Modern Warfare, il modello afgano
di Stephen D. Biddle
Ideazione di settembre-ottobre 2006

La campagna del 2001 con la quale è stato abbattuto il regime dei talebani ha assunto una particolare importanza negli studi strategici perché quel risultato è stato ottenuto senza un massiccio intervento di truppe di terra. In questo modo, essa ha dato vita al “modello afgano” (di combattimento); modello nel quale le convenzionali truppe di terra vengono sostituite da alleati indigeni che nella loro missione sono supportati dalla forza aerea statunitense e da piccoli gruppi di sof (le Special Operation Forces americane, ndt).
Questo modello è stato al centro di accese discussioni fin dalla sua nascita, anche se nel tempo i disaccordi si sono progressivamente ridimensionati. Nel 2001, le spiegazioni date al crollo del regime afgano erano principalmente due. La prima avvalorava il “modello afgano” e riteneva che le condizioni locali incontrate in Afghanistan fossero sostanzialmente irrilevanti, e ciò comportava, per i suoi fautori, l’improrogabile necessità di ristrutturare la potenza militare americana in modo da adattarla a questa new way of war1. L’altra spiegazione, al contrario, considerava i fattori locali come la vera chiave della caduta dei talebani, e quindi l’esito di quella campagna come un colpo di fortuna, con ben poche implicazioni pratiche a livello strategico2.
Da allora, però, le due posizioni si sono pian piano avvicinate. Nel 2002, per esempio, ho sostenuto che «l’Afghanistan non era né una rivoluzione né un colpo di fortuna […] il modello afgano può funzionare sotto alcune importanti condizioni, che però non sono sempre presenti»3. Ora, Richard Andres, Craig Wills e Thomas Griffith4 sostengono analogamente che «gli strateghi devono utilizzare con giudizio il nuovo modello», il quale funzionerà, ma non sempre5. Questo avvicinamento rappresenta senza dubbio un progresso. E difatti attualmente il disaccordo verte solo sulle condizioni necessarie perché questo modello abbia successo.
Eppure, le divisioni restano ancora marcate. Sebbene la portata del disaccordo si sia ridotta, essa è ancora grande abbastanza da avere implicazioni pratiche diametralmente opposte. Più nel dettaglio, Andres, Wills e Griffith ritengono che debbano essere soddisfatte solo poche condizioni, cosa che implicitamente suggerisce una vasta applicabilità del modello stesso. Per quanto esso non possa comunque risultare vincente contro nemici del primo mondo, avvertono i tre autori, esso, contro qualunque altro nemico, può permettere agli alleati americani di prevalere a prescindere dalle capacità e dall’addestramento avversario6.
Io, invece, credo che le condizioni necessarie per il successo di questo modello siano molto più numerose e restrittive. A mio modo di vedere, infatti, solo degli alleati con capacità e motivazione tali da avvicinarsi a quelle del nemico possono avere qualche possibilità di successo. Cosa che invece non può assolutamente accadere se si combatte con alleati inetti o demotivati7. E siccome molti dei nostri possibili alleati sono spesso addestrati peggio dei nostri plausibili avversari, allora è facile pensare che il modello possa risultare vincente soltanto in una serie di casi molto più limitata di quanto Andres, Craig e Griffith non suggeriscano.
Questo disaccordo, sia chiaro, è di fondamentale importanza in quanto l’errata percezione dell’applicabilità del modello afgano ha delle implicazioni possibilmente devastanti: potrebbe infatti portare al fallimento delle politiche che esso stesso vorrebbe servire; potrebbe condurre ad errori di pianificazione, con il risultato di dare vita ad un esercito mal strutturato o, ancora, all’inutile perdita di vite umane.
Per esempio, molti analisti e policymaker sostengono la necessità di “trasformare” l’esercito americano. Secondo una scuola di pensiero questa trasformazione dovrebbe favorire lo sviluppo delle capacità di fuoco di precisione a lunga distanza, a discapito delle tradizionali capacità di combattimento ravvicinato8. Un’altra scuola, all’opposto, ritiene che queste capacità di fuoco di precisione siano diventate tanto potenti che anche solo una loro frazione sarà sufficiente per trionfare in operazioni di vaste dimensioni; e ciò, a sua volta, permetterebbe di riconfigurare l’esercito americano, sviluppando delle capacità di counterinsurgency e di nation building9. Ad entrambi, Andres, Wills, e Griffith offrono un sostegno enorme, in quanto, secondo loro, in futuro gli Stati Uniti potranno vincere qualunque conflitto facendo semplicemente affidamento sul fuoco di precisione e su pochi e piccoli gruppi di commando. L’unica eccezione sarebbe rappresentata dalla Cina, contro la quale il modello afgano non potrebbe essere applicato.
D’altronde sono gli stessi Andres, Wills e Griffith a chiedere la trasformazione delle forze armate americane in modo che essa venga a fondarsi su due pilastri: capacità di fuoco di precisione a lunga gittata e forze leggere di counterinsurgency.
Io sono di parere nettamente opposto: credo infatti che gli Stati Uniti continuino ad avere bisogno di forze di combattimento ravvicinato, specie per affrontare conflitti di grandi dimensioni – e pertanto considero molto rischiosa la proposta avanzata dai tre studiosi10.
