«I liberali non abbiano paura della tradizione»
intervista a Marcella Pera di Giovanni Orsina
Ideazione di settembre-ottobre 2005

Con le elezioni regionali, e in preparazione delle politiche, la vita pubblica italiana si è messa in movimento. Non è un movimento di superficie, e non è un movimento confortante. Non è un movimento di superficie perché la sensazione diffusa – anche se non sempre resa esplicita – è che sia finita o stia finendo un'epoca, e che la ristrutturazione cui andrà incontro la politica italiana da qui a un anno sarà profonda e radicale. Non è un movimento confortante, perché l'epoca che sta finendo nasceva essa stessa come epoca provvisoria e di transizione, e non è mai riuscita a stabilizzarsi né a esplicare le proprie potenzialità. Non ci stiamo, insomma, mettendo in mare a partire da un approdo sicuro: stiamo entrando da una bufera in una tempesta – con una nave già molto provata, con un equipaggio esausto e rissoso.

Fuori di metafora: dalla crisi della Prima Repubblica sono passati più di dieci anni, tre elezioni generali (1994, 1996, 2001), otto governi (Berlusconi I, Dini, Prodi, D'Alema I e II , Amato II, Berlusconi II e III). E i problemi che il paese deve risolvere sono rimasti più o meno gli stessi – semmai si sono aggravati. Abbiamo acquisito la strutturazione bipolare del sistema politico, che certo non è poca cosa, ma non siamo riusciti a renderla efficiente e funzionante, né ad appoggiarla a un assetto costituzionale rinnovato. Non abbiamo risolto il problema dei rapporti fra politica e magistratura. La qualità della classe dirigente è rimasta stazionaria se non peggiorata. L'economia – almeno in questo caso, non solo per colpa nostra – è in difficoltà serie.

Se volessimo scegliere un simbolo delle vischiosità storiche nelle quali questo paese è impaniato, e dalle quali non riesce a liberarsi, potremmo forse trovarlo nel fatto che alle elezioni del 2006 vedremo con ogni probabilità confrontarsi la stessa coppia che si scontrò dieci anni prima, nel 1996. Una dimostrazione di sterilità del sistema politico che si fa a mio avviso ancora più preoccupante se consideriamo come si tratti di due uomini, Prodi e Berlusconi, più anziani della maggior parte di quanti governano negli altri paesi occidentali (66 anni quello e 69 questo, rispetto ai 59 di Bush, i 52 di Blair e de Villepin, i 45 di Zapatero). E due uomini, inoltre, che negli scontri anche violenti dell'ultima decade e nelle responsabilità gravose del potere si sono logorati non poco, personalmente e politicamente.

La sensazione che si stia avvicinando un periodo di instabilità ancora maggiore di quella che abbiamo vissuto negli ultimi anni, e di trasformazione politica profonda, è indubbiamente legata alla percezione che il berlusconismo sia in crisi. Non mi pare si possa dubitare, infatti, che il sistema politico italiano degli ultimi dieci anni si sia, nel bene e nel male, strutturato intorno alla persona di Silvio Berlusconi e alla sua proposta politica – il berlusconismo e l'antiberlusconismo avendo sostituito le due ideologie portanti del sistema politico repubblicano, l'anticomunismo e l'antifascismo, che il 1989 ha affondato in via definitiva.

Se, come in molti sostengono, il berlusconismo si è avviato al tramonto, allora sono entrati o stanno per entrare in crisi le ragioni d'essere e gli elementi unificanti non soltanto del centrodestra, ma anche (seppure, certo, in misura minore) del centrosinistra. Che cosa possa sostituirli, quelle ragioni d'essere e quegli elementi unificanti, non è affatto chiaro. Che in quest'ulteriore puntata dell'infinita transizione italiana apertasi con Tangentopoli il paese perda l'unica vera acquisizione di civiltà politica dell'ultima decade, l'alternanza al governo determinata dai risultati elettorali, è un rischio reale – anche se a mio avviso minore di quanto molti pensino (o, magari, sperino). Che un centrodestra culturalmente, strutturalmente, politicamente debole, copertosi fino ad oggi dietro la supplenza berlusconiana, esploda fragorosamente, e veda alcune sue componenti convergere verso il centro, altre riportarsi su posizioni radicali, non è una mera ipotesi di scuola.

