Investire nelle idee per vincere in politica
di James Piereson
Ideazione di settembre-ottobre 2005

Lo scorso autunno, poco prima delle elezioni presidenziali di novembre, circa trecento fra amici ed ammiratori si sono riuniti all'Hotel Plaza di New York per un tributo a John Kenneth Galbraith e Arthur M. Schlesinger jr., i due anziani cavalli di razza della sinistra del Ventesimo secolo. L'evento, sponsorizzato dal Franklin and Eleonor Roosevelt Institute, era pubblicizzato come un “omaggio alla democrazia”. È stata anche un'occasione per ricordare un periodo in cui la sinistra era sulla cresta dell'onda negli Stati Uniti, una dottrina inflessibile che si schierava audacemente con i lavoratori nel proprio paese e contro la tirannide all'estero. Per molti dei presenti il contrasto fra il passato e il presente deve essere stato avvilente: il declino della fede si rispecchia nel fatto che oggi non c'è un singolo esponente della sinistra la cui influenza e la cui statura si avvicinino anche lontanamente a quelle che, molti decenni fa, avevano i due personaggi celebrati.

Non c'è dubbio che il lungo declino della sinistra negli ultimi decenni rappresenti un percorso non solo doloroso, ma anche imbarazzante per chi credeva che il futuro sarebbe stato modellato dai propri ideali. L'ascesa del conservatorismo deve apparire doppiamente imbarazzante. Galbraith stesso aveva notato nel 1964: «Questi sono senza dubbio gli anni dei liberal. Quasi tutti si descrivono così». E sia lui che Schlesinger hanno liquidato il pensiero conservatore in termini derisori, non riconoscendogli alcuna sostanza intellettuale. Oggi, non solo il conservatorismo ha raggiunto una supremazia nella sfera elettorale, ma il pensiero conservatore ha preso l'iniziativa anche nel mondo delle idee.

Naturalmente i liberal hanno cercato di spiegare questo rovesciamento della sorte; ma pochi sono stati accurati, seri o costruttivi. Durante la campagna presidenziale dello scorso anno, il tono generale è stato quello di un assalto dei liberal a George W. Bush, descritto come un «bugiardo» o un «idiota» perché perseguiva esattamente la stessa causa – schierare la potenza americana per la libertà e la democrazia del mondo – che una volta sostenevano Galbraith e Schlesinger. Per spiegare l'ascesa del conservatorismo, la sinistra tira in ballo la manipolazione e l'inganno, disegnando uno scenario in cui le grandi corporation pagano i politici che incombono sullo sfondo dell'intera storia. Nelle loro analisi le idee conservatrici hanno un ruolo marginale e sono rappresentate di solito come un semplice paravento per gli interessi delle industrie. Un ruolo particolarmente sinistro è attribuito a quei filantropi che hanno contribuito a finanziare pensatori, riviste e istituti di ricerca, partendo dal presupposto che nessuno porterebbe avanti idee così ovviamente false, se non fosse pagato per farlo.

Per la verità, la sinistra ha mostrato un interesse quasi ossessivo per i filantropi conservatori. Esistono molti siti che si dedicano esclusivamente a tracciare mappe delle attività delle «fondazioni di destra create da grandi inquinatori industriali», come li descrive l'attivista ambientalista Robert F. Kennedy Jr. nel suo libro Crime against nature. Allo stesso modo, i giornalisti David Brock e Eric Alterman hanno profuso notevoli energie per “esporre” i progetti sostenuti da queste istituzioni e i loro legami con altre organizzazioni e il loro posto nella più vasta costellazione dell'attivismo conservatore. I resoconti del People for the American Way e del National Committee for Responsive Philanthropy si dilungano con grande enfasi sulle presunte strategie e tattiche malvagie utilizzate dalle fondazioni per portare avanti le loro cause fortemente discutibili.

Invariabilmente, queste esternazioni ignorano la sostanza delle idee stesse, quasi come se la famosa caratterizzazione di John Stuart Mill dei conservatori come “il partito degli stupidi” fosse ancora valida in questo inizio di Ventunesimo secolo. Ma la verità è che i moderni conservatori si sono misurati con il mondo delle idee molto di più di gran parte dei moderni liberal. Il commentatore David Brooks, quando gli hanno chiesto chi aveva maggior influenza sulle idee conservatrici, ha osservato che la maggior parte dei conservatori riesce a elencare una serie di libri e autori, mentre i liberal hanno difficoltà ad identificarne. Questo vivace confronto con un coeso complesso di idee costituisce un aspetto cruciale, anche se spesso trascurato, dell'ascesa del conservatorismo. Ed è un aspetto nel quale le fondazioni conservatrici hanno avuto un ruolo centrale.