La logica su cui si basa la loro analisi ha però altre implicazioni, alcune di grande portata, come per esempio la possibilità di intervenire militarmente in nuovi teatri di guerra, anche durante l’attuale conflitto in Iraq. Se l’esercito e il corpo dei marines sono pesantemente impegnati in Iraq, lo stesso non si può dire per l’aeronautica e per la flotta militare e ciò permette di disporre di importanti capacità di fuoco a lunga distanza da utilizzare per aprire nuovi teatri di guerra.
Se il modello afgano è ampiamente applicabile come Andres, Wills e Griffith sostengono, allora regimi come quello iraniano e quello siriano potrebbero essere rovesciati senza dover necessariamente distogliere truppe dalle operazioni militari in Iraq e Afghanistan11. In quanto se, come sempre i tre studiosi affermano, la guerriglia irachena è una risposta all’invasione di terra di tipo convenzionale operata dagli Stati Uniti, allora, seguendo la loro ratio, l’attacco contro questi paesi non dovrebbe scatenare una guerriglia, e ciò a sua volta non comporterebbe, nel post-invasione, la presenza di forze di counterinsurgency.
Anche in questo caso sono di opinione diversa: innanzitutto, vedo ben poche possibilità di intervenire in nuovi teatri, almeno a breve termine12. In secondo luogo se, come ho già sostenuto, gli alleati indigeni hanno bisogno di capacità simili a quelle dei loro nemici, allora Siria e Iran (per esempio) si prestano ben poco a subire il nostro modello afgano in quanto non mi risulta che ci siano forze di opposizione locale adeguatamente addestrare e che possano combattere al nostro fianco. Detto in modo più diretto, se bisogna avere alleati con competenze analoghe a quelle dei nostri possibili nemici, allora il modello afgano può essere applicato in un numero di circostanze decisamente limitato.
Chiarito questo punto, non resta che ragionare su due elementi fondamentali: le condizioni necessarie perché il modello abbia successo, e (quindi) il suo campo di applicazione. A mio modo di vedere, il punto dal quale bisogna partire è il seguente: le skills sono essenziali; alleati con capacità tattiche ridotte non sono in grado di operare in modo integrato con il nostro airpower e le nostre sof. Il modello afgano, di conseguenza, funzionerà qualche volta, ma di sicuro meno spesso di quanto Andres, Wills e Griffith dichiarano.
È quanto cerco di spiegare nelle pagine successive: innanzitutto deducendo gli assunti che stanno alla base delle argomentazioni di Andres, Wills e Griffith. In secondo luogo cercando di valutare se essi sono realmente osservabili nel corso dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, cosa che dovrebbe accadere, se i tre studiosi avessero ragione. E infine, alla luce di quanto emerso nei due precedenti passaggi, concludo cercando di valutare le implicazioni di questo modello sulla politica di difesa americana.
A questo punto, la domanda non è tanto se il modello afgano può replicare le performance ottenute in Afghanistan, ma piuttosto quando e quanto spesso ciò possa accadere. In particolare, bisogna chiedersi se questo modello è in grado di ovviare una netta inferiorità tattica. Secondo Andres, Wills e Griffith la risposta è positiva. E perciò esso sarebbe ampiamente replicabile. Io, invece, sostengo che non è possibile, e che di conseguenza l’applicabilità del modello è nettamente inferiore. Per stabilire quale sia la posizione più fondata, credo sia necessario stabilire ciò che il modello deve essere assolutamente in grado di fare sul campo13.
Andres, Wills e Griffith sostengono che «dipende dalla missione», suggerendo implicitamente che degli alleati particolarmente deboli possano comunque avere successo se assegnatari di missioni facili14. È ovvio che chiunque può completare con successo la propria missione se essa è particolarmente semplice. Il punto è che le missioni militari non sono necessariamente semplici, soprattutto perché esse non nascono dal nulla ma al contrario vengono determinate dagli interessi politici per cui si combatte. Stando alla logica dei tre studiosi, bisognerebbe declinare le missioni inconvenienti o tatticamente difficili: ma ciò significa mettere a rischio o sacrificare degli interessi politici. A meno che non si creda che gli Stati Uniti debbano combattere solo per fini politici modesti, che comportano missioni facili, contro nemici incapaci. Ma anche seguendo questa strada, il modello afgano sarebbe sempre molto meno versatile di quanto Andres, Wills e Griffith sostengono.
Perché il modello sia ampiamente applicabile, deve essere in grado di operare con successo anche in missioni complesse: allora è necessario definire gli obiettivi che ad esso si richiede di raggiungere in questo genere di missioni. Per me, il modello afgano deve dimostrare di essere in grado di difendere e conquistare delle posizioni di terra nevralgiche. Quando infatti la conquista di posizioni terrestri non è necessaria, allora sarà sufficiente un attacco aereo di coercizione, anche senza sof ed eserciti alleati: o più semplicemente non sarà necessario il modello afgano. Ma quando il controllo del territorio è assolutamente necessario, allora diventa fondamentale che chi attacca sia in grado di applicare la copertura, il camuffamento, la dispersione e il fuoco di soppressione, in modo da ridurre la propria esposizione al fuoco nemico e quindi riuscire nel suo compito (o all’opposto che si abbiano le capacità per portare a termine un attacco preventivo che distrugga le difese nemiche)15. Ecco perché sostengo che le capacità tattiche sono fondamentali. Con delle truppe non addestrate è infatti impossibile avanzare contro il fuoco nemico e ciò costringe ad un attacco preventivo che annichilisca le difese avversarie. Ma se per caso anche solo una manciata di postazioni nemiche (coperte ed equipaggiate con armi automatiche) dovesse sopravvivere a questo attacco, allora l’avanzata sarebbe nuovamente impossibile.