In queste condizioni, non certo agevoli, il presidente del Senato Marcello Pera ha creduto negli ultimi mesi di doversi impegnare soprattutto in due direzioni. Da un lato ha caldeggiato l'ipotesi – avanzata dal presidente del Consiglio nel presentare il suo terzo governo – che si andasse verso l'unificazione dello schieramento di centrodestra all'interno di un solo partito, identificando in quest'ipotesi una possibile soluzione all'appannamento elettorale del polo. Dall'altro, e soprattutto, ha ragionato sulla cultura liberale moderata: che cosa possa essere oggi, quella cultura; quale versione possa sostenerne uno schieramento di centrodestra; quali rapporti, politici e culturali, un polo moderato debba stabilire con l'Impero da un lato, con la Chiesa dall'altro. Dove pensa che possano portare questi suoi sforzi, e in quale Italia vede prodursene i risultati, sono gli argomenti del colloquio che abbiamo avuto il 29 agosto scorso.

Sono in molti ormai ad aver decretato la fine del berlusconismo – a ritenere che le elezioni del 2006 altro non faranno che sancire ufficialmente la chiusura di una stagione che, nei fatti, è già finita. Questa stessa intervista parte dal presupposto che la crisi del progetto politico e della leadership di Berlusconi non sia immaginaria, e rappresenti un serio fattore di destabilizzazione del quadro politico nazionale – anche se, dove tutto questo possa portare, nel bene e nel male, davvero non saprei dirlo.
Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa intendiamo per “berlusconismo”. Il programma elettorale del 2001? Qui ci sono difficoltà ma non vedo segni particolari di crisi. Il governo ha agito come tutti i governi: in parte ha realizzato il suo programma, in parte no, in parte lo ha fatto bene, in parte meno, in parte male. Ai critici occorre ricordare soprattutto che quel programma era basato su un presupposto: una fase di espansione economica che avrebbe consentito una riduzione della pressione fiscale, la quale a sua volta, grazie al maggior reddito, avrebbe permesso programmi di ammodernamento. Il presupposto, che già era ottimistico all'inizio perché il ciclo espansivo internazionale mostrava segni di stanchezza, è venuto tragicamente a mancare pochi mesi dopo l'insediamento del governo, l'11 settembre 2001. Da quel momento viviamo in una delle fasi economiche peggiori del dopoguerra. È un gran risultato se, cambiato il presupposto e quindi l'agenda, il governo ha realizzato molte cose.
Per “berlusconismo” si può poi intendere l'insieme delle aspettative della società italiana incarnate da Berlusconi nel 1994. Erano attese di modernità, di modernizzazione, di emancipazione, di liberalizzazione. Quelle, come furono definite, del “liberalismo di massa”. Dopo l'incidente elettorale (perché di questo soltanto si trattò) del 1996, queste attese, in condizioni diverse, furono riprese nel 2001. Berlusconi ha cercato di soddisfarle nei limiti consentiti dalla situazione e da un governo con grande maggioranza sì, ma insidiato dalla natura della coalizione, nella quale più di un partner, e forse tutti, hanno troppo spesso fatto i calcoli delle rendite elettorali delle riforme promesse e da adottare. Ne è venuto fuori un compromesso e una mediazione continua fra liberisti (pochi), corporativisti (i più) e statalisti (il resto), fra nordisti e sudisti, fra moderati e radicali, fra rigoristi e lassisti. Non saprei dire se quella di oggi è una crisi di questo berlusconismo, certo un appannamento serio, rispetto alle aspettative, c'è stato. Il liberalismo è entrato in qualche quartiere, ma non è diventato di massa. Infine, per “berlusconismo” si può semplicemente intendere Berlusconi. Che il suo appeal elettorale non sia più lo stesso lo dicono in tanti, perché ci sono diversi segni obiettivi, ma che sia in crisi irredimibile lo sostiene in particolare chi vuole sostituirlo.

