crollato a causa di una dinamica intrinseca di crescita che è divenuta incontrollabile.

Alla ricerca dell’identità perduta
È mia profonda convinzione che l’Europa debba rispondere urgentemente a una serie di domande che, per motivi più o meno validi, abbiamo rimandato per anni. Domande che non abbiamo posto o alle quali non abbiamo comunque dato una risposta. Tra le altre domande, è anche essenziale chiedersi se l’Europa ha realmente delle frontiere e, se la risposta è affermativa come indicano alcuni fattori, dove si collocano tali frontiere. Già da questo punto di vista, ma non soltanto da questo punto di vista, la decisione concernente l’adesione della Turchia all’Unione Europea rappresenta una questione-chiave per dare una risposta effettiva al quesito, qual è la nostra idea di Europa. Se perdura la tendenza a rinviare le risposte sulla coerenza interna e sull’identità della Comunità Europea, alla fine, ad una risposta sulla questione dell’adesione della Turchia potrebbe sostituirsi una risposta data in precedenza. Comunque, non può sussistere alcun dubbio serio sul fatto che con la decisione, positiva o negativa, dell’adesione della Turchia, alla Comunità Europea si apriranno prospettive completamente diverse sotto il profilo quantitativo e qualitativo. Ciò è in un qualche rapporto con il numero dei futuri Stati membri ai quali, a mio avviso, non sarebbe seriamente possibile negare l’accesso, né per considerazioni di natura geografica, né per considerazioni di natura storica o culturale, se la Turchia è un serio candidato all’adesione e, ovviamente, se viene presa in considerazione la questione centrale dell’identità culturale dell’Europa. Accentuando un po’ i toni, in ultima analisi, il quesito si riallaccia anche alla domanda se l’Europa diverrà realmente una comunità politica che tutela gli interessi comuni sulla base di convinzioni comuni e supera le sfide comuni, oppure se si trasformerà in una versione ridotta e più elegante delle Nazioni Unite, non con il suo numero elevato di Stati membri, ma con la stessa insignificanza operativa.
Non soltanto a causa dell’anniversario – che è di per sé un motivo sufficientemente valido – dobbiamo pensare alle basi spirituali sulle quali ha poggiato la fondazione di questa Comunità Europea e sapere se vogliamo renderle nuovamente attive come base della Comunità in futuro, oppure se pensiamo di potervi rinunciare, con le conseguenze già accennate sull’ulteriore processo di sviluppo di questa Comunità.
Vorrei dire due parole, per chiarire perché la rivitalizzazione delle basi culturali della Comunità Europea mi appare così importante e perché la ritengo la questione chiave nel futuro di questo continente. Non soltanto per l’Europa, ma anche per i suoi singoli Stati nazionali si è ripetutamente posto il quesito se il moderno Stato costituzionale democratico possa garantire se stesso, oppure se esso poggi su premesse normative che non è in grado di creare da solo, ma senza le quali non può assicurare la propria esistenza. Ogni volta che tale domanda è stata oggetto di una discussione seria, la risposta è stata immancabilmente che lo Stato secolare non crea le sue basi normative dalle proprie risorse e, pertanto, non potrebbe rinnovarle autonomamente, ma dipende da tradizioni ideologiche e religiose, e comunque da tradizioni etiche collettivamente vincolanti. Se si esaminano tali tradizioni nei diversi paesi, in Germania, in Italia e in Francia anche nelle convinzioni riportate nella letteratura scientifica, si rileva che nei nostri paesi e nell’opinione pubblica europea praticamente inesistente, la discussione pubblica in merito manca palesemente di coraggio. Essa è caratterizzata da un attento rifiuto di ogni presa di posizione. A questa esigenza di evitare una presa di posizione si contrappone un riconoscimento espresso, e spesso prioritario, del multiculturalismo, della propensione al dialogo e della tolleranza, quale che sia il significato preciso di questi termini.
Del resto, la propensione al dialogo come requisito minimo presuppone un proprio punto di vista. Tuttavia, in determinate occasioni, è difficile sottrarsi all’impressione che la richiesta di dialogo sia presentata sempre più spesso in sostituzione di un proprio punto di vista.
