Le nuove sfide della difesa americana
di Andrea Gilli
Ideazione di settembre-ottobre 2006

«La guerra è antica quanto il genere umano,
la pace invece è un’invenzione recente».
Michael Howard, The Invention of Peace
(London: Yale University Press, 2000).

«In tutte le ere si è sempre sostenuto che le guerre in esse
combattute rappresentano una rottura rivoluzionaria rispetto al passato».
Cyril Fall, A Hundred Years of War, 1850-1950
(Houndmills: MacMillan, 1953).


La guerra è una antica istituzione sociale. Probabilmente una delle più antiche. Da quando l’uomo è apparso sulla terra la guerra, infatti, è sempre stata tra le sue attività principali. E lo stesso vale ancora oggi, come la cronaca ci ricorda quotidianamente. L’uomo è quindi strettamente legato ai conflitti armati1. E la ragione è molto semplice: perché la guerra un’attività profondamente umana, come disse von Clausewitz,2 dato che essa trova le sue radici proprio nella natura degli individui3. Pertanto è facile pensare che fin quando ci sarà l’uomo ci sarà anche la guerra4. Se dunque la guerra è sempre stata legata all’uomo, migliaia di anni fa come oggi, allora è logico pensare che essa abbia dei tratti che trascendono la dimensione temporale, spaziale, culturale, eccetera. D’altronde, a dispetto delle cause contingenti, dei tempi, dei luoghi e delle genti che l’hanno fatta, essa viene sempre e solo combattuta per tre motivi: «onore, paura e interesse» come spiegò Tucidide5. E infatti, a distanza di migliaia di anni, le guerre sembrano essere sempre uguali a se stesse, visto che vantano sempre dei caratteri oggettivi e soggettivi6. Se i secondi si riferiscono ai mezzi che vengono di volta in volta impiegati, e possono mutare nel tempo, i primi, invece, si riferiscono alla natura stessa della guerra, la quale è composta da tre elementi fondamentali che al contrario non cambiano mai. La guerra, in termini più semplici, ha sempre alla base una forza naturale (il popolo), viene combattuta attraverso un mezzo soggetto al caso (l’esercito) per uno scopo politico (del governo). Questa è la concezione trinitaria della guerra formulata da Carl von Clausewitz quasi due secoli orsono e che ancora oggi rimane la migliore a nostra disposizione7.
Come si vede anche da quest’ultima annotazione, l’uomo (attraverso il popolo, l’esercito e il governo) è alla base dell’attività sociale chiamata guerra. Infatti è l’uomo che decide di farla. È l’uomo che la combatte. È l’uomo che ne decreta la fine. I mezzi e gli strumenti (i caratteri soggettivi) sono, appunto, solo un mezzo. Non sono le armi a fare la guerra ma sono e saranno sempre gli individui al di là dei mezzi a loro disposizione8. Due esempi possono risultare particolarmente utili a proposito. Durante la guerra fredda vi è stata la più grande spesa in armamenti che l’umanità abbia mai osservato. Il numero delle armi disponibili è cresciuto drammaticamente e la loro evoluzione tecnologica è stata impressionante tanto da raggiungere una capacità distruttiva devastante9. Ebbene: tutto ciò non condusse ad alcuna guerra (tra le due grandi potenze coinvolte in questo mastodontico riarmo)10. Nel 1994, in Rwanda, nel giro di pochi mesi venne portato a termine un genocidio terribile, uno dei peggiori del Ventesimo secolo: ma esso venne compiuto a colpi di machete. Non servirono armi di distruzione di massa: fu sufficiente l’odio primordiale di cui parlava von Clausewitz11. Da ciò ne deriva che se sono gli uomini a decidere di fare la guerra, non possono che essere gli uomini a decidere di terminarla. Essi, quindi, ne rappresentano l’elemento centrale, mentre le armi restano un mezzo, per quanto innovative esse possano essere. Come scriveva più di un decennio fa John W. Mountcastle, «mentre delle armi tecnologicamente evolute possono contribuire alla vittoria, la tecnologia in sé e per sé non può vincere le guerre. Perché esse sono vinte o perse solo e soltanto nelle menti dei soldati e dei loro leader»12. Nel corso degli anni Novanta, però, queste certezze granitiche (sulla centralità dell’individuo, sul carattere trinitario della guerra, eccetera) sono state attaccate da una serie di studiosi (per lo più storici)13 e di alti gradi militari14 che credevano, alla luce dell’esperienza dell’operazione Desert Storm, che si fosse verificata una profonda frattura con il passato. Secondo costoro, molti dei quali ispirati da bizzarre teorie post-moderniste,15 la guerra avrebbe perso il suo carattere trinitario e la tecnologia avrebbe rappresentato la chiave di ogni vittoria militare16. In altre parole, il carattere soggettivo della guerra (i mezzi) avrebbe determinato il suo carattere oggettivo (la sua natura).
Importato dagli studi strategici sovietici, fece intanto la sua apparizione il concetto di Revolution in Military Affairs (rma) che tali studiosi legarono subito e intimamente al progresso tecnologico e che servì per incanalare e rendere più fondata l’intera disputa. Ne sarebbe poi nato un grande dibattito che avrebbe tenuto gioco per tutti gli anni Novanta. Alcuni facili entusiasmi scomparvero in fretta. Non lo stesso si può dire per i suoi cultori. E così, a più di quindici anni dalla caduta del Muro di Berlino, gli Stati Uniti si trovano ancora di fronte ad un dilemma fondamentale: capire quanto la tecnologia conti per vincere le guerre del futuro. La risposta, in realtà molto semplice, ha bisogno di essere ben articolata. È quanto ci proponiamo di fare in questo saggio.

Le guerre del futuro e il dibattito sulla Rma
Il primo dato da cui bisogna partire, alla luce di quanto ricordato in precedenza, è tanto ovvio quanto spesso dimenticato: le guerre del futuro saranno esattamente come le guerre del passato17.