Berlusconi ha svolto un'opera straordinaria di supplenza in uno spazio politico scarso di cultura e di classe dirigente, e ricco “soltanto” di elettori. Ha avuto il merito storico di catalizzare un consenso moderato che era rimasto del tutto orfano. Ha avuto il difetto di non far crescere nulla di istituzionale sotto l'ombrello della propria supplenza carismatica. Questo difetto, gravoso per l'intero schieramento moderato, appare gravosissimo per il partito del presidente del Consiglio, Forza Italia, tanto da rendere legittimo dubitare che esso possa sopravvivere all'eventuale pensionamento politico del suo fondatore – il che rappresenterebbe ovviamente un problema serio per il quadro politico italiano, e per il centrodestra in particolare.
Non c'è dubbio che non aver trasformato il movimento in un partito autentico sia stato un errore. È accaduto così che Forza Italia abbia dirigenti di primo livello, ma non un luogo in cui essi si confrontino e anche, se del caso, si scontrino. Il carisma e il potere di Berlusconi hanno prevalso, con l'accondiscendenza dei maggiorenti, sull'esigenza del collettivo. I dirigenti – oggi prevalentemente ministri – in realtà non si conoscono, in quel senso politico di “conoscere” che si verifica nei congressi, nelle assemblee, negli organismi in cui ci si confronta, ci si scontra e si decide.
È stato poi commesso un secondo errore. Dopo la vittoria elettorale, tutti i principali dirigenti del partito si sono trasferiti al governo. Così il partito si è svuotato e tutte le mediazioni e anche le difese del governo sono ricadute sul governo medesimo. In tal modo si sono sguarnite le retrovie. Occorre invece fare in modo che il partito abbia una voce indipendente e autorevole, e occorre farlo presto, prima che Forza Italia diventi un partito “normalizzato” o svuotato. La discussione su questo punto, dentro Forza Italia, data fin dalle sue origini. Perciò il ritardo è grave. E tuttavia, nell'evidenziare gli errori di gestione del partito, non possiamo neppure dimenticare le molte attenuanti. Forza Italia aveva il compito della sintesi e di trascinare la “rivoluzione liberale di massa”. Un compito immane e anche contraddittorio: la sintesi porta a mediare e, alla fine, a scolorire; la rivoluzione a guidare, dirigere, affermare. Un compito difficile, per un partito nuovo, con pochi esperti dei meccanismi della politica dei palazzi, circondato da molte ostilità negli apparati, osteggiato dalla cultura dominante, spesso deriso o fatto segno di diffidenza. E comunque un compito più che possibile, considerando la presenza di una maggioranza quale mai si era vista nella storia d'Italia. Fin dall'inizio, Forza Italia è stato il marziano. Non a caso si è trovata in difficoltà anche con i suoi alleati centristi: nel loro intimo l'hanno considerata sempre un intruso, un'anomalia, una parentesi. Le tentazioni e le dichiarazioni per sostituire Berlusconi e spostare l'asse della politica di governo verso il famigerato “centro” non datano da oggi, sono cominciate appena un anno dopo le elezioni. Alla prova, direi che Forza Italia ha resistito, ma avrebbe potuto fare di più e meglio.