Le tre fasi della filantropia conservatrice
Nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la filantropia conservatrice ha attraversato almeno due fasi distinte e oggi sta entrando in una terza fase. Per quanto possa essere sorprendente, entrambe le fasi precedenti sono state caratterizzate da idee e non da gretti interessi affaristici o industriali.

La prima fase, che è iniziata a metà degli anni Quaranta e si è protratta fino a buona parte degli anni Settanta, era caratterizzata più da un interesse verso il liberalismo classico e il libertarismo che verso il conservatorismo come è stato inteso più di recente. I principali finanziatori erano il Volker Fund e capitani d'industria come Jasper Crane della Du Pont, Henry Weaver della General Motors, B. E. Hutchunson della Chrysler e l'imprenditore britannico Anthony Fisher (la Earth Foundation e il Liberty Fund esistono ancora oggi). Tali finanziatori avevano somme modeste a disposizione, nel complesso donavano intorno a tre milioni di dollari all'anno, mentre a metà degli anni Sessanta la Ford Foundation da sola stanziava trecento milioni di dollari all'anno.

Ovviamente vi erano differenze di non poco conto fra questi finanziatori. Il Volker Fund aveva un approccio generalmente libertario, mentre la Earth Foundation colmava il divario fra il liberalismo classico, con la sua enfasi sulla libertà, e il conservatorismo moderno, che enfatizzava tradizione e ordine. Ma gli interessi di tutti erano, di proposito, intellettuali e teorici.

Chi influenzò in maniera determinante questi finanziatori fu F. A. Hayek con il suo La via della schiavitù, pubblicato a Londra nel 1944 e negli Stati Uniti l'anno successivo. Questo agile volume, un'articolata esortazione a combattere il socialismo, trasformò il suo autore, allora uno sconosciuto professore alla London School of Economics, in un sempiterno eroe dei conservatori e dei liberali classici su entrambe le sponde dell'Atlantico. Al tempo nessuno scrittore si era espresso con tanta audacia e chiarezza contro le idee e le politiche collettiviste. Per questo motivo, La via della schiavitù divenne presto un punto di riferimento per chi nutriva dei dubbi sull'estensione dello Stato sociale.

Citato in numerosi saggi come uno dei libri più importanti del Ventesimo secolo, La via della schiavitù causò una certa sensazione quando venne pubblicato, ricevendo recensioni e commenti da esponenti di primo piano come John Maynard Keynes e George Orwell, e aspre critiche e confutazioni da figure di minore fama. Una versione condensata, pubblicata sul Reader's Digest nel 1945, raggiunse gli oltre due milioni di abbonati alla rivista e provocò abbastanza interesse da portare Hayek negli Stati Uniti per una serie di lezioni.

La via della schiavitù pose due temi ampi, uno negativo e l'altro positivo. Il primo era che il socialismo porta quasi inevitabilmente alla tirannia e alla perdita di libertà in tutte le sue forme. Il secondo era che l'antidoto al socialismo va ricercato nel revival del liberalismo classico come era stato articolato dai teorici dell'illuminismo britannico quali Adam Smith, David Hume e Edmund Burke. Il libro era sotto molti aspetti fortemente pessimista: ovunque l'avanzata del socialismo appariva inarrestabile. Allo stesso tempo, Hayek vide una via d'uscita nel revival della tradizione di pensiero che stava per andare persa.

Secondo Hayek il conservatorismo attuale soffriva di una debolezza fatale. Poiché si basava su una tradizione e non su un principio, poteva rallentare o opporsi agli eventi, ma mai cambiarne fondamentalmente la direzione. Ecco perché Hayek si prese la briga di sottolineare che non era per niente un conservatore ma piuttosto un liberale della tradizione whig (un suo saggio successivo si intitolava semplicemente Perché non sono un conservatore). Questa si rivelò una caratteristica del pensiero di Hayek che fece presa soprattutto sugli americani.

La politica americana, come Hayek aveva compreso, era originariamente costruita sul principio di libertà e la sua tradizione politica era fortemente influenzata dagli ideali whig del governo limitato e dello Stato di diritto. Di conseguenza i difensori della tradizione americana erano spesso “liberali” nel senso europeo. Per gli americani che si preoccupavano dell'espansione del governo, l'alternativa al socialismo e allo Stato sociale non era il conservatorismo ma l'individualismo.