Sono fermamente convinto del fatto che dobbiamo fare attenzione a non cadere vittime di una delle due grandi esagerazioni riscontrabili attualmente in tutto il mondo. Innanzitutto, la presunzione di voler realizzare le convinzioni religiose con zelo fondamentalista rendendole al tempo stesso universalmente vincolanti come prescrizioni obbligatorie dello Stato – una grande tendenza globale con la quale ci confrontiamo da anni. Dall’altro lato, vi è la leggerezza di considerare le convinzioni religiose irrilevanti, insignificanti o inconsistenti. Il secondo errore non è meno pericoloso del primo. Troppo a lungo, alcuni intellettuali in Europa hanno rivendicato o promosso la seconda esagerazione prendendo, a ragione, le distanze dalla prima. Forse ciò dipende anche dalla doppia insicurezza dell’uomo moderno che si esprime al contempo nella nostalgia per valori generalmente vincolanti e nella resistenza a contrarre legami. Sarebbe bello se qualcosa risultasse vera ed esatta una volta per tutte, e sarebbe ancora molto più bello non dover prendere posizione in merito.
Tuttavia, la capacità di contrarre legami non è soltanto espressione di libertà, ma probabilmente è anche la premessa per la libertà, così come la disponibilità al consenso è la premessa per la capacità di una società di risolvere i propri conflitti. È questo uno dei grandi temi che abbiamo trascurato troppo a lungo in politica. Proprio quando si vuole una società liberale, quando si vuole la libertà individuale, non soltanto come figura retorica ma come realtà di tutti i giorni, riconoscere la libertà individuale significa riconoscere l’inevitabilità dei conflitti. Una società può permettersi i conflitti se esiste un minimo di comunanza che le garantisce la capacità di risolverli pacificamente. Senza un minimo di comunanza, una società non può sopportare alcuna diversità. Per questo motivo, una delle alternative fittizie e insensate, anche se molto diffuse e sollevate continuamente nella discussione, è ritenere possano esistere alternativamente la diversità o la comunanza, la pluralità o l’identità.
Uno sguardo illuminato a questo complicato rapporto evidenzia con chiarezza l’impossibilità di avere l’una senza l’altra. L’integrazione presuppone l’identità, comunque già come processo individuale, e certamente come processo della società nel suo complesso. In Germania, ormai da diversi anni viviamo esperienze estremamente difficili con i problemi di integrazione posti dall’immigrazione di individui provenienti da contesti culturali diversi. Con un forte appoggio dei media moderni, che in una certa misura rendono perfetto l’isolamento della nuova patria dal mondo di origine, abbiamo interi quartieri delle città tedesche nei quali esiste la tanto descritta società parallela. Nei quali l’integrazione non può più fallire per il fatto che nessuno cerca più di realizzarla. Lì, gli individui vivono gli uni accanto agli altri in contesti perfettamente isolati e l’integrazione non può avvenire perché nessuna delle parti la cerca seriamente, perché non esiste un minimo di comunanza che costituisce la premessa per la comprensione, ed è di per sé la premessa minima per l’integrazione.
Se, con lo sguardo rivolto al trattato costituzionale europeo più volte citato, mi sono dichiarato favorevole alla rivitalizzazione delle basi culturali di questa Comunità Europea, l’ho fatto perché, ad un esame attento, risulta che le costituzioni sono, per loro essenza, norme culturali e null’altro.
Le costituzioni non cadono dal cielo. Né sono conservate in cielo, quando sulla terra i tempi divengono turbolenti. La premessa di ogni costituzione è la cultura. Del resto, è per questo che le costituzioni del mondo sono tanto diverse tra di loro. Le costituzioni sono sempre espressione delle esperienze storiche vissute da un paese. Sono espressione delle convinzioni che si sono sviluppate in un popolo nel corso di generazioni. Sono espressione delle convinzioni religiose che esistono, o non esistono, in un determinato territorio. Le costituzioni durano finché durano queste basi culturali. L’idea che una costituzione possa affermare la propria esistenza come sovrastruttura autonoma, indipendente dalla base culturale dalla quale è nata, equivale alla convinzione ingenua che quando gli alberi crescono rigogliosi non è più necessario occuparsi delle radici. Ma gli alberi sono rigogliosi finché hanno radici intatte.
Affinché l’Europa della diversità mantenga le identità nazionali e, al tempo stesso, sviluppi un’identità collettiva, è necessaria un’idea-guida politica, un fondamento comune di valori e di convinzioni. Una tale idea-guida europea può riferirsi unicamente a valori culturali comuni, a una storia comune, a tradizioni religiose comuni. Questo fondamento che unisce resta l’elemento costitutivo per l’identità europea e comunque per l’Europa che intendo quando parlo di Europa. Per me l’Europa non è una denominazione geografica. Forse è anche una denominazione geografica. L’Europa è qualcosa di più di un’unione di Stati nazionali, l’Europa è qualcosa di più di un mercato, l’Europa è qualcosa di più di una comunità economica e certamente è qualcosa di più di un regolamento comune sui prezzi del latte e di sovvenzioni congiunte per il carbone, l’acciaio, il vino o per altro. L’Europa è un’idea, l’Europa è una disposizione interiore, l’Europa è un modo di vedere degli individui, l’Europa è una concezione del diritto degli individui a partecipare agli affari che li concernono. L’Europa è un’idea di autoresponsabilità degli individui, un’idea della necessità e della possibilità di organizzare, a livello di Stato, i rapporti tra individui autoresponsabili. Solo una tale Europa giustifica gli sforzi resi inevitabili dall’unione di Stati nazionali, ciascuno con una propria storia secolare e degna di rispetto. Temo che anche nella percezione esterna della Comunità Europea in molti altri paesi sia sorta l’impressione che questa Unione non sa con certezza cosa vuole e cosa vuole essere.