Ma il “centro”, poveretto, così “famigerato” dopo tutto non è. È il luogo dal quale si guidano le democrazie mature. Il problema, piuttosto, mi sembra stia da un lato nella gestione istituzionale di quel “centro”, dall'altro nel suo contenuto politico. Come ho già detto, l'alternanza al governo determinata dai risultati elettorali, vulgo bipolarismo, rappresenta l'unica vera acquisizione di civiltà politica di quest'ultima decade. Chi ne sottolinea gli innegabili difetti farebbe bene a non ingigantire nel ricordo i pregi del sistema bloccato e consociativo della Prima Repubblica. Governare dal centro, poi, significa anche saper imporre delle scelte politiche necessarie, seppure magari dolorose. E non è detto che siano scelte “moderate”. Nella Gran Bretagna degli anni Ottanta Margaret Thatcher conquistò il centro politico con un'agenda di governo radicale. Era l'agenda della quale il paese aveva bisogno. Era l'agenda della quale allora avrebbe avuto bisogno anche l'Italia. È l'agenda della quale, ahinoi, avremmo bisogno ancora oggi, vent'anni dopo…
Mi pare che il problema sia esattamente questo. “Neocentrismo”, certo, potrebbe anche significare una politica. Solo, io non ho ancora capito quale. Non l'ho capito quando l'espressione “centro” è stata invocata dal professor Monti, allorché in modo non poco paradossale questa estate ha, in sostanza, detto che, siccome le riforme non le fa la destra che c'è e neanche la sinistra che c'è, allora le può fare il centro che non c'è. Capisco e largamente condivido le esigenze del professor Monti, ma i conti delle riforme bisogna farli con quello che passa il convento. Anche il suo centro che oggi non c'è, se domani ci fosse, sarebbe composto dagli stessi attori politici. Pensare che, liberato dalle palle al piede delle estreme, esso finalmente farebbe ciò che finora non si è fatto o si è fatto poco o male, è utopistico. È come dire che finora ci sono stati centristi e riformisti liberali impossibilitati ad agire, a destra o sinistra. Francamente, di politici ingabbiati in giro non ne vedo molti. Se ancora non si sono liberalizzati, tanto per fare qualche esempio, nemmeno la vendita dei giornali, i medicinali da banco, i taxi, per non parlare delle professioni, la colpa è del corporativismo diffuso, che in Italia, come il buon senso di Cartesio, è «la chose mieux partagée». O le riforme liberali le hai nel sangue della cultura politica – e io vedo in giro molti anemici, dall'una e dall'altra parte – oppure è illusorio pensare che, disgregando e aggregando pezzi o componenti di partiti, il puzzle si componga e diventi un soggetto finalmente riformatore. Neppure ho capito che cosa sia il neocentrismo quando è stato evocato da alcuni settori della maggioranza. Quali riforme, diverse da quelle promesse o effettuate o in cantiere, vogliono i neocentristi sull'economia, sullo Stato sociale, sulle professioni, sulle istituzioni, sulla scuola, sull'università, e via dicendo? Quale posizione hanno sull'immigrazione e l'integrazione? Quale sull'Europa? Quale sulla politica estera? Se continuo a non ottenere risposta, sono costretto a continuare a pensare che, poiché il bipolarismo, ancora oggi come nel 1994, significa Berlusconi, il neocentrismo significhi: sostituite Berlusconi con un cattolico ex-Dc e tutto si aggiusterà. In mancanza di altre specificazioni, per me, invece, tutto ritornerebbe come prima.

Non c'è alcun dubbio che bipolarismo significhi Berlusconi. È proprio questo che mi preoccupa. Poiché mi sta a cuore il bipolarismo, vorrei che ce lo tenessimo anche dopo l'“uscita dal campo” del Cavaliere, quando che sia – e questo si può fare soltanto rafforzando istituzionalmente, culturalmente e politicamente lo schieramento moderato. Quella del partito unico poteva essere una buona idea, ma mi pare sia entrata in una fase di stallo. E poi, bisognerebbe capire un po' meglio di che cosa si tratta. In particolare, non credo affatto che un'iniziativa di mera “cosmesi strutturale” sia in grado di risolvere i problemi del polo – e di conseguenza dell'incerto bipolarismo italiano. La vera questione, insomma, mi pare essere piuttosto quella del contenuto politico che si vuole versare nel vaso nuovo, anche perché le fusioni elettorali in Italia hanno sempre prodotto un totale di consensi inferiore alla somma delle parti.
Quella del partito non era solo una buona idea, ma lo resta. Servirebbe a rafforzare il bipolarismo, e per altre cose ancora. Le divergenze dentro la maggioranza sono dovute spesso alla cura da parte di ciascuna componente del proprio “particulare” elettorale. Un partito unico assorbirebbe meglio le spinte e le tendenze centrifughe. Inoltre, i singoli partiti della maggioranza sono asfittici, privi di discussione interna che non sia lotta tra clientele e conquista di potere. Un partito unico innescherebbe più sana lotta politica. Infine, un partito unico sarebbe più credibile agli occhi degli elettori. Oggi molti sono sconcertati perché sono delusi dalle tensioni interne della maggioranza, molte delle quali non hanno reale contenuto politico. Credo che sia stato un errore avere rinviato la costituzione del partito unico a dopo le elezioni, così come ritengo che sia stato un errore non aver messo in piedi la federazione dell'Ulivo. Per la democrazia dell'alternanza sarebbe stato un vantaggio, e lo sarebbe stato anche per la competizione elettorale ai fini del confronto fra riformisti e non, o fra riformisti di un tipo e quelli di un altro.
Per il centrodestra l'ultima parola non è ancora detta, anche se il tempo è breve e quello sprecato tanto. Si potrebbe – io credo che si dovrebbe – almeno iniziare fin da sùbito con un nucleo, una federazione o unione fra organismi dirigenti, un'assemblea unica almeno fra parlamentari, la elezione di dirigenti nazionali comuni in vista delle elezioni, un congresso o una convenzione prima del voto. Quella, finalmente, sarebbe la sede per parlare di programmi, e anche per sciogliere il nodo della leadership, che attualmente blocca tutto e forse è la scusa per non fare nulla. Insomma: subito un accordo e la cellula di un organismo politico unitario, la leadership verrà da sé. Che cosa impedisce di prendere queste iniziative?