Andres, Wills e Griffith sviano questo problema suggerendo un’altra strada: a loro modo di vedere, la forza aerea sarebbe la chiave di vittoria, in quanto consente di colpire in anticipo le riserve che il nemico tiene dietro alle linee di combattimento. Ma se così fosse, se cioè bastasse il solo airpower, allora il fuoco di interdizione a livello operativo dovrebbe bastare per bilanciare un’inferiorità tattica, e quindi l’airpower americano potrebbe permettere anche ad alleati non addestrati di prevalere senza che vi sia bisogno di eliminare obiettivi coperti o camuffati16. Ma c’è un problema: un’offensiva di interdizione può essere molto potente, ma funziona solo se punta ad indebolire le capacità di risposta dell’avversario; capacità di risposta che diventano necessarie solo quando chi attacca è in grado di penetrare le linee nemiche. Delle truppe che non sono capaci di avanzare sotto il fuoco nemico non possono certo sfondare le sue linee di difesa e quindi obbligarlo a rispondere. Dunque il problema non si pone.
Per essere più chiari: chi attacca concentra la propria forza su un determinato punto in modo da creare una temporanea preponderanza numerica e cercare il breakthroug (lo sfondamento, ndt) prima che i nemici possano spostare dei rinforzi in quell’area. Il fuoco di interdizione, in offesa, serve proprio per ostacolare il sopraggiungere di questi rinforzi e così favorire il tentativo di sfondamento17. Ma se chi attacca non è in grado di avanzare contro il fuoco nemico, allora chi difende può fermare qualunque attacco, anche numericamente superiore, senza bisogno di alcun rinforzo. E se i rinforzi non sono necessari, allora la capacità di interdizione diventa irrilevante.
Maggiore è l’incompetenza tattica di chi attacca, minore è il bisogno di rinforzi (per chi difende). E minore è il bisogno di rinforzi, minore sarà la differenza che il fuoco di interdizione sarà in grado di fare sull’esito del conflitto.
Il modello afgano, dunque, per ribaltare uno svantaggio tattico, deve essere in grado o di evitare il combattimento diretto tra le nostre truppe di terra e quelle avversarie, o per lo meno di rendere il suo esito favorevole alla nostra parte. Per Andres, Wills e Griffith è esattamente quello che accade, visto che il modello avrebbe dimostrato di riuscire ad annichilire le difese avversarie (anche addestrate) prima che i nostri alleati si espongano al loro fuoco.
Purtroppo non c’è alcuna prova che il modello afgano funzioni in questa maniera. Esso è stato usato sia in Afghanistan che in Iraq, dove si è dimostrato particolarmente efficace nell’assistere alleati competenti e nel distruggere preventivamente nemici non addestrati. Ma è anche stato usato contro difese ben preparate e organizzate, precisamente nel corso dell’ultima fase della campagna afgana: e in questo caso i risultati sono stati ben diversi. Il modello non ha permesso di distruggere in misura sufficiente le posizioni nemiche, e quindi gli scontri tra le nostre forze di terra e quelle avversarie non sono stati evitati. Ma non solo: esso non ha neppure consentito ai nostri alleati di vincere quelle battaglie.

Il modello afgano a Kabul
In Afghanistan i due fronti comprendevano al loro interno un eterogeneo insieme di combattenti addestrati e non. E ciò permette di osservare il funzionamento del modello afgano con differenti mix di capacità tattiche tra le forze di terra.
L’alleanza talebana comprendeva almeno tre distinti sottogruppi: quello delle milizie indigene afgane (con potenzialità tattiche fortemente limitate); quello degli stranieri (talebani) meglio addestrati e più motivati; e quello degli stranieri addestrati nei campi di al Qaeda. Campi che, sebbene spesso descritti come campi di addestramento per terroristi, producevano in realtà una fanteria convenzionale. L’altra parte era altrettanto eterogenea. Le più recenti reclute locali erano poco o nulla addestrate. Milizie di più lungo corso come quelle di Abdul Rashid Dostum e Atta Mohammed comprendevano professionisti in alcuni casi ben addestrati, ma in altri meno. Alcuni di essi per esempio erano in grado di coordinare fuoco e manovra e quindi di ridurre l’esposizione al fuoco nemico. I migliori erano i professionisti occidentali: prima le sof (gruppi di élite) e poi la fanteria occidentale18.
All’inizio della campagna i talebani dispiegarono sulle linee di combattimento le truppe meno preparate. Queste truppe, composte per lo più di afgani poco addestrati, si posizionarono in modo rigido, concentrato e senza camuffamenti. Le trincee erano spesso azzardate e senza coperture dal cielo, mentre i veicoli e la fanteria erano ben visibili nei loro movimenti. Il risultato fu il seguente: identificate anche da distanze enormi, esse furono neutralizzate dal fuoco di precisione americano19. Praticamente senza alcun combattimento diretto. A Bishqab, il 21 ottobre 2001, per esempio, le sof statunitensi localizzarono alcuni obiettivi talebani a più di otto chilometri di distanza. A Cobaki, il 22 ottobre, le postazioni talebane furono identificate a 1.500-2.000 metri e quindi distrutte dal fuoco alleato. A Zard Kammar, il 28 ottobre, furono spazzate via a un miglio di distanza. A Ac’capruk, il 4 novembre, alcuni veicoli talebani non camuffati e situati sulle colline occidentali del fiume Balkh furono localizzati dalle postazioni delle sof a Koh-i-Almortak, in linea d’aria a 4-5 chilometri di distanza e quindi annientate dai bombardamenti aerei.