Partendo da questo assunto fondamentale faremo un breve riassunto del dibattito sulla rma, dei suoi vizi e delle sue implicazioni. Tracceremo i tratti fondamentali di una rivoluzione militare del passato, sottolineando come la tecnologia non sia mai stata un elemento decisivo per il dominio politico18. Esamineremo i recenti scritti che hanno, almeno per noi, chiuso il dibattito sulla Revolution in Military Affairs, e poi vedremo come questo discorso sia di estrema attualità in quanto si inserisce nella pianificazione strategica del Pentagono (recentemente elaborata con le National Military Strategy e Quadriennal Defense Review) e più in generale nell’elaborazione della Grand Strategy americana. Gli Stati Uniti stanno infatti combattendo due difficili guerre: una in Iraq e una in Afghanistan. Il loro costo è enorme. Il peggioramento dei conti pubblici americani, dall’altra parte, impone delle scelte chiare e anche dolorose. E quando le risorse scarseggiano, bisogna decidere dove è più importante investire, dati alcuni impegni improrogabili (riparazione e sostituzione dei mezzi logorati in Iraq e Afghanistan, per esempio)19. Con il costo delle due guerre che si fa sempre più elevato e dall’altra parte con la necessità sempre più impellente di raddrizzare il bilancio pubblico federale,20 non resta che una scelta secca tra investimenti in nuovi strumenti d’arma e spese per l’addestramento delle truppe. Se la tecnologia è, come ritengono alcuni, fondamentale per vincere qualsiasi tipo di conflitto, allora bisogna focalizzarsi sulla r&d. Se la tecnologia è, invece, importante ma non decisiva, allora la scelta da compiere è un’altra: investire appunto per addestrare al meglio le truppe americane. La storia ci dà numerose indicazioni. L’importante è saperle cogliere. «Technology matters, sadly not most»21.
Il concetto di Revolution in Military Affairs nacque alla fine degli anni Settanta in Unione Sovietica, soprattutto grazie agli scritti del Maresciallo Ogarkov che, da buon marxista, era portato a vedere un mondo unicamente dominato da rivoluzioni, a loro volta caratterizzate da soli fattori materiali22.
Successivamente, il concetto si diffuse negli Stati Uniti e quindi a tutto l’establishment militare americano soprattutto grazie all’eco che gli venne dato da Andrew W. Marshall dell’Office of Net Assessment del Pentagono23. Ancora sbalorditi dalla straordinaria e in parte inaspettata vittoria ottenuta in Iraq nel 1991 (militare, si noti, non politica: in Iraq si ottenne tutto tranne che una vittoria politica!),24 gli Stati Uniti si resero conto di avere in mano una efficacissima macchina bellica che essi stessi però non conoscevano.
Il concetto di rma, arrivato così all’improvviso, sembrò essere in grado di decifrare tutte le incognite a cui non si riusciva a dare spiegazione e allora divenne immediatamente una sorta di “divo” del dibattito strategico e militare americano. Senza entrare eccessivamente nel dettaglio, i fautori della rma sostenevano che la tecnologia fosse alla base della forza militare americana «come la guerra in Iraq aveva dimostrato» e che quindi, per vincere le guerre future, gli Stati Uniti dovessero semplicemente fare affidamento sulla tecnologia25.
Contemporaneamente si sviluppò un altro dibattito anch’esso incentrato sulla trasformazione e che di fatto si sarebbe agganciato a quello della rma: questa volta a trasformarsi non erano più gli affari militari, ma le guerre stesse, proprio in virtù dei drammatici (sic!) cambiamenti osservati nella tecnologia impiegata nei conflitti armati. In altre parole il carattere soggettivo della guerra (i suoi mezzi) era addirittura in grado di cambiarne il carattere oggettivo (la sua natura trinitaria, cosa che in passato nessuna tecnologia era mai riuscita a fare). Di conseguenza la tecnologia diventava, secondo alcuni, l’elemento centrale delle vicende militari, vittorie comprese.
La conseguenza logica di quanto detto è che, se la tecnologia domina la guerra tanto da cambiarne i caratteri e da determinarne gli esiti, allora i conflitti armati smettono di essere legati all’uomo e di essere una propaggine della politica per trasformarsi in una sorta di orda indomabile nella quale regna solo la violenza fine a se stessa. Inoltre se, come detto, la tecnologia guida la guerra, allora non sarebbe più la politica a determinare la pace. E quindi la tecnologia stessa finirebbe per trasformarsi nella chiave per il dominio politico-militare. Dunque non servirebbero più degli eserciti addestrati, ma degli ingegneri-soldato. (Tutto molto facile. E molto sbagliato. Infatti è vero il contrario, come vedremo più avanti26). D’altronde, questi autori parlavano di vittorie militari, non politiche: dimenticando così l’elemento strategico più importante, appunto la volontà politica dietro alle decisioni militari.
Non c’è dunque da stupirsi se in tanti, adottando questi paradigmi, non riescono più a comprendere i conflitti armati: d’altronde, ad usare il microscopio per guardare all’orizzonte non si sono mai ottenuti risultati entusiasmanti27. Basta infatti rilevare come alcune delle previsioni fatte sulla base di questi assunti si siano rivelate totalmente infondate per rendersi conto della fragilità di queste tesi. Per esempio la tanto celebrata fine degli scontri cross-borders, talmente certa che ancora non si è avverata: infatti i due più recenti conflitti armati sono stati lanciati contro due Stati, Afghanistan e Iraq. E lo stesso terrorismo, la cui ribalta è stata subito salutata dai postmodernisti come una conferma delle loro tesi, sembra sempre più destinato ad essere quello che chi usava le lenti corrette aveva predetto: un fenomeno ciclico. Se nel 2001, all’indomani dell’attentato dell’11 settembre gli stessi Stati Uniti vedevano prevalentemente una sola minaccia: appunto quella terroristica; più di recente a Washington si è iniziato a pensare in termini ben diversi, tanto da cominciare a prendere in seria considerazione la minaccia cinese, come dimostrano alcuni documenti ufficiali pubblicati nel corso degli ultimi ventiquattro mesi; sintomo che la storia sta ritornando sui suoi binari28. D’altronde, l’enfasi che si riponeva dieci e più anni fa sulle guerre interetniche e che ora si ripone sul terrorismo come “minaccia del futuro” non è altro che la prova di quanto avesse ragione Raymond Aron quando scriveva che «il pensiero strategico trae la sua ispirazione ogni secolo, o piuttosto in ogni momento della storia, dai problemi che si palesano di volta in volta»29. Come quarant’anni fa si parlava di guerriglia e guerre asimmetriche, lo stesso si fa oggi, e probabilmente si farà fra una quarantina d’anni. A ciò si sommi il fatto che, se il terrorismo suicida esisteva già migliaia di anni fa con gli zeloti e gli hashashin, ciò che ci deve stupire oggi non è di sicuro la sua presunta novità, che appunto non esiste, ma piuttosto l’enfasi eccessiva che si pone nel descrivere come nuovo un fenomeno che tale non è e di conseguenza nell’ingigantirne la portata30. Dunque, smentito il post-modernismo, il prossimo turno sembra toccare agli entusiasmi tecnofili di cui erano pieni i fautori della rma: è proprio quanto cerchiamo di dimostrare nelle pagine che seguono.