Idee e azione, l'utopia liberale
Un altro duraturo contributo di La via della schiavitù, che forse a lungo termine ha avuto più influenza della critica di Hayek al socialismo, era la sua enfasi sull'importanza delle idee nella crescita dei movimenti politici. Sfidando gli assiomi della scuola di pensiero storica, Hayek sosteneva che il socialismo e lo statalismo non erano il prodotto di forze economiche fuori controllo ma di idee sbagliate e distruttive. I principi whig che avevano influenzato il pensiero continentale durante il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo, erano stati spodestati da pensatori tedeschi come Hegel e Marx fino a Sombart e Mannheim, le cui dottrine collettiviste avevano catturato l'immaginazione degli intellettuali. In un altro saggio, Gli intellettuali e il socialismo (1949), Hayek tracciava un'ampia strategia a lungo termine per affrontare questa sfida.

I pratici uomini d'affari, scriveva Hayek, erano decisamente svantaggiati nella guerra delle idee, perché guardavano con sospetto la speculazione teorica e avevano una “tendenza all'ortodossia”. I businessmen, inoltre, non comprendevano il legame fra le idee e i movimenti politici e quindi non vedevano la necessità di costruire una forte difesa intellettuale dei loro interessi. Egli spronava i suoi seguaci a imparare dal successo del socialismo, che era nato come una costruzione di teorici e filosofi e solo dopo era emerso come movimento politico che metteva in campo candidati e attirava gli elettori.

«Quello che ci manca – scriveva Hayek – è un'Utopia liberale, un programma che non sembri né una difesa dello status quo né un tipo diluito di socialismo, ma un vero radicalismo liberale [...] che non si limita a quello che oggi appare politicamente possibile». Il contenuto positivo di un tale programma era necessariamente vago, ma era chiaro che Hayek immaginava un movimento operante a livello di principi e teorie, distaccato dalle agende elettorali e legislative e dalle controversie immediate della vita politica. In altre parole, proponeva una vera guerra delle idee che potesse affascinare le menti migliori e più avventurose del periodo ma che potesse dare i frutti in una generazione o più.

Il programma di Hayek – teorico, astratto e utopico – potrebbe sembrare una strana base per costruire un progetto di finanziamenti. Non c'era il pretesto di promuovere un po' alla volta una riforma, di aiutare un partito o un candidato, di far approvare una legge o di produrre conseguenze immediate di qualsiasi tipo. E tuttavia, i finanziatori che ho citato risposero alla sua chiamata.

Gli scritti di Hayek ebbero un impatto più o meno diretto in Gran Bretagna, dove nel 1955 Anthony Fisher (incoraggiato da Hayek) fondò l'Institute for Economic Affairs (Iea) con sede a Londra. Diretto dall'economista Ralph Harris, l'Iea fu il primo think-tank per il libero mercato, pubblicava libri e pamphlets che documentavano le inefficienze del socialismo e delle imprese statali. Proprio come aveva predetto Hayek, ci vollero più di vent'anni di promozione di queste idee prima che una persona amica, Margaret Thatcher, fosse eletta primo ministro e iniziasse ad attuare le riforme influenzate dal lavoro dell'Iea.

Nel 1947 la Volker Foundation mandò in Svizzera un gruppo di americani per organizzare un incontro della Mont Pelerin Society, fondata da Hayek per promuovere il libero mercato in economia e gli ideali del liberalismo classico. Conformemente alle idee di Hayek, la Mont Pelerin funzionava esclusivamente come un'impresa accademica, evitando il dibattito politico e preferendo teorizzare approfonditamente la creazione di una società libera. Poco tempo dopo Volker assegnò ad Hayek la cattedra di Scienze morali – lo stesso titolo di Adam Smith all'Università di Edimburgo – nel comitato di Scienze sociali dell'Università di Chicago e offrì fondi all'Università di New York per assumere Ludwig von Mises, il mentore e amico austriaco di Hayek.