Con il proseguimento della campagna, a queste truppe poco addestrate subentrarono però quelle più competenti, tenute in serbo dai talebani proprio per le battaglie più importanti. Ed esse, specialmente i veterani di al Qaeda, furono ben più difficili da localizzare e quindi da neutralizzare, in quanto adottarono fin da subito delle contromisure (il sistema moderno in difesa, ndt) per ridurre la propria esposizione al fuoco nemico, che non a caso da allora iniziò ad essere assai meno efficace di quanto non fosse stato durante le battute iniziali, costringendo così in maniera crescente a degli scontri diretti.
A Bai Beche, il 5 novembre, per esempio, una forza in maggior parte composta da combattenti di al Qaeda occupò un vecchio sistema di trincee. Le sue postazioni di fuoco, coperte e camuffate, non poterono essere localizzate dalle sof americane che furono così costrette a chiamare un bombardamento a tappeto di due giorni lungo tutta quella linea di difesa. Al suo termine, la cavalleria dell’Alleanza del Nord di Dostum procedette all’attacco via terra, ma le truppe di al Qaeda furono in grado di sopravvivere in tale misura (a quel bombardamento, ndt) che riuscirono addirittura a respingere l’offensiva. Di fronte all’insuccesso, le sof chiesero nuovi bombardamenti aerei in modo da preparare un secondo assalto. Ma nel corso di questa operazione, l’ordine di tenersi pronti per un nuovo attacco fu mal interpretato, con il risultato che la cavalleria sopraggiunse sulle linee nemiche proprio mentre una serie di bombe da 300 chilogrammi cadauna veniva sganciata dagli aerei americani contro le linee talebane. I capi delle forze speciali, nei loro rapporti, ammisero l’errore: il rilascio delle bombe e l’avanzata della cavalleria avvennero a distanza troppo ravvicinata, in contrasto dunque con le regole di ingaggio. Le bombe colpirono infatti il suolo pochi secondi prima dell’arrivo della cavalleria che finì per entrare nel campo avversario tra enormi nuvole di fumo e polvere sorprendendo gli stessi qaedisti che, a loro volta, temendo di restare accerchiati, si diedero alla ritirata. La vittoria a Bai Beche avrebbe poi spostato completamente gli esiti del conflitto tanto da condurre direttamente al crollo di Mazar-e-Sharif. Ma la battaglia comprese durissimi combattimenti e il risultato fu veramente di misura. L’assalto fu infatti favorito da una fortissima integrazione del movimento e del fuoco di soppressione: ma molto più forte di quanto le capacità della cavalleria potessero permettere (e molto più forte di quanto le stesse truppe americane fossero autorizzate a fare).
Il punto però è un altro: Bai Beche non fu un caso unico. A Konduz, alla fine di novembre, al Qaeda costrinse le nostre forze alla ritirata almeno tre volte20. A dicembre, lungo l’autostrada 4 a sud di Kandahar, le forze di al Qaeda, sfruttando la loro copertura, riuscirono a far ripiegare un’avanzata alleata. Un contrattacco portato avanti nella stessa area dai combattenti di Osama bin Laden fu in grado di avvicinarsi, senza essere scoperto, fino a 100-200 metri dalle postazioni alleate. O ancora, nel villaggio di Sayed Slim Kalay, a nord di Kandahar, tra il 2 e il 4 dicembre, delle truppe di al Qaeda non furono rilevate fino a quando non aprirono il fuoco su forze alleate e americane che ne ignoravano evidentemente la presenza.
Tra tutti questi esempi, l’operazione Anaconda e i combattimenti lungo l’autostrada 4 sono particolarmente istruttivi per il ruolo che gli afgani vi hanno avuto. Nel corso della prima, ad una forza poco addestrata sotto il comando del generale Mohammed Zia e supportata dalle sof americane, fu assegnata la limitata missione di scacciare le forze di al Qaeda dalla zona delle “tre città” (i villaggi di Shirkankeyl, Babakuhl, e Marzak, nella piana della valle di Shah-i-kot). Questo gruppo, però, fu respinto e costretto alla ritirata: la missione sarebbe poi stata portata a termine dalla fanteria occidentale.
Lungo l’autostrada 4, nel dicembre, gli alleati afgani degli Stati Uniti furono divisi in due fazioni. La prima, comandata da Haji Gul Alai, era composta di truppe particolarmente capaci, almeno per gli standard afgani. Esse ricorrevano alla copertura e al camuffamento, mantenevano buoni intervalli tra gli elementi in avanscoperta ed erano dispiegati per gruppi alternati, così da utilizzare il fuoco di soppressione per coprire i gruppi in movimento, e sfruttavano i bombardamenti americani per coordinare le loro azioni. La seconda fazione, al contrario, era molto meno preparata: il comandate delle sof con cui esse operavano parlava dei suoi membri come di una «folla armata – campagnoli a cui erano state date delle armi». I loro movimenti erano ben visibili, non protetti, senza alcun tentativo di sfruttare la morfologia del suolo per ridurre la propria esposizione al fuoco nemico, e senza alcun ricorso al fuoco di sostegno e di soppressione per proteggere le proprie avanzate. Il risultato fu che le truppe di Gul Alai, quelle più addestrate, si sobbarcarono tutti i combattimenti. Sul ponte di Arghestan, il 5 dicembre, la seconda fazione lanciò però un attacco contro una trincea di al Qaeda situata a sud dell’aeroporto di Kandahar. Respinta ripetutamente, questa fazione non riuscì a completare la propria missione, nonostante il supporto aereo americano. Quella postazione sarebbe caduta il giorno seguente, quando a quelle truppe subentrarono quelle di Gul Alai.