Storia delle rivoluzioni militari e suoi insegnamenti
Abbiamo già ricordato il legame tra l’uomo e la guerra. A questo punto conviene concentrarsi su come l’uomo abbia storicamente cercato di raggiungere il successo militare. Alcuni, come i fautori della rma, sostengono che la supremazia tecnologica sia alla base del dominio militare. La realtà purtroppo per loro non solo è più complicata ma è anche ben diversa. Storicamente infatti alcuni eserciti hanno prevalso su altri semplicemente perché ne hanno sfruttato le debolezze (per questo motivo tutte le guerre, per loro natura, sono asimmetriche);31 modificando di volta in volta tattica, strategia, organizzazione e metodi di combattimento per raggiungere il loro obiettivo: vincere. Ovviamente anche la tecnologia ha avuto un ruolo ma, come già detto nelle pagine precedenti, esso non è mai stato decisivo.
A disposizione c’è una vastissima letteratura e probabilmente una ancora più vasta serie di casi. Per motivi di spazio, riportiamo un solo semplice esempio di rivoluzione militare per sottolineare come nel passato (e nel futuro) la tecnologia non sia assolutamente stata il silver bullet della situazione. L’esempio che prendiamo è di diversi secoli fa e la ragione di questa scelta è semplice. Se in un’era nella quale la tecnologia era molto meno accessibile di oggi, il fattore tecnologico ha contato relativamente poco nel risultato delle dispute militari, la logica ci suggerisce che nella nostra era, nella quale la tecnologia si diffonde molto più rapidamente e facilmente, la tecnologia, da sola, possa fare ancora meno32.
Partiamo dunque da lontano. Precisamente dalla straordinaria svolta osservata in Inghilterra a metà del 1300, quando un esercito mediocre divenne in brevissimo tempo il più forte, temuto e ammirato di tutta l’Europa33. Prendiamo questo esempio perché molto semplice e intuitivo: un esercito, nessuna nuova tecnologia preponderante, una serie di vittorie straordinarie. Questi i tre elementi da cui bisogna partire. I numeri sono qui a dimostrarlo: Edoardo III, il condottiero di quella grandiosa armata, con il suo esercito vinse sempre in minoranza numerica. A Dupplin Moor (12 agosto 1332) si ottenne il successo più devastante contro un avversario addirittura dieci volte più grande: 1.500 inglesi sconfissero 15.000 scozzesi. Senza alcun vantaggio tecnologico. Ed è difficile parlare di fortuna, visto che quella vittoria sarebbe stata seguita da altre ben più importanti: Halidon Hill, Crécy, Neville’s Croos, Poitiers, Nàjera, Sluys, nelle quali gli inglesi sopraffecero sempre eserciti numericamente più grandi (quasi sempre di dimensioni almeno doppie)34 e grazie alle quali l’Inghilterra avrebbe potuto in seguito conquistare addirittura la Scozia.
Partiamo esaminando la tecnologia. L’arma più “innovativa” usata dagli inglesi era un arco lungo35. Un arco sicuramente efficace ma che era disponibile da almeno mezzo secolo a tutti gli eserciti dell’epoca. Difficilmente si può dunque parlare di vantaggio tecnologico soprattutto se si pensa che le altre due “grandi innovazioni” disponibili agli inglesi erano i cannoni e delle solide armature. Entrambi, stando ai resoconti disponibili, non diedero alcun contributo significativo. Addirittura i cannoni vennero ricordati dalle gazzette del tempo come delle “novità molto rumorose”36. Non c’è traccia di un loro ruolo significativo in battaglia. Difficile pensare che non sia stato così visto che i cronisti erano soliti riportare nel dettaglio quanto avveniva nel corso dei conflitti, come accadde, per esempio, proprio nel caso degli archi lunghi, ricordati appunto per la loro straordinaria efficacia. E difatti i cannoni iniziano ad essere menzionati come mezzo rilevante nelle sorti del conflitto, solo a partire dal secolo successivo. Se dunque non è stata la tecnologia a far vincere Edoardo III, bisogna capire cosa sia stato. La risposta è semplice e quadrupla: la riforma amministrativa, tattica, strategica implementata dal quarto fattore: Edoardo III, il genio militare.
Riforma amministrativa. A partire dall’inizio del secolo, l’esercito inglese osservò un’importante trasformazione organizzativa, strutturale e amministrativa. Da un esercito a carattere parzialmente feudale si passò infatti ad un esercito basato su un accurato reclutamento territoriale che prevedeva una paga regale: e a partire dal 1334, l’esercito sarebbe stato completamente stipendiato dal sovrano. Non è un caso che si chiamassero “soldati”: appunto al soldo del sovrano. E non è difficile sostenere come sia stato molto più facile ottenere una più ferrea disciplina da un esercito lautamente pagato piuttosto che da uno composto di forzati. Ovviamente questa riforma ebbe anche delle importanti conseguenze operative in quanto un esercito ricco può permettersi di muoversi a cavallo incrementando così sia la propria mobilità che le proprie capacità di intervento e controllo del territorio.
Riforma della tattica. È altrettanto evidente che un cambiamento nella struttura dell’esercito permette un drastico mutamento della tattica impiegata. Un esercito meno blando può sfruttare meglio la sua forza d’urto. In altri termini è in grado di tenere più serrate le righe e quindi di essere molto più efficace contro i suoi avversari. Difatti, da allora in poi l’esercito regale avrebbe adottato la “tattica Dupplin”: un blocco centrale e serrato di picchieri a piedi accompagnato su entrambi i lati da una schiera di arcieri. La tattica prendeva il nome proprio dalla precedentemente citata battaglia di Dupplin Moor nella quale 500 picchieri e 1000 arcieri ottennero una delle più devastanti vittorie militari della storia: nella quale, come già ricordato, si soffriva un’inferiorità numerica di 10 a 137.
Riforma della strategia. Nel 1300, le teorie difensive dominavano largamente tra i circoli militari, per via della diffusione territoriale delle fortificazioni. Come sosterrebbero i teorici della Offense-Defense Theory,38 la tecnologia dell’epoca favoriva la difesa. Il genio di Edoardo si rivelò allora a livello strategico: dapprima egli pensò di assediare le città avversarie così da costringere il nemico alla resa o alla sconfitta (sul campo: questa strategia funzionò in alcuni casi – Halidon Hill– ma fallì altrove – Calais). E poi optò per la chevauchée. La razzia: gli inglesi avrebbero iniziato di lì in avanti a fare incursioni nei territori nemici per “ricordare” ai loro avversari che gli eserciti, in primo luogo, servivano proprio per difendersi da questo genere di attacchi. Al nemico si lasciavano così tre alternative: vedere le proprie risorse dilapidate, arrendersi o perdere sul campo39. Grazie a questa strategia, si impose una breve dominazione inglese sulla Scozia (1335) e la pace ai francesi (1360). O, in altre parole, le vittorie militari vennero trasformate in chiari successi strategici40.
