Il senso della responsabilità politica
di Domenico Mennitti
Ideazione di settembre-ottobre 2006

Politica ed economia sono i due pilastri sui quali si reggono le società degli uomini e sono perciò destinate ad avere un rapporto intenso ed ineludibile. La qualità del rapporto condiziona molto lo sviluppo, il tenore di vita, il livello di istruzione delle comunità; influisce cioè non solo sulle condizioni economiche e sociali, ma pure su quelle civili ed istituzionali.
Politica ed economia sono due poteri che esprimono interessi forti; sono alternativamente uniti o separati, concordi o conflittuali, però hanno necessariamente bisogno di raggiungere l’equilibrio perché il sistema possa funzionare. Contrapposizioni e mediazioni hanno quindi il destino finale obbligato della composizione. Un potere – per legittimarsi – ha bisogno dell’altro. In termini teorici l’eterna contesa riguarda la conquista del primato.
La politica interpreta il rapporto con l’economia secondo il modello di mezzo e fine. Il mezzo è economico, il fine politico: il senso è che la politica disegna lo sviluppo, che si realizza utilizzando l’economia come mezzo operativo. Dall’altra parte non vi è una contestazione esplicita di questo principio; c’è piuttosto una riserva, nel senso che gli operatori economici puntano ad influenzare con la forza dei loro mezzi le decisioni che i vertici politici assumono.
Sembra un rompicapo, ma è il conflitto che si svolge quotidianamente ed investe la vita di un popolo, oggi di più popoli organizzati in istituzioni sovranazionali. Ed è soprattutto un conflitto con regole solennemente evocate e palesemente trasgredite, perché interviene con ruolo decisivo la forza del denaro, che opera sulla natura debole dei protagonisti e genera la tentazione a confondere gli interessi generali con quelli particolari di gruppi o di persone.
Politica ed economia hanno un rapporto difficile e tuttavia indispensabile, nel senso che non se ne può fare a meno. La politica elabora i programmi, traccia le direttrici dello sviluppo, le trasforma in leggi e regolamenti che poi l’economia traduce in progetti concreti aprendo cantieri, costruendo impianti produttivi, creando posti di lavoro. Il rischio è che il rapporto assuma forme distorte e che apra il varco attraverso il quale nella vita pubblica irrompe la corruzione, vizio antico quanto sono antichi gli uomini, e il ricorso agli scambi tra di loro. Il sistema degli affari, si è gradualmente esteso a forme sofisticate di trasferimento di beni di denaro e costituisce una micidiale occasione per aggredire la moralità pubblica.
A questo punto si pone la domanda più attuale: è lecito per la politica ricorrere a fondi privati per svolgere la propria funzione che non si esercita solo elaborando le idee ma anche comunicandole, non si limita ad informare i cittadini elettori ma anche ad organizzarli in strutture efficienti? Sono attività che notoriamente richiedono un impegno finanziario intenso che non è sostenibile con l’apporto dei soci.