La campagna afgana, pertanto, offre significativi mix di competenze tattiche tra le forze di terra. Quando gli alleati indigeni degli Stati Uniti hanno affrontato avversari non addestrati, come accadde a Bishqab, Cobaki, Zard Kammar e Ac’capruk, il modello afgano si è dimostrato terribilmente efficace: le difese avversarie vennero distrutte a distanze di sicurezza, e il ricorso a combattimenti ravvicinati ridotto al minimo. Le capacità delle forze alleate di terra furono quindi irrilevanti. Quando invece gli alleati statunitensi dovettero confrontare avversari meglio addestrati, come successe a Bai Beche, a Konduz, lungo l’autostrada 4, a Sayed Slim Kalay, e durante l’operazione Anaconda, il fuoco di precisione non fu sufficiente. E così fu necessario ricorrere agli scontri a fuoco ravvicinati. Laddove le forze di terra amiche erano addestrate meglio dei loro nemici, come per esempio la fanteria occidentale durante l’operazione Anaconda, questi scontri furono vinti facilmente. Quando le truppe amiche non erano superiori a quelle avversarie ma si dimostrarono comunque in grado di ridurre la loro esposizione e di coordinare il loro movimento con un fuoco di soppressione, per esempio a Bai Beche e sull’autostrada 4, i risultati furono sul filo di lama, ma alla fine a favore degli Stati Uniti. Quando al contrario le truppe alleate erano tatticamente inferiori a quelle avversarie, come sul ponte di Arghestan e nel corso dell’attacco lanciato dal comando di Zia durante l’operazione Anaconda, il modello non ha funzionato, nonostante il supporto dell’aeronautica americana.

Il modello afgano in Iraq
In Iraq il grosso dei combattimenti fu portato avanti dalle forze convenzionali americane e britanniche. Il modello afgano fu usato solo nel nord, con un obiettivo abbastanza limitato: tenere occupate le difese irachene in modo da evitare che esse venissero spostate a sud dove si svolgeva il nucleo dell’operazione alleata (obiettivo raggiunto solo parzialmente visto che buona parte delle formazioni della Guardia Repubblicana poterono essere dispiegate a sud: alcune di esse sarebbero state distrutte dall’aeronautica americana mentre si dirigevano verso Baghdad e Tikrit; altre, invece, riuscirono effettivamente ad arrivare in tempo per contrastare l’avanzata della coalizione alleata). In Iraq e in Afghanistan, quindi, il modello dovette confrontarsi con un esercito regolare, le cui capacità militari, come Andres, Wills e Griffith rilevano, erano molto limitate. La Guardia repubblicana, al contrario, per quanto non composta di “rambo”, avrebbe presumibilmente sconfitto le poco addestrate milizie curde. Ma essa, a nord come altrove, era stata ben disposta nelle retrovie: il dispiegamento arretrato da una parte e la successiva partenza dall’altra le impedì pertanto di confrontarsi con i nostri alleati curdi. Contro postazioni irachene ma protette e fatte di coscritti scarsamente addestrati, il modello afgano funzionò proprio come aveva fatto nelle prime fasi della campagna afgana: in maniera impeccabile. Gli iracheni, come i talebani, si posizionarono in punti ben visibili; poco e mal protetti, e quasi per nulla coperti. In altre parole, su posizioni facilmente identificabili dalle sof americane: vicino a Kirkuk, tanto per fare un esempio, l’Ottava divisione irachena fu localizzata e colpita da una quindicina di chilometri di distanza. Senza contare poi che gli iracheni erano soliti scappare senza curarsi dell’avanzata avversaria, dopo che le loro postazioni venivano colpite, consentendo così alla fanteria alleata di procedere senza doversi proteggere dal fuoco nemico.
In conclusione, l’Iraq non convalida assolutamente l’ipotesi secondo la quale il modello afgano sarebbe in grado di sopraffare un’opposizione addestrata e competente. Personalmente non conosco in Iraq casi nei quali il modello afgano abbia incontrato difese adeguatamente preparate e attivamente in grado di resistere all’attacco. In Afghanistan, al contrario, ciò è successo: e in quei casi il modello non è riuscito né ad evitare i combattimenti ravvicinati né a far avanzare degli alleati tatticamente inferiori ai loro avversari.