Il genio. Un tale risultato non poteva che essere raggiunto grazie ad un fattore più unico che raro: il genio militare. Genio di cui Edoardo era sicuramente dotato: se infatti riuscì a trascinare sul campo degli eserciti che sapevano bene la convenienza delle posizioni difensive, il sovrano inglese doveva disporre di capacità notevoli e non comuni. Come diceva von Clausewitz, geni militari si nasce, non si diventa.

Il sistema moderno di dispiegamento delle forze armate
Dopo aver visto come una rivoluzione in campo militare, ovvero l’insieme della trasformazioni che permettono di ottenere una maggiore efficacia nelle proprie capacità di combattimento, non dipenda in via esclusiva dalla tecnologia ma piuttosto da altri ben più importanti fattori, conviene gettare lo sguardo su alcune recenti pubblicazioni che hanno letteralmente smontato le leggende sulla superiorità e sull’essenzialità della supremazia tecnologica nei conflitti moderni. La letteratura è numerosa e per motivi di spazio non possiamo darne pienamente conto. Per questo motivo, preferiamo concentrarci su un unico testo (a cui si aggiungeranno altri brevi riferimenti) che ha affrontato in maniera precisa e rigorosa l’intero tema. Quel libro è Military Power,41 scritto da Stephen Biddle, attualmente Senior Fellow for Defense Policy presso il prestigioso Council on Foreign Relations (il centro studio che pubblica la rivista Foreign Affairs) ed Elihu Root Chair of Military Studies allo Strategic Studies Institute dell’U.S. Army War College di Carlisle in Pennsylvania.
Il volume si compone di un’introduzione metodologica nella quale viene esposto il modello utilizzato (la cui base matematica è riportata in appendice) e poi dello studio di tre casi per verificare il modello medesimo. Quei casi sono l’Operazione Michael del 1917, l’Operazione Goodwood del 1944 e l’Operazione Desert Storm del 1991. I primi due casi sono “ecksteiniani” ovvero sono casi nei quali l’ipotesi di Biddle è fortemente sfavorita. Il terzo caso, sebbene non rispetti questa regola, è studiato a fondo perché alla base del dibattito degli anni Novanta sulla rma, come detto in precedenza.
Partiamo dal modello teorico di Biddle: egli sostiene che a partire dalla prima guerra mondiale si sarebbe sviluppato un “sistema moderno” di dispiegamento delle forze armate. Sistema che si fonderebbe (in offesa) sulla dispersione, copertura e occultamento di piccole e indipendenti unità di manovra che impiegano fuoco combinato e di soppressione (p. 35); e (in difesa) sul ricorso a posizioni a terra e nascoste, e sul contrattacco (p. 44-8; o più in generale sul ricorso all’elastic defense). Secondo Biddle, l’impiego di questa tattica sarebbe alla base dell’esito dei conflitti contemporanei. Per verificare la sua tesi, come accennato, egli esamina tre casi. Dalla loro analisi emerge che la superiorità tecnologica non è decisiva e che l’airpower, o più in generale il precision bombing (ottenuto tramite strumenti di artiglieria o appunto all’aviazione), è difficilmente in grado di ottenere i risultati sperati: anche i migliori, precisi e sofisticati strumenti d’arma incontrano dei problemi nel neutralizzare nemici che ricorrono alla «dispersione, copertura e occultamento».
In particolare, per quanto riguarda il primo punto, Biddle calcola una stima dell’anno medio di introduzione dei principali strumenti d’armi impiegati dalle due parti in conflitto per stabilire quale di esse sia quella tecnologicamente favorita.
I risultati sono i seguenti: nell’Operazione Michael, la tecnologia tedesca era datata in media luglio/1908. Quella inglese settembre/1908. Difficile credere siano stati quei due mesi e mezzo di differenza a determinare la vittoria inglese. Nell’Operazione Goodwood il lag temporale sarebbe stato invece di quasi due anni a favore degli inglesi, che registrarono una tecnologia in media risalente al febbraio del 1942 contro il marzo del 1940 dei tedeschi. A vincere furono però questi ultimi. Nell’Operazione Desert Storm, gli americani contavano invece su armi in media risalenti al settembre del 1973, contro il settembre del 1961 degli iracheni. Un dato significativo, anche perché questo lag di dodici anni è il più vasto mai registrato. Eppure, come Biddle argomenta nel suo libro, esso non riesce a dare una spiegazione esauriente. Per suffragare la propria tesi, il docente dell’Army War College sottolinea per esempio come le perdite subite dalle unità americane equipaggiate con gli armamenti più innovativi (cannoni a 120 mm, con uranio impoverito, eccetera) siano state assolutamente analoghe a quelle subite dalle unità tecnologicamente meno evolute. Due divisioni di marines erano addirittura equipaggiate per lo più con carri armati M60A1, un prodotto degli anni Sessanta (e sprovvisti di adattamenti tecnolocigi come cannoni a 120 mm o uranio impoverito) ma ciononostante le loro perdite furono addirittura inferiori a quelle dell’esercito. Senza contare che alcuni dei combattimenti più duri furono portati avanti con carri leggeri su gomma mentre lo stesso esercito dispiegò migliaia di Bradley M2 ed M3: due veicoli leggeri42.
Ma non è tutto. Come rileva Biddle,43 in Afghanistan i talebani hanno mostrato una capacità di resistenza notevole, e hanno reso l’avanzata americana non poco ardua, sebbene le armi da loro impiegate potessero difficilmente pareggiare dal punto di vista tecnologico quelle usate dai reparti speciali americani. E la ragione è semplice: perché questi ultimi, man mano che l’avanzata americana penetrò nel paese, si trovarono a confrontarsi con avversari sempre più addestrati e facenti ricorso ad un sistema di difesa “moderno”, fondato proprio sull’occultamento, sulla dispersione e il contrattacco. A Bai Beche, il 5 novembre, una forza talebana riuscì addirittura, proprio attraverso questa tattica, a sopravvivere in tale numero ad un bombardamento a tappeto di due giorni da poter lanciare il contrattacco in risposta all’avanzata dell’Alleanza del Nord. Bai Beche sarebbe poi caduta, ma il combattimento fu molto aspro e tutt’altro che unico. A Konduz infatti, alla fine di novembre, le sof americane dovettero persino ritirarsi tre volte; e sorte analoga toccò sull’autostrada 4 nel mese di dicembre o nel villaggio di Sayed Slim Kalay, a nord di Kandahar, tra il 2 e il 4 dicembre e ancora durante tutta l’Operazione Anaconda condotta nel mese di marzo 2002. Sintomo che i talebani trovavano la loro forza in fattori strutturali (buon addestramento) e assolutamente non casuali.
