«Più flessibilità per abbattere il sommerso»
intervista a Michele Tiraboschi di Paolo Bracalini
Ideazione di settembre-ottobre 2005

Anche lui, come il suo maestro Marco Biagi, si definirebbe volentieri un “giurista a progetto”. Perché nel nuovo mercato atipico del lavoro, nella flessibilità dei contratti a tempo, nel lavoro senza più posto di lavoro, Michele Tiraboschi, allievo e compagno di strada per dieci anni del professore bolognese assassinato dalle nuove Brigate Rosse, vede un'opportunità più che un vicolo cieco.
Perché la sicurezza non la darebbe l'assunzione a vita, «la sicurezza che dà poi luogo alla continuità di reddito e occupazione non può che nascere dalle competenze, dalla professionalità, dalle motivazioni e dalla capacità di rimettersi costantemente in gioco». Oggi Tiraboschi insegna Diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia, guida il Centro Studi “Marco Biagi” Fondazione Biagi ed è consulente del ministero del Welfare.

Professore, sembra ormai che il nuovo lavoro sia destinato ad essere “a tempo”, precario. Ma la precarietà è vissuta quasi sempre come un limite. è una percezione sbagliata?
Veramente le rilevazioni empiriche e le statistiche – nazionali ma anche internazionali – ci dicono che l'utilizzo di lavoro atipico o temporaneo in Italia è molto ridotto rispetto a quanto avviene agli altri paesi europei continentali, Francia, Spagna e Germania in primis. Sostanzialmente siamo sui livelli di paesi come Regno Unito e Stati Uniti dove il ricorso al lavoro atipico/temporaneo è piuttosto limitato perché non esistono vincoli particolari all'impiego di lavoratori a tempo indeterminato, soprattutto per quanto attiene alla disciplina dei licenziamenti. Il ricorso al lavoro interinale è intorno allo 0,6 per cento della forza-lavoro e le co.co.co. vere sono, secondo recenti rilevazioni Istat confermate da una importante ricerca del professor Accornero per il Cnel, poco più di quattrocentomila. Anche il lavoro a termine e il lavoro a tempo parziale sono poco diffusi: molto al di sotto della media europea. Complessivamente il lavoro atipico/temporaneo non supera il 10-11 per cento della forza-lavoro. Davvero poca cosa in un mercato del lavoro costituito da quasi 22 milioni di persone. Ciò detto è certamente vero che la percezione di insicurezza è alta. Ma il punto è un altro. Il lavoro atipico regolato e disciplinato contrattualmente è poca cosa perché il sommerso e il grigio raggiungono da noi percentuali tre-quattro volte superiori a quelle di tutti gli altri paesi industrializzati. Poca gente lavora regolarmente: siamo infatti il paese con il più basso tasso di occupazione. Ma questo solo perché oltre il 23 per cento della nostra economia è sommersa e i lavoratori neri o grigi – quelli che cioè sfuggono alle regole del mercato del lavoro – sono oltre 4 milioni. Questo è quello che non va. Rispetto agli altri paesi non si è ancora sviluppato un processo volto a ricondurre le forme di lavoro irregolare in rapporti di lavoro veri con tutele di legge e di contratto collettivo, ancorché atipici o flessibili. Chi nega la flessibilità non può che aprire la strada al sommerso e allo sfruttamento dei lavoratori.