Né la campagna afgana né quella irachena confermano quindi la tesi secondo la quale il modello afgano sarebbe in grado di ribaltare una manifesta inferiorità tattica, e anzi: l’Afghanistan dimostra addirittura il contrario. D’altronde Andres, Wills e Griffith non offrono alcun argomento a favore della loro tesi. Per quanto riguarda l’Afghanistan, non presentano neppure un caso concreto a loro favore, anche se poi si preoccupano di notare come due sconfitte alleate (Tora Bora e Zia durante Anaconda) fossero in realtà missioni che eccedevano le capacità degli alleati, e quindi non sia stato corretto affidarle a loro. Ciò, comunque, non dimostra che degli alleati tatticamente deboli possono avere successo in missioni particolarmente complicate.21 I tre studiosi, inoltre, ignorano l’ampia evidenza di combattimenti ravvicinati avvenuti in Afghanistan, evidenza che metterebbe a dura prova la loro tesi. Per quanto riguarda l’Iraq Andres, Wills, e Griffith citano invece solo due casi di combattimento. Di uno non viene data alcuna informazione sulle capacità militari degli iracheni. Per quanto riguarda l’altro, i tre studiosi affermano che il 3 aprile 2003 la milizia curda, insieme alle sof statunitensi, sconfisse un contrattacco lanciato dalla Guardia repubblicana (il cui addestramento era presumibilmente superiore a quello dei curdi)22.
Il problema è che non è chiaro se il nemico fosse realmente la Guardia repubblicana. Per confermare questa affermazione Andres, Wills, e Griffith citano il capitano sof al comando dei dodici soldati americani coinvolti in quel combattimento. Eppure il capo della sezione intelligence del Combined Joint Special Operations Task Force North (il team che pianificava i movimenti di quella sof) ha affermato che la squadra non ha incontrato la Guardia repubblicana nel corso dell’Operazione Iraqi Freedom. Dato implicitamente confermato dal vicecomandante e da diversi ufficiali di quella stessa sof. Pertanto, in Iraq non sembra esserci una chiara conferma alla tesi secondo la quale il modello afgano sarebbe in grado di ovviare uno svantaggio tattico. In Afghanistan, invece, non ci sono dubbi: ciò non è proprio mai avvenuto.
Non essendoci alcuna chiara conferma a questa ipotesi, possiamo procedere indagando il secondo elemento del modello afgano: il bombardamento di precisione. La domanda è se esso sia solo un fattore marginale o meno. La risposta è troppo semplice: certo che no, esso non è un fattore marginale. Ma bisogna allo stesso tempo avere anche ben chiaro che la sua efficacia si sprigiona solo attraverso la un’adeguata interazione sinergica con le truppe di terra. Laddove queste ultime (specie se ben addestrate)23 ne possono sfruttare la forza, il fuoco aereo di precisione diventa tremendamente letale.
Quando infatti sia la componente di terra che quella di aria contribuiscono al massimo allo sforzo bellico, il risultato eccede ampiamente la singola somma delle parti. Ma quando anche solo uno dei componenti è assente o inadatto, il risultato è molto differente.
Le forze di terra e di aria sono infatti potentissime se integrate, ma non sono in grado di sostituirsi a vicenda.
Il contributo di Andres, Wills e Griffith, nonostante tutte le mie obiezioni, resta comunque importante, soprattutto per l’analisi sul fuoco di interdizione24. A mio modo di vedere, i tre autori esagerano soprattutto nel tracciare i confini di applicabilità del modello afgano: che per loro è più ampia, mentre per me è più ristretta. E questo dato è particolarmente importante, perché se il modello afgano può essere applicato con minor frequenza di quanto Andres, Willis e Griffith ritengono, allora le implicazioni pratiche che esso ha sulla ristrutturazione delle nostre forze armate sono nettamente differenti. Una ristrutturazione che si affidi enormemente sul manpower indigeno e sul fuoco di precisione a lunga distanza (sfavorendo di conseguenza le capacità di combattimento ravvicinato) va nella direzione sbagliata.
Non voglio dire che la campagna afgana sia stata un colpo di fortuna o che il modello possa funzionare solo in teatri che riproducono in tutto e per tutto l’Afghanistan. (Per esempio nella penisola coreana il modello afgano potrebbe risultare vincente e pertanto esso può costituire una parte importante della nostra strategia). Ma esso è e rimane solo uno strumento che presenta numerosi limiti. Limiti che, se sottostimati, possono portare a dei clamorosi fallimenti.

Note
1. Si veda per esempio, Michael Gordon, “New’ U.S. War: Commandos, Airstrikes, and Allies on the Ground”, New York Times, December 29, 2001; John Hendren, “Afghanistan Yields Lessons for Pentagon’s Next Targets,” Los Angeles Times, January 21, 2002; Rowan Scarborough, “Pentagon Uses Afghan War as Model for Iraq,” Washington Times, December 4, 2001; Fareed Zakaria, “Face the Facts: Bombing Works,” Newsweek, December 3, 2001, p. 53; James Webb, “A New Doctrine for New Wars,” Wall Street Journal, November 30, 2001; Michael Kelly, “The Air-Power Revolution,” Atlantic Monthly, Vol. 289, No. 4 (April 2002), pp. 18.
2. Si veda, per esempio, Alan Sipress and Peter Slevin, “Powell Wary of Iraq Move,” Washington Post, December 21, 2001; Donald Rumsfeld, “Transforming the Military,” Foreign Affairs, Vol. 81, No. 3 (May/June 2002), pp. 20-32, at p. 22; Kim Burger and Andrew Koch, “Afghanistan: The Key Lessons,” Jane’s Defence Weekly, January 2, 2002.
3. Stephen Biddle, “Afghanistan and the Future of Warfare,” Foreign Affairs, Vol. 82, No. 2 (March/April 2003), pp. 31-46; Stephen Biddle, Afghanistan and the Future of Warfare: Implications for Army and Defense Policy (Carlisle, Pa.: Strategic Studies Institute, U.S. Army War College, November 2002) (di qui in avanti: Biddle, Afghanistan).