Per quanto riguarda il secondo punto, il precision targeting, Biddle sottolinea come anch’esso, per quanto importante, non sia di nuovo il fattore decisivo. Come il bombardamento di Bai Beche appena ricordato, o come la campagna irachena del 1991 dimostrano (durante la quale alcune unità addirittura non furono neppure toccate),44 contro il “sistema moderno” di difesa fatto di dispersione e occultamento, è ben difficile ottenere dei risultati devastanti. D’altronde lo stesso accadde nel corso dell’Operazione Goodwood, nella quale i tedeschi, per evitare di veder abbattuti i propri rinforzi operarono una linea di camuffamento, dispersione, e movimento notturno contro il quale l’aviazione alleata non poté molto.
La ragione, come precedentemente accennato, è semplice: la tecnologia conta, ma purtroppo non è il fattore più importante. Biddle non nega la sua rilevanza, ma nota semplicemente come un esercito altamente addestrato sia molto più efficace di uno tecnologicamente meglio equipaggiato. Cosa che in altre parole significa che dallo scontro di questi due eserciti è molto probabile che esca vincente il primo. L’effetto più devastante si ha quando tecnologia innovativa e elevato livello di addestramento si incontrano (come durante la guerra del 1991), ma tenendo sempre presente la precedenza delle capacità tattiche su quelle tecniche. D’altronde, per dare ancora maggiore solidità alla sua tesi, Biddle ha utilizzato un simulatore di conflitti armati, il migliore attualmente a disposizione, Janus. Dopo aver impostato il sistema dando un significativo vantaggio tecnologico o meno all’avversario, è emerso che le truppe statunitensi avrebbero vinto lo stesso, senza differenze significative, il conflitto del 1991. Risultati non dissimili a quelli a cui è arrivato uno studio della Rand Corporation di Santa Monica (centro studi molto più attento al lato tecnologico) che, ricorrendo ai simulatori jcats e otb (ritenuti in determinate circostante migliori di Janus), ha rilevato come anche le migliori tecnologie (nel caso: XM-29, protezioni personali, fuoco indiretto, ugv) debbano sempre fare i conti con un nemico che ha dalla sua parte: «terrain cover, preparation and surprise» (p. 77)45. Sembrano le parole che Biddle usa nel suo libro quando ricorda che il nostro pianeta è fatto di territori irregolari, nei quali è facile nascondersi, anche dalle migliori tecnologie di ricognizione.
In questo breve scritto abbiamo innanzitutto voluto ricordare le basi epistemologiche e concettuali della ragione per cui la tecnologia, per quanto importante, non è il fattore decisivo in un conflitto armato. La guerra è una questione complessa, nella quale accanto ai fattori materiali si trovano quelli umani, sociali, morali, organizzativi, culturali, e soprattutto politici; per cui credere che un solo elemento possa determinarne la fine è illusorio nonché sbagliato.
Abbiamo dunque ripercorso molto brevemente il dibattito sulla Revolution in Military Affairs, sottolineando la sua evoluzione e le sue implicazioni pratiche. Abbiamo poi ricordato un caso di rivoluzione negli affari militari nel quale la tecnologia non è stata assolutamente decisiva, eppure quella rivoluzione ha permesso una dominazione politica prolungata e duratura. Sintomo che se gli Stati Uniti vogliono mantenere la loro egemonia mondiale,46 per quanto riguarda le questioni militari è meglio che guardino con maggiore attenzione all’esperienza passata. Per motivi di spazio non abbiamo potuto trattare le altre rivoluzioni militari o comunque le ragioni dell’egemonia di alcune comunità politiche durante le epoche precedenti. In ogni caso, la tecnologia non ha mai rappresentato il fattore più importante. Basta pensare alla dominazione napoleonica in Europa, che trasse la sua forza dalla rivoluzione militare basata sulla levée en masse; o alla rivoluzione fiscale portata avanti dai nordisti mentre combattevano i sudisti durante la guerra civile americana. Rivoluzione fiscale grazie alla quale il Nord, tecnologicamente avanzato quanto il Sud, sarebbe poi emerso trionfante47.
Infine, abbiamo sottolineato i tratti salienti di quello che per noi è un libro che sicuramente farà ancora parlare di sé non solo nei prossimi anni, ma anche nei prossimi decenni: appunto Military Power di Stephen Biddle, nel quale un rigoroso studio quantitativo dimostra come storicamente, in tre distinti casi, la supremazia tecnologica non sia stata determinante per le sorti dei conflitti presi in considerazione e come, dall’altra parte, usando il migliore simulatore di combattimenti al mondo (Janus) per riprodurre la campagna del 1991, e calibrando la variabile “tecnologia” in modo da sfavorire gli Stati Uniti, i risultati non tendano a cambiare rispetto alla realtà osservata quindici anni orsono. A questo punto, alla luce delle tesi prima esposte, non resta che parlare brevemente delle loro implicazioni sulla pianificazione strategica del Pentagono. Come ricordato nella nostra introduzione, i conti pubblici americani non consentono molti spazi di manovra48. Lo stesso ovviamente vale per il bilancio del Pentagono. Di fronte a determinati limiti, bisogna decidere dove investire: l’esperienza passata e l’analisi più rigorosa danno una chiara indicazione. Le skills sono più importanti dei means. Purtroppo questa lezione non sembra essere molto chiara al Dipartimento della Difesa che, sotto la guida di Donald H. Rumsfeld, si è lasciato trascinare dal mito della transformation (concetto non così distante da quello di revolution),49 con tutte le implicazioni che ciò comporta, soprattutto per l’estrema (quasi religiosa) fiducia posta nella tecnologia.