Oltre a queste nomine, Volker ed altri finanziatori fornirono assistenza alla Chicago School di Economia, guidata da Milton Friedman e George Stigler, e alla scuola di Economia politica dell'Università della Virginia guidata da James Buchanan – tutti e tre in seguito vinsero il Premio Nobel per l'economia. Sostennero centinaia, forse migliaia, di laureati, la maggior parte in economia, ma anche in altri campi collegati come amministrazione e storia; molti di loro in seguito divennero importanti studiosi nel loro campo. E finanziarono alcune istituzioni, generalmente di stampo libertario, fra cui la Foundation for Economic Education, l'Institute for Human Studies e l'Intercollegiate Society of Individualists, che contribuirono a far circolare fra professori, studenti e addirittura businessmen le idee del libero mercato.

È difficile immaginare oggi come potessero apparire radicali le idee di un Friedman o di un Hayek negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il futuro sembrava già dirigersi verso la pianificazione centralista, il socialismo e lo Stato sociale. In questa fase il ruolo dei finanziatori era quello di mantenere vitale un residuo di pensiero, in attesa di poterlo di nuovo proporre come alternativa alle dottrine che avevano fallito. Il fatto che il movimento non riuscisse a inserirsi nel più ampio mondo della politica e del dibattito pubblico fu in parte, come abbiamo visto, una scelta: mirando a un'influenza che andasse oltre i titoli dei quotidiani, Hayek e i suoi seguaci evitarono strategie che potessero far loro raggiungere un pubblico più vasto. Ma, operando come fecero contro la corrente intellettuale del tempo, riuscirono a malapena a mettere un piede nel mondo universitario – senza il quale era quasi impossibile convertire la successiva generazione di studiosi. A metà degli anni Settanta, Hayek stesso veniva ormai liquidato come un estremista, addirittura un reazionario e l'influenza dei liberali classici era ridotta al minimo.

L'offensiva delle fondazioni liberal
Se in questo periodo il lavoro delle fondazioni conservatrici attrasse ben poca attenzione al di là della loro cerchia – le standard histories di Waldemar Nielsen, The Big Foundation e The Golden Donors, non le nominano nemmeno – le principali fondazioni liberal, al contrario, portavano avanti con vigore i loro programmi riscuotendo il consenso generale. Queste fondazioni – la Ford e la Rockefeller insieme alla Carnegie Corporation – erano ispirate dall'idea di raggiungere il progresso sociale attraverso la conoscenza tecnica e la ricerca scientifica, e credevano nell'espansione del ruolo del governo a nuovi settori e nell'uso delle organizzazioni internazionali per promuovere la cooperazione fra le maggiori potenze. Finanziarono istituzioni ben fortificate e molto stimate: università, centri di ricerca, organizzazioni internazionali e, occasionalmente, organi di governo. In sostanza le fondazioni liberal costituivano una parte integrante dell'establishment di sinistra dell'epoca, cosa per la quale furono criticate (con scarsi effetti) sia dai conservatori che dai radicali di sinistra.

Vi fu un significativo cambiamento nelle fondazioni di sinistra dopo che McGeorge Bundy, ex preside di Harvard e consigliere per la sicurezza nazionale delle amministrazioni Kennedy e Johnson, fu nominato presidente della Ford Foundation nel 1966. Preferendo di gran lunga l'attivismo alla ricerca e allo studio, Bundy inaugurò una nuova strategia. Ben presto la Ford e altri finanziatori liberal iniziarono a investire in una moltitudine di gruppi di attivisti che promuovevano il femminismo, l'affirmative action, l'ambientalismo, il disarmo e altre cause d'avanguardia. L'Environmental Defense Fund, il Natural Resources Defense Council, il Women's Law Fund e il Mexican American Legal Defense and Education Fund sono fra i prodotti di quest'iniziativa. Questi gruppi sostenevano di parlare per conto delle rispettive cause e di esserne i legittimi rappresentanti. In questa veste, promuovevano idee che si trasformarono in leggi e poi tentarono di influenzare gli organi regolatori e le corti federali che implementavano e interpretavano le leggi. Così la Ford e Bundy contribuirono a sviluppare una struttura istituzionale che, facendo leva sulle agenzie amministrative, riusciva a spingere i suoi programmi oltre ogni limite contemplato dal politico che li convertiva in legge.

Una strategia ideata per introdurre grandi cambiamenti circonvenendo il processo elettorale, era perfettamente adatta alle fondazioni che avevano legami con esperti e attivisti. E ebbe indiscutibilmente dei risultati: le quote per le donne e le minoranze, l'espansione del welfare, nuove leggi per l'ambiente e simili. Nel lungo termine il metodo Bundy servì a inventare quello che oggi è fenomeno comune sulla scena politica americana: il gruppo patrocinante ben posizionato si coltiva un motivo di malcontento contro la società americana, chiedendo un indennizzo in nome dei suoi membri.