4. Tutti e tre docenti presso la School of Advanced Air and Space Studies, dell’Aviazione americana, ndt.
5. Richard B. Andres, Craig Wills, and Thomas Griffith Jr., “Winning with Allies: The Strategic Value of the Afghan Model,” International Security, Vol. 30, No. 3 (Winter 2005/06), pp. 124–160, at p. 159.
6. Andres, Wills and Griffith, “Winning with Allies”.
7. Stephen Biddle, Afghanistan, pp. 6, 49.
8. Si veda, per esempio, U.S. Secretary of Defense Donald Rumsfeld, testimony before the Senate Appropriations Subcommittee on Defense, 108th Cong., 1st sess., May 14, 2003, p. 3; U.S. Deputy Secretary of Defense Paul Wolfowitz, testimony on Iraq Reconstruction, Senate Foreign Relations Committee, 108th Cong., 1st sess., May 22, 2003, pp. 2, 7; and Max Boot, “The New American Way of War,” Foreign Affairs, Vol. 82, No. 4 (July/August 2003), pp. 41-58.
9. Si veda per esempio, Hans Binnendijk and Stuart Johnson, Transforming for Stabilization and Reconstruction Operations (Washington, D.C.: National Defense University Center for Technology and National Security Policy, 2003); Andrew Krepinevich, Operation Iraqi Freedom: A First-Blush Assessment (Washington, D.C.: Center for Strategic and Budgetary Assessments, 2003), p. 28.
10. Ciò non vuole dire che ristrutturare l’esercito per dotarlo di capacità di counterinsurgency è sbagliato – ciò dipende sulla differente visione che ognuno ha sulla Gran Strategy americana e sulla relativa importanza della counterinsurgency e di altre contingenze. Ma Andres, Wills e Griffith ritengono che questo processo non comporti dei rischi visto che le capacità di combattimento ravvicinato sono in surDaily, data la letalità del modello afgano. Se ho ragione, invece, non ci sono opportunità di trasformazione che non comportano rischi.
11. Il modello afgano, se applicato in Siria o Iran, metterebbe a dura prova l’esercito americano, visto che le sof necessarie sono pesantemente impegnate in Afghanistan e Iraq. Ma comunque dirottare verso un nuovo obiettivo le sof sarebbe molto meno costoso che non spostare le forze convenzionali che sarebbero richieste per un’invasione ortodossa, soprattutto se l’obiettivo fosse un regime facilmente ribaltabile come in Afghanistan.
12. Ciò non implica però che Stati come Siria o Iran sono immuni dall’azione militare americana fino a quando la guerriglia irachena non terminerà. Sono infatti molte le possibilità che restano sul tavolo: da bombardamenti punitivi a rotazioni delle truppe in Iraq che possano permettere di liberare forze da utilizzare altrove. Ma i costi di queste azioni potrebbero essere molto più alti, e i loro effetti meno decisivi, e i loro rischi decisamente maggiori, di quanto accadrebbe se il modello afgano fosse in grado di abbattere dei regimi senza creare un guerriglia successive, cosa che Andres, Wills e Griffith ammettono implicitamente.
13. Per skill (capacità, ndt), intendo l’abilità di ridurre l’esposizione al fuoco avversario attraverso uno spacifico insieme di tecniche che altrove ho definito il modern system di dispiegamento delle truppe. Vedi Stephen Biddle, Military Power: Explaining Victory and Defeat in Modern Battle (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 2004). Il volume offre una teoria su queste specifiche tecniche che riescono a contrastare le innovazioni tecnologiche e la preponderanza numerica. Per brevità, e dato il suo uso nel mia analisi sull’Afghanistan, uso il termine skill come un indicatore riassuntivo della capacità di impiegare il modern system come inteso nel mio Military Power (soprattutto l’abilità di utilizzare la morfologia del suo per copertura e camuffamento e quella di coordinare movimento e fuoco di soppressione). In ogni caso, nelle righe che suguono si specificano queste tecniche, e l’analisi verte solo su quelle osservate. Il saltuario riferimento al termine skill è necessario per presentare la mia tesi in modo compatto, anche se ciò che io sostengo si basa sull’evidenza osservata, non su giudizi soggettivi.