L’ultima Quadriennal Difese Review sembra infatti andare esattamente nella direzione opposta a quella che non solo l’esperienza empirica da noi citata ma che anche la logica suggerirebbe. Infatti:
- viene addirittura prospettata una riduzione nel numero degli effettivi50. Azione che non è solo in contraddizione con quanto abbiamo detto noi finora, ma addirittura con la Quadriennal Difese Review medesima che allarga le competenze del Pentagono alle Stability Operation Forces51 (cosa che chiede implicitamente agli alleati di fornire la forza lavoro mancante);52
- pone una fiducia come detto “religiosa” sulla tecnologia. Infatti non si fa alcun taglio nei costosissimi strumenti d’arma, come il F/A 22 o il DD(X),53 ma piuttosto lo si effettua nelle dimensioni dell’esercito (punto 1);
- assume come certo il fatto che l’unica sfida che può provenire dalla Cina è di tipo asimmetrico. Quindi le precauzioni che vengono prese nei confronti dell’ex Impero celeste sono sbilanciate verso il concetto dell’asymmetric warfare54.
A ciò si aggiunga l’enfasi posta sia nella Quadriennal Difese Review che nella National Military Strategic Plan for the War on Terrorism sul ruolo che le forze indigene potranno avere nelle guerre future (tesi messa fortemente in dubbio dall’articolo di Stephen Biddle che appare di seguito55) e si comprende quanto la Difesa americana stia andando non proprio nella direzione corretta.
Per fortuna però non solo la Quadriennal Defense Review, come qualunque altro documento del governo americano, non ha la forza di dare un cambio di direzione così radicale da far trovare di colpo impreparati gli Stati Uniti, ma le guerre, come Machiavelli e von Clausewitz hanno insegnato, sono fenomeni particolarmente complessi nei quali la fortuna gioca ancora un ruolo importante. Ciò vuol dire dunque che se, come qui si sostiene, la pianificazione strategica degli Stati Uniti rischia di andare nella direzione sbagliata, per nostra fortuna ciò non significherà che Washington si troverà per forza di cose sconfitta alla prossima grande guerra con cui dovrà confrontarsi. I teorici della rma sostengono che la necessità di investire fortemente nelle nuove tecnologie deriva dal fatto che «altrimenti non potremo affrontare le guerre del futuro». Costoro, anche in questo caso, si dimenticano un dato fondamentale: non è tanto importante essere pronti per le guerre del futuro nel momento in cui esse scoppieranno, quanto piuttosto conta ben di più essere in grado di vincere l’ultima battaglia che le deciderà. Quella che appunto definirà il vincitore e lo sconfitto. Il forte, che farà, di lì in avanti, ciò che vuole, e il debole, che subirà ciò che deve. E per vincere l’ultima battaglia di una lunga guerra, come è sempre accaduto nella storia, ci vuole una buona strategia, più che una buona tecnologia. Perché una vittoria militare, per essere duratura ed efficace, deve trasformarsi in un successo politico-strategico. E ciò può avvenire solo grazie alla politica, non certo attraverso la tecnologia. Il vero rischio, dunque, non è tanto che i soldati americani siano sfavoriti durante il prossimo conflitto (elemento che comunque non può essere sottovalutato), ma piuttosto che i cambiamenti in atto al Pentagono siano il riflesso di un deficit di cultura strategica dell’intera nazione americana. Deficit che potrebbe rappresentare il vero tallone d’Achille per gli Stati Uniti nel futuro prossimo. Deficit contro il quale la stessa politica non può fare molto56.




Note
1. Victor Davis Hanson scrive a proposito: «Gli uomini e del passato non erano poi così diversi da noi. La guerra ha infatti dei tratti fondamentali: il suo essere interamente umano, indipendente dal tempo e dallo spazio». Si veda Victor Davis Hanson, A war like no other: Howe the Athenians and Spartan Fought the Peloponnesian War (Random House: New York, 2005), xvi.
2. Si veda Carl Von Clausewitz, Vom Kriege (Berlin: Ullstein, 2002 [1832]).
3. Il tema in realtà è dibattutto. Mentre per i realisti classici la ragione scatenante le guerre è quella menzionata, per i neorealisti come Kenneth N. Waltz le guerre sono provocate dalla natura anarchica del sistema internazionale. Si veda a proposito Kenneth N. Waltz, Man, The State and War (Columbia University Press, 1954).
4. Si veda, per esempio Hans J. Morgenthau, Revised by Kenneth W. Thompson, Politics Among the Nations: The Struggle for Power and Peace, Brief Edition (Boston: McGraw Hill, 1985 [1948]). A proposito, sembra d’obbligo riportare la celeberrima affermazione di Platone secondo la quale «solo i morti hanno visto la fine della guerra».
5. Tucidide, Guerra del Peloponneso (Torino: Einaudi, 1996).
6. Si veda per esempio Antulio J. Echevarria II, Globalization and the Nature of War (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2003), consultabile all’indirizzo www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pubs/ display.cfm?PubID=215.
7. Carl Von Clausewitz, op. cit.
8. Si veda a proposito Colin S. Gray, Weapons Don’t Make War: Policy, Strategy, and Military Technology (Lawrence, KS: University Press of Kansas, 1993).
9. Si veda Bernard Brodie, The Absolute Weapon: Atomic Power and World Order (New York: Harcourt, Brace and Co., 1946), 52.
10. Si veda per esempio Kenneth N. Waltz, “Nuclear Myth and Political Realities” in The Use of Force: Military Power and International Politics, ed. Robert J. Art and Kenneth N. Waltz (Lanham, MD: Rowman & Littlefield Publishers Inc., 2004), 102-117; o più in generale Kenneth N. Waltz, Theory of International Politics (Boston: McGraw Hill, 1979).
11. Si veda a proposito Philip Gourevitch, We Wish to Inform You That Tomorrow We Will be Killed With Our Families: Stories from Rwanda (New York: Picador, 1998).
12. John W. Mountcastle, “Forward”, in Sir Michael Howard and John F. Guilmartin Jr., Two Historians in Technology and War (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the Army War College, 1994), consultabile all’indirizzo www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pdffiles/PUB354.pdf.
13. Categoria che, non avendo a disposizione delle teorie, è facilmente portata a sovrastimare l’importanza dei fattori che ha maggiormente a cuore. Come ha scritto John Vincent, egli stesso uno storico, «gli storici non sono mai stati per i concetti, ancora di meno per il rigore». Si veda John Vincent, History (London: Continuum, 2005), 168. A proposito, si veda anche Antulio J. Echevarria II, “The Trouble with History,” Parameters, Vol. XXXV, No. 2 (Summer 2005): 78-90, consultabile all’indirizzo www.carlisle.army.mil/usawc/Parameters/05summer/echevarr.pdf.