A rinforzare questa tendenza intervenne il fatto che, simultaneamente, il Partito democratico stava iniziando a mutare lungo linee parallele. Dopo gli scontri alla convention di Chicago del 1968, i Democratici istituirono una commissione, presieduta dal senatore George McGovern, con il compito di rendere il processo delle nomine più rappresentativo. Catturata subito dagli attivisti liberal, la commissione impose nuove regole per la selezione dei delegati come la rappresentanza per le donne, i neri e i giovani in base alla rispettive proporzioni nella popolazione. Il risultato fu che gli eletti alle cariche, i funzionari del partito e i leader sindacali che avevano controllato le convention democratiche in passato, furono sostituiti da attivisti che facevano da portavoce ai gruppi designati. Con questo approccio, i gruppi che ora si insediavano nel partito iniziavano a somigliare molto a quelli che Bundy aveva cercato di organizzare attraverso la Ford Foundation. In molti casi si trattava degli stessi gruppi.

Alla fine il liberalismo cominciò a ricomporsi nelle linee dei gruppi di interesse. Lo Stato sociale, da un pacchetto di programmi attraverso il quale gli americani offrivano assistenza ai poveri, ai malati e ai disabili, era diventato un sistema attraverso il quale alcuni gruppi ben definiti riuscivano a ordinare il sostegno economico del governo come un diritto e una compensazione per le ingiustizie passate. Alla società era assegnata la parte del colpevole, a chi riceveva i sussidi quella della sua vittima offesa. Questo gioco di destrezza, a sua volta, rendeva difficile al governo pretendere che chi riceveva il suo aiuto adattasse il suo comportamento agli standard della vita della classe media.

Mentre il liberalismo assorbiva gradualmente le ipotesi accusatorie del periodo, le rivendicazioni dei gruppi diventavano sempre più stridenti e si moltiplicavano le accuse di discriminazione e di ingiustizia. Con il tempo il nuovo ordine avrebbe cancellato quelle caratteristiche umanitarie di filosofia di sinistra che avevano attirato la middle class americana dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta. Questi sviluppi non erano prevedibili. Non furono la conseguenza di vasti fattori economici o sociali, ma furono piuttosto escogitati da una stretta cerchia di attivisti che avevano accesso ai fondi e esercitavano influenza nell'ambito del Partito democratico. Sconfissero anche la convinzione di Hayek che per mettere in atto grandi cambiamenti fosse necessaria una generazione o più. In questo caso, una dottrina e un partito politico con un'orgogliosa tradizione furono messi sottosopra nel giro di pochi anni.

Al tempo molti osservatori notarono il ruolo che le fondazioni avevano ricoperto in questo sconvolgimento. Inserendosi nella vita politica della nazione, i finanziatori liberal avevano messo a profitto la loro capacità di finanziare esperti, ricerche e gruppi di attivisti, trasformandoli in un nuovo potenziale di influenza. Con il vantaggio connaturato che avevano sui politici eletti e sulle associazioni di categoria tradizionali, erano la quintessenza di quella che venne definita new politics, una politica guidata soprattutto dalle idee. Senza dubbio questo fu uno sviluppo cruciale della nostra vita politica – e in risposta alcuni conservatori, insieme ad alcuni liberal allarmati o delusi, cominciarono a cercare nuove strade.

L'irruzione dei neo-conservatori
Questo ci porta alla seconda fase della filantropia conservatrice. Iniziò a prendere forma alla metà degli anni Settanta grazie all'opera di un piccolo gruppo di finanziatori, soprattutto le fondazioni John M. Olin e Smith Richardson e in seguito la Bradley Foundation. In una certa misura vi presero parte anche gli Scaife Trusts di Pittsburgh.

Questi finanziatori erano consapevolmente più conservatori che libertari. Pur apprezzando gli scritti di Hayek e gli ideali del liberalismo classico, adottarono una cornice intellettuale più ampia, nella quale non rientrava solo l'economia, ma anche la religione, la politica estera e le discipline classiche tradizionali. Al contrario di Hayek e dei suoi seguaci, erano pronti a misurarsi con il mondo della politica e a prendere parte in maniera diretta e aggressiva alla guerra delle idee. Le fondazioni erano state dotate di fondi da businessmen di successo che volevano conservare il sistema delle imprese private, che aveva consentito al paese di prosperare. A metà degli anni Settanta, lo scenario sembrava particolarmente desolante per questo tipo di progetti, ma la sensazione di nuotare contro corrente diede ai loro sforzi un'urgenza rinvigorente. E presto scoprirono, nel mondo intellettuale, un gruppo di alleati apparentemente improbabile, con delle priorità non meno urgenti.