Le risorse della politica
Dalla prassi in auge in tutto il mondo si deduce che ovunque l’economia destina risorse alla politica, ma che queste operazioni – quasi sempre di scambio – debbono avvenire nel rispetto di alcune regole. Esse mutano da paese a paese e costituiscono pure il metro per valutare la qualità e la maturità dei sistemi istituzionali, in particolare di quelli regolati democraticamente. Da qualche parte sono ufficializzate le lobby che svolgono apertamente una funzione di accreditamento delle imprese e degli imprenditori presso la classe politica; altrove vige una situazione indefinita, che in effetti serve a rendere elastiche e soggettive le interpretazioni della norma. Comunque il principio generale è che i protagonisti dell’economia scelgono di finanziare, quindi di potenziare, i movimenti politici i cui programmi corrispondono alle loro prospettive di sviluppo e, quindi, alla fine fanno i loro interessi.
Ora i dibattiti non vanno più di moda ed è sopravvenuta una tendenza pragmatica per la quale gli imprenditori accorrono dove si esercita il potere cercando di accreditarsi a prescindere da qualunque scelta politica e programmatica. Però nel 1956, prima che si costituisse il Ministero per le Partecipazioni statali, in Italia non si svolse solo un confronto serrato fra sostenitori dell’industria pubblica e di quella privata. I partiti di maggioranza, capeggiati dalla dc, scesero in campo sostenendo la costituzione dello Stato imprenditore; dall’altra parte Confindustria fu attivissima nel mobilitarsi a difesa dell’imprenditoria privata, sostenendo anche con contribuzioni dirette i parlamentari contrari allo Stato padrone. Ignorare questi eventi è una delle ipocrisie italiane, sulle quali agiscono la coincidenza delle morali cattoliche e comuniste. Per entrambe, come è noto, il denaro è il diavolo e percepirlo indebitamente è peccato. Non possederne però è limitativo per lo svolgimento della funzione politica, per cui se l’operazione avviene e nessuno la scopre, si può far finta di niente. Amen. La storia si replicò più o meno negli stessi termini al tempo delle nazionalizzazioni di alcuni delicati settori produttivi, in primo luogo dell’energia, quando il psi impose alla dc una invadente presenza dello Stato al tempo del varo dell’approvazione del programma del primo governo di centrosinistra.
Il cosiddetto costo della politica rapidamente moltiplicò le cifre: i partiti si divisero in correnti, le correnti avevano necessità di disporre di autonomi strumenti di comunicazione, i burocrati centrali e periferici dell’apparato partitico erano diventati legione e nessuno più riusciva a comprendere a quali fondi le forze politiche attingessero per reggere una spesa diventata di spaventose proporzioni. Era evidente che si svolgeva nel paese una trama di interessi illeciti che però spogliavano di prestigio la politica, perché essa subiva pesanti condizionamenti sulle scelte generali dello sviluppo. Oronzo Reale, prestigioso giurista e parlamentare repubblicano di Lecce, che però veniva eletto nella circoscrizione di Ravenna, nel 1974 fu delegato a promuovere una legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Reale era un uomo serio e pensava di normalizzare la vecchia situazione e di stabilire buone regole per il futuro, ma i risultati delusero completamente le intenzioni.
Il finanziamento pubblico, dopo qualche anno dalla istituzione, dimostrò di essere inadeguato a sostenere le continue richieste di denaro delle forze politiche. La legge prevedeva l’intervento dello Stato valutandolo per ciascun partito sulla partecipazione alle campagne elettorali, sui voti ricevuti, sulla consistenza dei gruppi parlamentari e, nonostante vari adeguamenti, si rivelò inefficiente e per certi aspetti addirittura perversa: invece di ridurre l’area delle contrattazioni affaristiche, di fatto le ampliò. Trasferendo la responsabilità del comportamento illecito alla persona che effettivamente lo compiva, di fatto ridusse il potere dei partiti ed ampliò quello dei singoli protagonisti, in particolare dei tanti satrapi che presiedevano i punti di spesa delle amministrazioni pubbliche sparsi in tutto il paese. In buona sostanza oltre ai ministri ed ai dirigenti centrali, presidenti di enti periferici, sindaci, assessori, divennero protagonisti di rapporti diretti con le imprese ed i partiti finirono con lo svolgere un ruolo di copertura. Erano di solito chiamati in causa per giustificare la natura politica dell’operazione che in verità aveva spesso miserabili ragioni private.