14. Si veda a proposito Antulio J. Echevarria II, Fourth-Generation War and other Myths (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2005), consultabile all’indirizzo http://www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pubs/display.cfm?PubID=632.
15. Il post-modernismo e tutte le teorie ad esso legate (la teoria critica su tutte) è già abbastanza screditato da non aver bisogno di essere ulteriormente dileggiato in questa sede. A proposito, vogliamo solo citare quanto afferma Colin S. Gray, a seconda di chi scrive uno dei maggiori esperti a livello mondiale di Studi Strategici e Relazioni Internazionali: «È ridicolo che le cosiddette idee della “teoria critica” che ora sono generalmente fuori moda nelle loro discipline originarie (filosofia e teoria letteraria) debbano trovare dei devoti tra gli studiosi di politica. […] La teoria critica è intellettualmente divertente, ma non è fondamentalmente seria.». Colin S. Gray, Explorations in Strategy (Westport, CT: Greenwood Press, 1996), xii-xviii.
16. Tra tutti costoro, spicca Martin Van Creveld, Technology and War: From 2000 B.C. to the Present (New York: Free Press, 1989).
17. Si veda Colin S. Gray, “How Has War Changed Since the End of the Cold War?,” Parameters, Vol. XXXV, No. 1 (Spring 2005): 14-26, consultabile all’indirizzo www.carlisle.army.mil/usawc/Parameters/05spring/gray.pdf.
18. Si veda a proposito William H. McNeill, The Pursuit of Power (Chicago: University of Chicago Press, 1982).
19. Loren B. Thompson, Lawrence J. Corb, Caroline P. Wadhams, Army Equipment after Iraq (Washington, DC: Lexington Institute – Center for American Progress, 2006), consultabile all’indirizzo www.lexingtoninstitute.org/docs/773.pdf.
20. Gli Stati Uniti devono pensare di riequilibrare i loro conti perché la loro forza politica deriva in buona parte proprio dalla loro forza economica. A proposito, si veda per esempio Benn Steil, Robert E. Litan, Financial Statecraft: The Role of Financial Markets in American Foreign Policy (London & New Haven: Yale University Press, 2006).
21. Colin S. Gray, Recognizing and Understanding Revolutionary Change in Warfare: The Sovereignity of Context (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2006), 9.
22. Per una trattazione breve ma abbastanza dettagliata del dibattito sulla rma, si veda Tim Benbow, The Magic Bullet?: Understanding the Revolution in Military Affairs (London: Bressays, 2004).
23. Si veda per esempio Andrew W. Marshall, Some Thoughts on Military Revolutions, Memorandum for the Record, (Washington, DC: Office of the Secretary of Defense, Office of Net Assessment, July 27, 1993).
24. Si veda a proposito Colin S. Gray, Defining and Achieving Decisive Victory (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2002), consultabile all’indirizzo www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pdffiles/PUB272.pdf.
25. La definizione generalmente più accettata di RMA è quella di Andew F. Krepinevich secondo la quale essa consisterebbe «[nel]l’applicazione di nuove tecnologie in un significativo numero di sistemi militari unite ad innovativi concetti operativi e adattamenti organizzativi che permettono di alterare fondamentalmente il carattere e il corso di un conflitto. E ciò avviene attraverso una enorme crescita – spesso nell’ordine di magnitudo o più grande – del potenziale e dell’efficacia militare delle forze armate». Andrew F. Krepinevich, “Cavalry to Computer: The Pattern of Military Revolutions,” The National Interest, Vol. 37 (Fall 1994): 30.
26. Keir A. Liber, War and the Engineers: The Primacy of Politics over Technology (Ithaca: Cornell University Press, 2005).
27. Si pensi a tutta la letteratura sulle “nuove guerre”, sulle “guerre di quarta generazione”, eccetera che tra i suoi vari cavalli di battaglia annovera il presunto imbarbarimento dei nuovi conflitti armati il quale sarebbe a sua volta dimostrato, secondo i suoi alfieri, dalla crescita delle vittime civili. Ebbene: la guerra dei Trent’anni eliminò un terzo della popolazione europea, segno che le guerre sono sempre state violente, dato che costoro sembrano aver dimenticato. Tra i paladini di queste bizzarre teorie c’è sicuramente Mary Kaldor, New and Old Wars: Organised Violence in a Global Era (Palo Alto: Stanford University Press, 1999).
28. Si veda per esempio The White House, The National Security Strategy of the United States (Washington: 2006) e Department of Defense of the United States of America, Quadriennal Defense Review (Washington: 2006).
29. Raymond Aron, “The Evolution of Modern Strategic Thought,” in Alastair Buchan, ed., Problems of Modern Strategy (London: ISS, 1970), 25, (traduzione propria).
30. Per quanto riguarda il fenomeno del terrorismo, si veda Robert Pape, Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism (New York: Random House, 2005) e Mia Bloom, Dying to Kill: The Allure of Suicide Terrorism (New York: Columbia University Press, 2005). Per quanto riguarda invece un’analisi olistica del terrorismo e della sua minaccia, si veda Colin S. Gray, Irregular Enemies and the Essence of Strategy: Can the American Way of War Adapt? (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2006), consultabile all’indirizzo www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pubs/display.cfm?pubID=650. A ciò, si aggiungano le parole di Walter Laqueur, autore di uno dei saggi più citati a proposito del fenomeno terroristico: «Nei secoli, il terrorismo è apparso in forme diverse. Non è un’ideologia o una dottrina, ma piuttosto un medoto […]. Sebbene sia stato raramente assente dalla Storia, è stato più comune in alcune ere e civilizzazioni piuttosto che in altre. […] È difficile immaginare un mondo senza terrorismo nel futuro, siccome ciò comporterebbe un mondo senza conflitti e tensioni». Si veda Walter Laqueur, “Left, Right, and Beyond: The Changing Face of Terror,” in James Hoge and Gideon Rose, eds., How Did This Happen? Terrorism and the New War (New York: Council on Foreign Relations, 2001), 71-82.
31. Con buona pace di quanti cercano di propinare “soluzioni nuove” per “minacce nuove”. Si veda a proposito Stephen J. Blank, Rethinking Asymmetric Threat (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2003), consultabile all’indirizzo www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pubs/display.cfm?PubID=103.