Proprio come i primi finanziatori avevano guardato a Hayek come guida, queste fondazioni guardavano ai neoconservatori. Giornalisti e commentatori come Irving Kristol, Norman Podhoretz, Hilton Kramer e Michael Novak avevano speso la maggior parte degli anni formativi a sinistra. Più che da Hayek, le loro idee erano state influenzate da George Orwell, Lionel Trilling e Raymond Aron – intellettuali della generazione di Hayek che avevano trattato ampiamente il male del totalitarismo da una posizione morale e politica. Molti di loro, come Hayek, facevano risalire la loro discendenza intellettuale ai whig del Diciottesimo secolo, ma enfatizzandone la dimensione morale e culturale piuttosto che quella economica e preferendo la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith piuttosto che La ricchezza delle nazioni. In breve, consideravano le fondamenta morali di una società libera prevalenti e più importanti delle sue fondamenta economiche.

I neoconservatori avevano un ulteriore vantaggio: venendo dalla sinistra, capivano i processi del pensiero dei liberal e della sinistra contemporanea. Capivano anche che bisognava combattere la guerra delle idee impegnandosi nelle controversie del mondo reale, puntando al risultato. Con i loro scritti e con i consigli che davano contribuirono ad orientare le fondazioni conservatrici verso la gara in corso che avrebbe determinato quali idee dovevano governare la nazione. Il mondo politico che questi scrittori vedevano negli anni Settanta era molto diverso da quello che aveva dato tanti problemi ad Hayek nella Londra del 1944. Invece di accompagnarci sulla strada del collettivismo, lo Stato sociale aveva prodotto frammentazioni, conflitti fra i gruppi, disordini e una perdita generale di autorità nella società. Per di più negli Stati Uniti lo Stato sociale non si era fatto spazio grazie alla nazionalizzazione dell'industria ma attraverso sempre maggiori espansioni di programmi sociali e l'incremento del potere regolatore federale. Fu l'intersecarsi di questi programmi con la rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta che causò, secondo i conservatori, il crimine urbano, l'illegalità, la crisi della famiglia e il fallimento dell'istruzione. Il problema del tempo era, quindi, non tanto il collettivismo o il socialismo quanto la mancanza di moralità e di fiducia in se stessi, cosa per certi aspetti caratteristica di tutte le società benestanti – un problema per il quale il liberalismo classico non offriva soluzioni ovvie.

Al contrario del liberalismo hayekiano, il neoconservatorismo non elaborò mai una teoria completa del governo, dell'economia o della società (più che un movimento, il neoconservatorismo era una “persuasione”, come lo ha definito Kristol, o una “tendenza”, come lo ha descritto Podhoretz). Rifiutando allo stesso modo le ortodossie e le teorie astratte, i neoconservatori tendevano ad operare sugli eventi del momento. Sebbene apprezzasse Hayek, Kristol scrisse una volta che «troppo spesso dà l'impressione di considerare la realtà un'unica, immensa deviazione dalla vera dottrina».

Conservando questa attenzione per i risultati nel mondo reale, i neoconservatori attingevano alle scienze sociali per valutare le conseguenze pratiche di vari programmi e politiche che costituivano il moderno Stato sociale. Documentando le fastidiose conseguenze di iniziative che avevano promesso di mettere fine alla povertà o di trasformare le città, analisti come James Q. Wilson e Charles Murray dimostrarono che idee adottate con le migliori intenzioni stavano peggiorando la situazione. Questi studi gettarono una secchiata di acqua fredda sulle grandi aspettative dei teorici e degli attivisti di sinistra. Le promesse cominciavano a ridursi e, insieme ad esse, le fortune dell'espansione dello Stato sociale.