Resta però il fatto che soprattutto per i giovani neo-laureati, la prospettiva di un “posto fisso” si fa sempre più remota e il precariato una condizione sempre più diffusa.
Anche in questo caso il problema è un altro e l'apparenza inganna. Chi parla oggi di giovani e precariato spesso imputa alle riforme del mercato del lavoro – e alla legge Biagi in particolare – colpe che non hanno e non possono avere. Il vero problema è infatti non tanto la precarietà del mercato del lavoro ma piuttosto la difficile transizione dai percorsi educativi e formativi al mondo del lavoro. Attratti da semplificazioni eccessive e fuorvianti – che contrappongo di volta in volta flessibilità a precarietà, modernità a mercificazione – molti osservatori sottovalutano ancora oggi la circostanza – pure ampiamente documentata dalle rilevazioni empiriche e statistiche e dalle analisi comparate – che proprio il tardivo ingresso nel mercato del lavoro è la vera anomalia italiana. è sufficiente rilevare, a questo proposito, che l'età media di accesso a una occupazione regolare è, nel nostro paese, di oltre venticinque anni. Quando proprio questa è l'età in cui si finisce di appartenere, almeno per le regole comunitarie in materia di aiuti di Stato e incentivi alla occupazione, alla categoria “giovani”. Per i laureati il quadro è ancora più preoccupante: l'età media di laurea è 27-28 anni contro i 23 degli altri paesi! L'uscita tardiva dai percorsi di istruzione e formazione professionale genera un generale effetto di spiazzamento dell'intera disciplina del diritto del lavoro in materia di lavoro giovanile e, segnatamente, delle relative tecniche normative di favore di tipo premiale e/o incentivante. Senza trascurare peraltro l'ovvia circostanza che esperienze di tirocinio e contratti di lavoro temporaneo o a contenuto formativo, diffusi in tutti i paesi e tollerabili in giovane età, diventano sinonimi di precariato e instabilità sociale se offerti a persone che si affacciano per la prima volta al mercato del lavoro in posizione già adulta. E cioè a soggetti in cerca di stabilità e forti sicurezze anche ma non solo materiali. Recenti indagini dimostrano chiaramente che la tipologia di contratto con cui si è assunti e si lavora, se non incide in modo significativo sulla decisione di uscire dalla famiglia di origine, assume comunque un ruolo sempre più decisivo nella scelta di stabilizzare i legami affettivi e nell'orientare i modelli di vita.

Non è raro che le aziende mascherino sotto forma di collaborazioni o contratti a progetto o formazione dei veri e propri rapporti di lavoro subordinato. Pensa che la flessibilità possa essere davvero un'opportunità anche per chi lavora?
Questo era forse vero prima della riforma Biagi. L'utilizzo fraudolento delle co.co.co. e l'impiego strumentale dei contratti di formazione e lavoro risale al decennio passato. Ora la legge Biagi pone pesanti sanzioni alle imprese che fanno finta formazione o che ricorrono a contratti di collaborazione che mascherano forme di vero e proprio lavoro dipendente. Il problema è che, per veti e pregiudizi ideologici la legge Biagi fatica a farsi strada ed è poco applicata.

Che ruolo ha il sindacato in tutto questo? Fa più bene o più male agli interessi dei lavoratori?
Ho grande rispetto per il ruolo e la tradizione del sindacato. Non posso però non constatare che parte del movimento sindacale opera oggi in difesa di interessi corporativi in una logica di pura conservazione dell'esistente. E l'esistente sono quei 4-5 milioni di lavoratori in nero esclusi dal mercato del lavoro ufficiale. Occorre avviare una coraggiosa opera di rimodulazione delle tutele per dare opportunità, diritti e occupazione a tutti. L'ostracismo del sindacato sulla legge Biagi mi pare davvero un clamoroso errore che va a danno dei lavoratori in carne e ossa. Se non si modernizzano le regole del mercato del lavoro le nostre imprese non potranno che soccombere nella competizione internazionale e questo andrà a danno principalmente dei soggetti più deboli e cioè di coloro che vivono unicamente del reddito prodotto dal lavoro. A quanti hanno accusato la riforma Biagi – senza neppure averla letta – di destrutturare il mercato del lavoro e di creare solo precarietà suggerisco di leggere il discorso recentemente pronunciato dal primo ministro australiano John Howard in Parlamento, dove viene preannunciato un processo di radicale riforma di quello che pure è un mercato del lavoro tra i più flessibili e dinamici (il testo dell'intervento del ministro è pubblicato sull'ultimo bollettino Adapt/Centro Studi Marco Biagi, in www.csmb.unimo.it). Senza mezze misure il primo ministro australiano afferma che la modernizzazione del mercato del lavoro è un passo necessario se si vuole sostenere la prosperità del paese e la competitività in una economia globale che pone sfide imponenti. Mi sembra di sentire le parole di Marco Biagi quando affermava che la riforma del mercato del lavoro è la condizione indispensabile per tutelare i lavoratori e i gruppi più deboli dagli effetti dei radicali processi di trasformazione economica e sociale in atto. Confrontiamo le regole del mercato del lavoro del nostro paese con quello di Regno Unito, Stati Uniti, Australia e ci accorgeremo che il nostro è un modello ancora rigidamente regolato e restrittivo nell'impiego di forza lavoro. Questo spiega anche perché le economie dei paesi di matrice anglosassone prosperano e rimangono competitivi mentre Italia, Francia e Germania affondano inesorabilmente schiacciate da tassi di disoccupazione e di lavoro sommerso senza precedenti e registrando al contempo un numero di licenziamenti per crisi aziendali e procedure di mobilità davvero preoccupante. Non mi sembra questo il modo di difendere gli interessi concreti di chi lavora o di chi un lavoro non ha e trova barriere all'accesso nel mercato del lavoro regolare.