32. Si veda a proposito Wolfgang Keller, “Intenational Technology Diffusion,” Working Paper 8573 (Cambridge, MA: National Bureau of Economic Researc, October 2001) consultabile all’indirizzo www.nber.org/papers/w8573; e Arnulf Grubler, “Time for a Change: On the Patterns of Diffusion of Innovation,” Daedalus, Vol. 125 (1996). Per quanto riguarda la diffusione della tecnologia militare in particolare, si veda Emily O. Goldman and Richard B. Andrei, “Systemic Effects of Military Innovation and Diffusion,” Security Studies, Vol. 8, (Summer 1999): 79-125.
33. Si veda Clifford J. Rogers, “’As if a new sun had risen’: England’s fourteenth century RMA”, in The Dynamics of Military Revolution: 1300–2050, ed. MacGregor Knox and Williamson Murray, 15-24 (Cambridge, UK: Cambridge Universty Press, 2001).
34. Si veda Clifford J. Rogers, War, Cruel an Sharp: English Strategy under Edward II, 1327–1360 (Woodbridge, 2000).
35. Clifford J. Rogers, “The Efficacy of the English Longbow: A Reply to Kelly DeVries,” War in History, Vol. 5, No. 2 (1998): 233-242..
36. John Barbour, The Bruce, ed. A. A. M. Duncan (Edinburgh: Penguin, 1997).
37. Rogers, War, Cruel and Sharp.
38. A proposito si veda per esempio Stephen Van Evera, Causes of War: Power and the Roots of Conflict (Ithaca: Cornell University Press, 1999).
39. La strategia non era molto differente da quella di Sparta durante la guerra del Peloponneso.
40. Clifford J. Rogers, “Edward II and the Dialectics of Strategy, 1327 – 1360,” The Wars of Edward III: Sources and Interpretations, ed. Clifford J. Rogers (Woodbridge, UK: Boydell Press, 1994).
41. Stephen Biddle, Military Power: Explaining Victory and Defeat in Modern Battle (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2004).
42. Si veda per esempio Operation Desert Shield/Desert Storm, Hearings Before the Committee on Armed Services, United States Senate (Washington, D.C.: U.S. GPO, 1991), S. Hrg. 102-32648; Brigadier General Robert H. Scales et al., Certain Victory: The United States Army in the Gulf War (Washington, D.C.: Office of the Chief of Staff, U.S. Army, 1993), 366-367. Michael Gordon and Bernard Trainor, The Generals’ War (Boston: Little, Brown, 1995), 359.
43. Stephen D. Biddle, “Allies, Airpower, and Modern Warfare: The Afghan Model in Afghanistan and Iraq,” International Security, Vol. 30, No. 3 (Winter 2005/06): 161–176.
44. Oltre al testo in questione, si veda per esempio Stephen Biddle, “Victory Misunderstoos: What the Gulf Tells Us About Future Conflict,” International Security, Vol. 21, No. 2 (Fall 1996): 139-179.
45. Randal Steeb, John Matsumura, et al., Examining the Army’s Future Warrior: Force-on-Force Simulation of Candidate Technologies (Santa Monica, CA: Arroyo Center, Rand Corporation, 2004), consultabile all’indirizzo www.rand.org/pubs/monographs/MG140.
46. Si vedano alcuni dei documenti più importanti relativi alla strategia americana: la Quadriennal Defense Review del 2001, quella del 2006, la National Security Strategy, la Military Strategy of the United States of America, eccetera nei quali il concetto dell’egemonia è sempre espresso senza eccessive perifrasi. Soprattutto quando si afferma che, accanto alla promozione della democrazia, dei diritti umani, dell’economia di mercato, gli Stati Uniti lavorano per evitare l’emergere di una potenza egemone in uno dei continenti strategici: Asia, Medio Oriente, Europa e America Latina.
47. Per una trattazione omnicomprensiva si veda MacGregor Knox and Williamson Murray, The Dynamics of Military Revolution: 1300–2050, (Cambridge, UK: Cambridge Universty Press, 2001).
48. Si veda per una prospettiva storica, Dennis S. Ippolito, Budget Policy, Deficits, and Defense: A Fiscal Framework for Defense Planning (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute of the U.S. Army War College, 2005), consultabile all’indirizzo www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pubs/display.cfm?pubID=604.
49. Donald H. Rumsfeld, “Transforming the Military”, Foreign Affairs, (May/June 2002), consultabile all’indirizzo www.foreignaffairs.org/20020501faessay8140/donald-h-rumsfeld/transforming-the-military.html.
50. Si veda Lawrence Corb, DOD’s QDR and the 2007 Defense Budget: Headed in the Wrong Direction, CDI, February 14 2006, consultabile all’indirizzo www.cdi.org/program/document.cfm?DocumentID=3310&from_page=../index.cfm.
51. Colin S. Gray, “Stability Operations in Strategic Perspective: A Skeptical View,” Parameters, Vol. XXXVI, No. 2 (Summer 2006): 4-14, consultabile all’indirizzo www.carlisle.army.mil/usawc/Parameters/06summer/gray.pdf.
52. Si veda Stephen D. Biddle, Douglas Holtz-Eakin, William L. Nash, Roundtable on the Quadriennal Defense Review (New York: Council on Foreign Relations, 2006), consultabile all’indirizzo www.cfr.org/publication/9821/roundtable_on_the _quadrennial_defense_review.html?breadcrumb=default
53. Si veda a proposito John F. Schank, Giles K. Smith, et. al., Acquisition and Competition Strategy Optino for the DD(X): The U.S. Navy’s 21st Century Destroyer (Santa Monica, CA: Rand Corporation, 2006), consultabile all’indirizzo www.rand.org/pubs/monographs/MG259.1/; e Obaid Younossi, David E. Stem, et. al., Lessons Learned from the F/A-22 and F/A-18 E/F Development Programs (Santa Monica, CA: Rand Corporation, 2005), consutabile all’indirizzo www.rand.org/pubs/monographs/MG276/index.html.
54. Andrew F. Krepinevich, The Quadriennal Defense Review: Transforming to Meet Tomorrow’s Security Challenges (Washington, DC: National Defense University, 2006), consultabile all’indirizzo www.comw.org/qdr/fulltext/0603krepinevich.pdf.
55. Stephen D. Biddle, Allies, Air Power and Modern Warfare.
56. Quindi le vere sfide si trovano sulla strategia americana. Esse sono magnificamente riassunte da Colin S. Gray, Irregular Enemies and the Essence of Strategy: Can the American Way of War Adapt?.



* Si ringraziano i blogger “Wellington” e “Silendo” per i numerosi consigli, gli spunti, le indicazioni e per aver visionato più volte questo scritto prima della sua pubblicazione.

 

Andrea Gilli, studente del MSc in International Relations alla London School of Economics and Political Science.

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