14. Andres, Wills and Griffith, “Winning with Allies,” p. 145.
15. Per una discussione più approfondita, si veda Biddle, Military Power, chap. 3.
16. Andres, Wills e Griffith sostengono inoltre che l’airpower ha costretto i talebani alla dispersione, in quanto avrebbe indebolito le loro difese per un attacco di terra. In primo luogo, la dispersione in quanto tale non indebolisce la difesa convenzionale. Al contrario, essa è essenziale per sfruttare la copertura offerta dal terreno e per ridurre la propria esposizione al fuoco nemico, tanto che è stata parte integrale di tutti i sistemi tattici che hanno avuto successo a partire dalla prima guerra mondiale. Si veda Biddle, Military Power, chap. 3. Certo, la dispersione può risultare, se eccessiva, controproducente. Ma la copertura da un attacco aereo non deve necessariamente trasformarsi in una dispersione incontrollabile (che quindi non permetta più il controllo delle truppe da parte di chi ne ha il comando, ndt): quella necessaria per nascondersi da un attacco aereo non è infatti radicalmente più grande di quella necessaria per contrastare un attacco di terra: le posizioni “disperse” di al Qaeda nella valle Shah-i-kot, nel marzo 2002, hanno dimostrato di essere sufficienti sia da neutralizzare l’efficacia dei bombardamenti americani che da sconfiggere l’avanzata degli alleati usa nel giorno d’inizio dell’operazione Anaconda. Il luoco comune per cui una minaccia di terra costringerebbe il nemico alla concetranzione, offrendo così degli ottimi bersagli per gli attacchi aerei, è totalmente falso. La minaccia di terra aumenta l’efficacia dell’airpower ma costringendo il nemico al movimento, movimento che la forza aerea può interdire, non certo costringendo il nemico a combattere all’aperto (cosa che creerebbe un’esposizione suicida al fuoco nemico sia di terra che aereo). Si noti inoltre che la differente concentrazione che chi invade un teatro di guerra utilizza per creare un vantaggio numerico in un determinato punto di attacco non richiede un’elevata densità di truppe sul terreno (visto che essa impedirebbe loro di coprirsi). Esso è tipicamente ottenuto replicando multiple ondate di attacco che colpiscono le difese nemiche in modo sequenziale, cosa che permette ad ognuna di esse lo spazio necessario per restare coperti e camuffati. Per un’analisi più dettagliata, si veda Stephen Biddle, David Gray, Stuart Kaufman, and Dennis DeRiggi, Defense at Low Force Levels: The Effect of Force to Space Ratios on Conventional Combat Dynamics, IDA P-2380 (Alexandria, Va.: Institute for Defense Analyses, 1991).
17. In linea di principio, l’interdizione può anche prevenire il rifornimento, “affamando” così le difese nemiche senza neppure un’invasione di terra. Le preoccupazioni di carattere umanitario limiteranno però la volontà americana di affamare i civili che inevitabilmente si troveranno tra le difese urbane nemiche, come accaduto in Iraq. In pratica, quindi, l’interdizione è stata raramente in grado di affamare le difese nemiche senza che vi sia stata anche la pressione di un attacco di terra: in Afghanistan, per esempio, questa tattica ha avuto poco successo fino a quando le forze di terra non hanno minacciato Mazar-e-Sharif. Biddle, Afghanistan, pp. 21-23, 34-35.
18. On the skills of Afghan combatants, see ibid., pp. 13-16, 19-21, 26-43.
19. Nota del traduttore: di qui in avanti tutte le affermazioni del dr. Biddle sono confermate da una serie di interviste che egli stesso ha condotto e che hanno riguardato decine di militari di diversi gradi che hanno partecipato alle battaglie in discussione (sia in Afghanistan che in Iraq). Esse sono disponibili presso la U.S. Army Military History Institute Operation Enduring Freedom Research Collection, e Iraqi Freedom. Per brevità e siccome il materiale è tutto in inglese, evitiamo di riportare le note relative. Esse appaiono comunque nella versione originale di questo testo, apparsa sulla rivista International Security.
20. Nota del traduttore: in questo caso la versione di Biddle, e derivante dalle interviste ch’egli ha sostenuto, differisce nettamente da quella proposta da Andres, Wills, e Griffith, “Winning with Allies,” p. 140 n. 67, i quali affermano invece che Konduz fu presa senza combattimenti ravvicinati.
21. Si noti che a Tora Bora, i combattenti di al Qaeda cercarono di scappare, non di mantenere le loro posizioni (come cercarono invece di fare durante Anaconda, nel 2002); e ci riuscirono. Andres, Wills e Griffith, “Winning with Allies,” p. 149, si veda questa fuga come evidenza del fatto che anche alleati poco motivati possono guadagnare terreno grazie al fuoco del modello afgano. È comunque tutt’altro che chiaro se Tora Bora costituisca o meno un caso di assalto contro un nemico che vuole tenere le proprie posizioni. Al di là di come stiano realmente i fatti, come Andres, Wills e Griffith convengono, la missione Americana mirante a prevenirela fuga dei combattenti qaedisti non ha evidentemente avuto successo.
22. Andres,Wills e Griffith offrono un secondo caso, il Passo di Debecka, senza rilevare alcuna asimmetria tattica, cosa che quindi non permettere di suffragare la loro tesi.
23. O dove un’opposizione inetta non rende necessaria la presenza di truppe ben addestrate, ndt.
24. Questa affermazione (per cui la guerriglia sarebbe causata da un attacco di tipo convenzionale) è abbastanza superficiale. In Afghanistan, infatti, la guerriglia è presente. Inoltre, molti analisti ritengono che la guerriglia irachena oggi sarebbe molto meno forte se nel 2003 fossero stati portati in Iraq più, non meno, militari. In ogni caso, comunque, l’analisi di Andres, Wills e Griffith non prova che la differenza tra la guerriglia (molto più massiccia, ndt) in Iraq e quella afgana è attribuibile al ricorso al modello afgano.


International Security, vol. 30, No. 3, Winter 2005/2006, pp. 161-176.
Titolo originale: “Allies, Airpower and Modern Warfare: The Afgan model in Afghanistan and Iraq”.

(Traduzione dall’inglese di Valeria Bauducco, adattamento di Andrea Gilli)

 

Stephen D. Biddle è Senior Fellow for Defense Policy al Council on Foreign Relations ed Elihu Root Chair of Military Studies presso lo Strategic Studies Institute dello U.S. Army War College di Carlisle, Pennsylvania.

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