Non che i neoconservatori fossero contro lo Stato sociale per principio o che abbracciassero necessariamente il mercato senza vincoli come alternativa. Criticavano lo Stato sociale perché demoralizzava i poveri e li rendeva dipendenti dal governo, ma non si opponevano a misure sensate per aiutare i disoccupati. Sicuramente erano a favore di uno Stato sociale conservatore, che incoraggiasse il lavoro, la famiglia e i valori della classe media. In politica estera, consideravano la Guerra Fredda una battaglia politica e morale vitale e giudicavano quantomeno ingenui o peggio gli sforzi di appeasement con l'Unione Sovietica. In un altro periodo, si sarebbero potuti benissimo definire liberal; negli anni Settanta e oltre, erano definitivamente conservatori. Come Hayek, i neoconservatori vedevano un ruolo molto importante per gli intellettuali, ma non erano disposti ad attendere un'intera generazione per raccogliere i risultati dei loro sforzi. Era chiaro che gli intellettuali liberal e di sinistra avevano promosso idee e programmi che non avevano alcun contatto con le convinzioni della maggior parte degli americani. Questo apriva delle opportunità. Il ruolo del conservatorismo, come disse Kristol, era «dimostrare agli americani che loro avevano ragione e gli intellettuali avevano torto». Nel tempo, è andata più o meno così. I neoconservatori compresero che né l'avversione degli intellettuali verso il capitalismo, né la loro propensione per il socialismo dipendevano da un'analisi economica. A metà degli anni Settanta, la promessa economica del socialismo era ormai morta; era chiaro a tutti che le economie socialiste non riuscivano nemmeno a dare da mangiare ai propri cittadini. Gli intellettuali di sinistra erano attratti da un altro aspetto del socialismo: l'idea di comunità che contrapponevano odiosamente all'individualismo e alla competizione della società di mercato.

Quindi, come sostenevano Kristol e altri, una difesa efficace del capitalismo richiedeva una difesa dei presupposti culturali su cui si basa una civiltà commerciale. Bisognava dimostrare che le società libere incoraggiavano valori superiori di quelli del socialismo.

Le fondazioni conservatrici seguirono questa linea. Pur continuando a finanziare programmi in ambito economico, fecero anche donazioni per campi come la storia, la filosofia, l'amministrazione e persino l'arte e la letteratura. Cominciarono a considerare la religione, la morale e il matrimonio importanti quanto l'economia e il mercato – e strettamente connessi ad essi. Stanziarono fondi per istituzioni importanti, fra le quali le università della Ivy League dove le idee conservatrici erano in netta minoranza, e si dimostrarono pronti a sostenere riviste e periodici che si occupavano di varie questioni scottanti.

Compresero che queste riviste non erano semplici prodotti in vendita sul mercato, come avrebbe potuto considerarle un uomo d'affari, ma vere e proprie istituzioni, con responsabilità, reputazioni da costruire e da preservare e reti di autori e di sostenitori. Ma soprattutto, erano vivai di idee, incubatrici di nuovi talenti. Il loro effetto non era vasto solo nel complesso, ma i singoli articoli pubblicati in ciascuna rivista potevano avere conseguenze che andavano lontano.

Le riviste neoconservatrici, in particolare Commentary e Public Interest, pubblicavano regolarmente critiche documentate, aspre e spietatamente logiche alle idee e alle politiche liberal e le loro analisi andavano dalla riforma del welfare allo spostamento della politica mondiale americana operato dall'amministrazione Bush. C'erano anche New Criterion, una rivista di arte e letteratura diretta da Hilton Kramer, e National Interest, un periodico di politica estera fondato da Kristol e diretto per molti anni da Owen Harries. Portando un nuovo approccio e nuovi temi al conservatorismo moderno, i neoconservatori ne aumentarono la portata, lo resero più influente nel mondo politico e lo aiutarono ad affrontare le sfide del tempo. Il successo del conservatorismo nei decenni recenti deve molto a loro e alla loro partnership con le fondazioni conservatrici.

Oltre ad aiutare istituzioni ispirate dai neoconservatori, le fondazioni sostennero riviste, think-tank e centri di ricerca guidati da economisti a favore del libero mercato, libertari, conservatori religiosi e persino filosofi straussiani. Quando Ronald Reagan fu eletto nel 1980, vi erano pochissime organizzazioni a cui rivolgersi per avere ricerche o informazioni; nel 2000, quando fu eletto George W. Bush, vi era ormai una moltitudine di gruppi che lavoravano attivamente in ogni area della politica pubblica. Queste organizzazioni hanno elaborato idee e hanno fatto crescere talenti che, nel tempo, hanno contribuito a cambiare l'equilibrio di potere fra liberal e conservatori in America. Tutto questo è stato fatto con risorse economiche modeste – sorprendentemente modeste se paragonate a quelle della loro controparte. In uno degli anni passati, le cinque principali organizzazioni filantropiche liberal – le fondazioni Ford, Rockefeller, e MacArthur, il Pew Trusts e la Carnegie Corporation – hanno dichiarato nel complesso un patrimonio di 24 miliardi di dollari e spese annuali per 1,2 miliardi. Il patrimonio complessivo delle cinque più importanti fondazioni conservatrici, invece, non supera il miliardo e mezzo di dollari e la loro spesa annuale raggiunge a malapena i 100 milioni. E tuttavia sono riusciti ad ottenere grandi successi, guardando agli obiettivi con disciplina e alleandosi con una generazione di scrittori e studiosi di insolito talento.