Rispetto a 30 anni fa, o forse anche meno, il panorama per chi cerca un lavoro è profondamente cambiato. Prima il posto fisso era la norma, oggi è l'eccezione. Quali sono i fattori principali che spiegano questo cambiamento? Pensa che la competizione commerciale con paesi (Cina, India) in cui ci sono meno vincoli e garanzie (e quindi il costo del lavoro è molto minore) possa essere una minaccia per l'Europa?
Mi domando cosa sia il posto fisso in una economia mondiale che cambia in continuazione e pone costantemente nuove sfide. Siamo davvero garantiti e più sicuri perché siamo assunti con contratti a tempo indeterminato? Certo questo può valere per i settori sottratti – almeno direttamente – dalla competizione internazionale. Ma per gli altri settori la vera sfida, oggi, non è dare alle persone che entrano sul mercato del lavoro una sicurezza formale, basata cioè sul tipo di contratto. La sicurezza delle persone, che dà poi luogo alla continuità di reddito e occupazione, non può che nascere dalle competenze, dalla professionalità, dalla capacità di analisi e di risoluzione dei problemi, dalle motivazioni e dalla capacità di rimettersi costantemente in gioco. Quello che serve davvero per il nostro paese e per i nostri lavoratori non sono solo e soltanto le tutele contro i licenziamenti, che da noi sono le più rigide del mondo, ma semmai percorsi di istruzione e formazione coerenti con le nuove esigenze del mercato. Sono convinto che i pilastri su cui lavorare rimangono quelli della occupabilità e della adattabilità. Se seguiamo questa strada, che porta a realizzare maggiori e più efficienti investimenti in capitale umano, la competizione di paesi come India e Cina non può fare paura.

Quali sono i maggiori problemi del mercato del lavoro italiano oggi, secondo lei?
Sono i problemi di sempre. Un mercato del lavoro poco o nulla trasparente, con bassi tassi di occupazione regolare e alti tassi di lavoro nero. Un mercato duale, con tante tutele per pochi e scarse certezze per molti. Un mercato farisaico, che mantiene elevati livelli di tutela grazie alla valvola di sfogo del sommerso. Ce lo dicono gli osservatori stranieri quando rilevano impietosamente che noi abbiamo tante regole formali poco o nulla rispettate. Io credo in un mercato del lavoro basato su regole magari meno rigide ma sicuramente più effettive. Non ha senso mantenere livelli di protezione così elevati se poi un quarto della economia è messa fuori gioco e vivacchia nel sommerso. Certo, c'è sicuramente una buona quota di sommerso che si basa sullo sfruttamento del lavoro e su prassi fraudolente. Ma è anche vero che molta parte della economia sommersa si spiega non certo con la tendenza degli italiani a fare i furbi, ma piuttosto con un quadro regolatorio vecchio, inadatto a interpretare le logiche della nuova economia: un mercato che soffoca le capacità di imprenditori e lavoratori nella burocrazia, nel formalismo legale, nella incertezza del quadro regolatorio.

Quale è secondo lei la giusta formula per aumentare le opportunità?
Non ho ricette. Mi piacerebbe solo provare a fare una scommessa con imprenditori e sindacati sulla legge Biagi. Legge che, ricordo a tutti, è e rimane una legge sperimentale. Applichiamola con lealtà e buona fede per qualche anno per vedere che effetti produce sul mercato del lavoro. Se non produrrà gli effetti sperati in termini di maggiori e migliori opportunità di lavoro sarò il primo a dire che va abrogata. Non ritengo invece corretto dire che va abrogata dopo averla boicottata e senza aver avuto la buona fede di sperimentarla.




Michele Tiraboschi, professore di Diritto del Lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia, è consulente del ministero del Welfare per la riforma sul mercato del lavoro.

Paolo Bracalini, giornalista, è esperto di temi di economia, mercato del lavoro e politica estera.

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