È di nuovo il disagio di cui ha scritto il senatore Pera. È anche la disaffezione nei confronti dei propri valori e delle proprie convinzioni che non si osa più portare avanti per timore che risultino offensive. È certamente l’esitazione ad accettare legami e a concepirli non solo come imposizione ma anche come premessa per collocarsi in un mondo nel quale si ha bisogno di trovare il proprio posto, soprattutto quando, attorno a noi, la situazione cambia ad una velocità sempre maggiore.
Nei suoi discorsi e nelle sue prediche, il defunto Papa Giovanni Paolo II ha sempre ricordato che, «l’identità del continente europeo senza il Cristianesimo non è comprensibile».
Certamente il minimo che, con ogni evidenza, occorre tener presente è che la storia di questo continente non può essere scritta, raccontata e compresa senza la storia del Cristianesimo. La domanda politicamente più avvincente è stabilire se un tale contesto sia necessario soltanto per la comprensione, o non sia necessario anche per l’identità. Anche in proposito ho trovato una straordinaria frase del collega Pera che vorrei sottoscrivere con una leggera variante. Il senatore Pera, nel suo libro ha scritto che «il Cristianesimo, per la sua essenza, è talmente legato all’Occidente che un abbandono del Cristianesimo avrebbe conseguenze devastanti».
Una tale affermazione non potrebbe conservare la propria validità nella variazione seguente? L’Occidente è per sua essenza talmente legato al Cristianesimo che lo scioglimento di un tale legame potrebbe avere conseguenze devastanti per entrambi?
Intuisco che non sono pensieri popolari tra i mass media. Ma, personalmente, non ho il minimo dubbio sul fatto che si tratta di quesiti centrali che non dobbiamo rimandare ulteriormente e ai quali dobbiamo dare una risposta. Non dobbiamo più voler convincere noi e gli altri che la questione si chiarirà da sola. Ho una precisa intuizione su come sarebbe la risposta che, in assenza di una domanda posta consapevolmente, emergerebbe, al posto di una posizione chiara, in questa Comunità di 25, poi di 27 e, in un prossimo futuro, di oltre 30 Stati membri.
Papa Benedetto, il Papa venuto dalla Germania, che per il suo percorso di sacerdote, vescovo, studioso e teologo, e per la sua partecipazione agli eventi di un paese che ha vissuto un’esperienza particolarmente amara con la perdita del rapporto tra regole politiche e convinzioni culturali, prima e dopo l’assunzione al Pontificato, anche e specificamente con uno sguardo al trattato costituzionale europeo, ha ripetutamente richiamato l’attenzione su questo deficit palese. Nel discorso tenuto al Senato italiano due anni fa, descrisse la dignità umana e i diritti umani come valori che precedono qualsiasi giurisdizione. Questi valori codificano in modo essenziale un’eredità cristiana, che invece viene rivendicata soltanto timidamente come fondamento, accanto ad altre tradizioni culturali, e non viene dichiarata universalmente vincolante. La rimozione mentale dei nessi trova la propria espressione, non più percepita come problema, nell’indifferenza nei confronti della rivendicazione dei valori cristiani come principi autonomi di una comunità europea, senza neppure il coraggio di evidenziare l’esistenza di tale nesso. Al contrario: a un esame più attento, l’accurato occultamento di questo nesso risulta essere stata una delle premesse per il raggiungimento di un accordo sul testo costituzionale.
Papa Benedetto scrive: «L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa». L’Europa ha bisogno di una accettazione critica e umile di se stessa, se vuole sopravvivere. Sul fatto che l’Europa voglia sopravvivere, non ho alcun dubbio. Sul fatto se l’Europa abbia sufficiente chiarezza circa le premesse della sua sopravvivenza, è consentito un dubbio. Ed è nostro compito comune eliminare tali dubbi.



(L’articolo è tratto dal discorso tenuto a Roma il 18 giugno 2006 in occasione della Lettura Annuale della Fondazione Magna Carta)


Norbert Lammert, politico di primo piano della Cdu è attualmente presidente del Bundestag tedesco.

(c) Ideazione.com (2006)
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