La Prima Repubblica verso Tangentopoli
Il “patto d’onore” fra il partito e il suo dirigente prevedeva che, ove fosse scoppiato lo scandalo, il dirigente accusato avrebbe rilasciato più o meno la seguente dichiarazione: «Il partito non c’entra ed anzi mi autosospendo per tenerlo fuori da tutto, rispondo alla giustizia da cittadino qualsiasi e rivendico la totale estraneità al reato contestato». Era una formula di ipocrisia combinata, molto simile a quella che vige nelle società mafiose; occorre dire che essa genera un pizzico di nostalgia, in tempi in cui chiunque venga scoperto con le mani nel sacco grida ai quattro venti: «Mi dichiaro prigioniero politico».
Nel frattempo il conto della politica aveva anche modificato le voci di spesa. Originariamente gran parte dei fondi illecitamente incassati erano veramente utilizzati per fare la politica: per fondare giornali o riviste, per organizzare convegni, per promuovere sedi di selezione delle classi dirigenti. A metà degli anni Ottanta intervennero fenomeni nuovi che investirono la compattezza dei partiti produssero ovunque lo schema della guerra per bande con l’utilizzazione dei fondi più orientata al soddisfacimento di interessi personali alquanto mediocri: importanti processi hanno rilevato che dalla stessa cassa si attingeva per organizzare comizi ma anche per acquistare auto di lusso, seconde case in campagna o al mare. Addio coincidenza tra obiettivi politici ed economici, addio scelte di campo tra pubblico e privato: ad un certo punto è accaduto che, addirittura di fronte ad eventi calamitosi come il terremoto, si programmassero infrastrutture non per ricostruire ma per assestare le cosiddette casse politiche. Sempre alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe De Rita dal puntuale osservatorio del censis calcolò che il costo del sistema tangentizio era attestato intorno all’8 per cento del pil e ammonì che si stava superando la soglia sostenibilità. Così è accaduto.
Che cosa è stata Tangentopoli? Alcuni ancora sostengono che è stata una rivoluzione, ma non è vero. Le rivoluzioni si svolgono in spazi temporali brevi: si batte un sistema e se ne costruisce un altro. La rivoluzione, infatti, è un evento attraverso il quale chi la promuove punta a realizzare una situazione alternativa a quella vigente. Il fine perciò è altamente politico, il mezzo quello che le condizioni del tempo rendono disponibile. Il fatto che il risultato di Tangentopoli sia questa interminabile transizione che dura da circa tre lustri dimostra che è un caso nel quale c’è stata confusione tra il fine ed il mezzo.
Secondo una versione ancora oggi molto accreditata, all’alba degli anni Novanta fu il potere economico a scatenare Tangentopoli, preoccupato dalla fragilità istituzionale, dall’arretratezza del sistema di governo, dal forte condizionamento esercitato attraverso la corruzione. La politica era ridotta male e non riusciva ad esprimere alcuna capacità di recuperare ruolo e dignità. Aveva affidato le speranze di rinnovamento istituzionale ad una commissione speciale parlamentare che aveva moltiplicato l’impressione della debolezza non conseguendo alcun risultato. Quando un potere vive una situazione di così grave difficoltà accade sempre che un altro vada a coprire il vuoto ed in Italia è accaduto che questo compito se lo siano assunto i giudici. Non a caso avevano conquistato negli anni una larghissima autonomia, avevano ideologizzato la loro funzione soprattutto attraverso la costituzione di un gruppo interno di sinistra denominato Magistratura Democratica, possedevano l’arma solenne e terribile di poter togliere la libertà a chi fosse stato inquisito. Ma i giudici sono giudici, possono disperdere una classe dirigente e politica, non proporsi in alternativa ad essa. Sono anch’essi mezzo, non fine, tanto è vero che dopo quindici anni ci ritroviamo con tutti i problemi di allora insoluti. Dei protagonisti di quella stagione, i più si sono rifugiati in Parlamento, dove svolgono ruoli marginali, qualche altro dà senso alla pensione interessandosi di calcio.

Il rapporto irrisolto tra economia e politica
Fra i problemi irrisolti resta quello del rapporto fra politica ed economia. Ogni tanto qualche buon magistrato con qualche tardo epilogo di Tangentopoli ripropone il problema attraverso inchieste il cui clamore si è di molto ridotto. Il punto resta quello di chiarire se può, quando può, come può l’economia passare contributi alla politica. Questo è un problema che non va preso per la coda, ma per la testa, nel senso che la corruzione minuta rappresenta un elemento, ma occorre incidere sui comportamenti pubblici perché è uno di quei casi nei quali vale la tenuta morale complessiva della classe dirigente. Non c’è altra strada che quella del buon esempio, del ripristino del senso della responsabilità pubblica, del messaggio che fornisce ai cittadini la speranza che la politica sia terreno di scontro che tuttavia si deve svolgere secondo regole di lealtà. Certo, sostenere tesi di questo genere nel tempo in cui maggioranza ed opposizione, ogni giorno, fanno la guerra per comunicarsi di avere acquisito qualche senatore dall’altra parte può sembrare utopistico, ma è dalle grandi utopie che la politica ha colto sempre forza e dignità. Economia e politica hanno un conto aperto con la prospettiva che non si possa chiudere.

Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi e presidente della Fondazione Ideazione.

(c) Ideazione.com (2006)
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