La nuova stagione delle battaglie culturali
Questa rete di pubblicazioni, progetti universitari e centri di ricerca costruita dagli anni Settanta in poi, continuerà a esercitare la sua influenza negli anni a venire. Ma, come ho suggerito all'inizio, questa fase della filantropia conservatrice è oggi arrivata al capolinea – in parte perché ha completato il suo lavoro, in parte perché le condizioni sono cambiate e in parte perché alcuni finanziatori importanti lasciano la scena. Nei decenni che verranno, nuovi finanziatori, che ora stanno entrando nel settore, scriveranno il prossimo capitolo della filantropia conservatrice.

La fase successiva sarà necessariamente diversa da quelle che l'hanno preceduta. Per un motivo: la filantropia conservatrice probabilmente si fonderà più sui singoli rispetto a prima. La prosperità degli ultimi decenni e il successo dei gruppi e delle idee conservatrici hanno creato un gruppo di individui, alcuni con enormi ricchezze e molti abbastanza ricchi da elargire donazioni significative alle imprese conservatrici. Allo stesso tempo, alcune fondazioni – soprattutto la Olin – si sono ritirate dagli affari o intendono farlo, secondo i desideri del loro fondatore, mentre altre hanno iniziato a cambiare le loro priorità.

La ragione di questo cambiamento è connessa al fatto che il conservatorismo è diventato una filosofia di governo e la governance tende alla pratica. È l'evoluzione naturale per un movimento che ha assunto una responsabilità nazionale e ha bisogno di punti all'ordine del giorno praticabili – buono scuola, conti per le pensioni, riforma della giustizia, abolizione delle tasse di successione e così via – da proporre e mettere in atto. Inoltre vari finanziatori conservatori si sono personalmente impegnati per promuovere delle politiche specifiche, e considerano l'approvazione di una legge o l'attuazione di una riforma la misura più tangibile del loro successo. Questo significa forse che non è più necessario sostenere e rinnovare le basi intellettuali del conservatorismo? Difficilmente. Il dinamismo della vita americana e l'instancabile lotta fra i partiti politici e i gruppi di interesse obbliga ogni movimento di idee, se vuole sopravvivere e crescere, a mettere continuamente alla prova le sue idee. Basta pensare al tributo a Galbraith e Schlesinger, per ricordare la natura precaria e effimera dell'influenza intellettuale.

Il conservatorismo ha compiuto questo processo di rinnovamento meglio di tutti i suoi concorrenti nel dopoguerra. E c'è riuscito non ponendo l'enfasi sulla politica spiccia, ma su argomenti più ampi: dove siamo stati, dove dovremmo andare e quali minacce e ostacoli si frappongono fra noi e il nostro scopo.

«Di chi è il futuro?» chiedeva Orwell. È la grande domanda della vita e la grande domanda della politica. Pochi decideranno di abbracciare il conservatorismo perché promuove l'assistenza sociale privata o perché mette un tetto ai liability awards. In fondo – come ci ha drammaticamente dimostrato la grande partecipazione del paese alla sorte di una donna in un ospedale della Florida, tenuta in vita da un tubo che l'alimentava – la battaglia sul futuro è culturale e morale. Sotto questo aspetto, Hayek e i neoconservatori hanno sempre avuto ragione: ogni movimento, debba esso aumentare o mantenere la sua influenza, deve misurarsi nella battaglia delle idee. Per farlo, i conservatori, non meno dei liberal, hanno bisogno dell'aiuto dei filantropi.



© Commentary. Titolo originale: “Investing in Conservative Ideas”.
(traduzione dall'inglese di Barbara Mennitti)

 

James Piereson, ha insegnato Scienze politiche all'Università della Pennsylvania prima di entrare nella John M. Olin Foundation, di cui è stato executive director dal 1985 al 2005.

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