Bipolarismo, neocentrismo, partito unico… Della forma che il sistema politico italiano potrebbe (e dovrebbe) assumere mi sembra che abbiamo parlato a sufficienza. Prima di passare ai temi culturali che, mi par di capire, le stanno più a cuore (e comunque a me stanno più a cuore senz'altro), si impone a questo punto soltanto un'ultima domanda di argomento istituzionale. Quella sul sistema elettorale.
Nel dibattito di questi ultimi mesi la riforma della legge elettorale è stata legata alla nascita del partito unico del centrodestra. In un certo senso lo è. Se avessimo il maggioritario e basta, il partito unico, a destra come a sinistra, sarebbe già nato. Ma il maggioritario e basta non l'abbiamo e quello che abbiamo è venuto storto. Bisogna prendere atto della realtà. In Italia, il maggioritario non ha prodotto alcuna riduzione di partiti. In parte perché non si è voluto, in parte perché alcune forze politiche si sono dimostrate irriducibili. Perciò si riparla di ritorno alla legge elettorale proporzionale. Non mi scandalizzo. Ma c'è proporzionale e proporzionale, in particolare c'è quello compatibile col bipolarismo e quello no. Mi scandalizzerei, naturalmente, e sarei di opinione contraria, se si pensasse al ritorno della legge di prima, quella delle “mani libere”: io, elettore, dò il voto alla tua lista, tu, eletto, ne fai l'uso nella combinazione parlamentare che ti pare. Sono invece stupito che la nascita del partito unico sia fatta dipendere dalla legge proporzionale: se il partito unico lo si vuol fare, si può farlo anche con questa legge e, con qualche correzione tecnica che comunque è necessaria, forse lo si può fare meglio.
Ritengo infine che anteporre a tutta la questione del partito unico la legge proporzionale sia o una scusa o una scappatoia o un desiderio mascherato di fare altro, forse una coalizione diversa con un leader diverso. Questo sarà anche una bella cosa, ma è un'altra cosa.

L'insufficienza culturale del centrodestra, unita alla quantità di consensi popolari che comunque esso raccoglie, è un'anomalia visibile e seria. Seria per il centrodestra, e seria per il paese. Se c'è una cosa che mi pare lecito dedurre dai recenti risultati referendari, è proprio la separazione netta, e patologica, fra intellettuali e popolo: una cultura ben scarsa di contatti col paese da un lato; un'Italia orfana di legittimazione culturale dall'altro. Uno dei due modi per curare questa patologia (l'altro essendo che la cultura progressista divenga meno elitaria) è che il centrodestra legittimi sul piano culturale le proprie posizioni. Per fare questo deve seguire due vie: rompere la crosta culturale del “politicamente corretto”; romperla non con pronunciamenti populisti, ma con prese di posizione serie e motivate. Lo schieramento moderato mi pare alquanto indietro su entrambi i sentieri…
Temo che l'adeguatezza culturale ai tempi nuovi e alle sfide nuove sia poco diffusa in ambo i lati. Mi piacerebbe, in particolare, che i Ds fossero un partito riformista socialista e Forza Italia un partito liberale conservatore. Ma lo sono poco l'uno e l'altro, e questo è un danno per l'intero paese, perché aiuterebbe una democrazia dell'alternanza senza rivincite o vendette o tabulae rasae ad opera del vincitore di turno, e anche perché, se ci fosse bisogno di un loro sforzo congiunto per risolvere un'emergenza o cambiare regole – e, per cambiare la Costituzione, c'è – una forza riformista di sinistra e una forza liberale di destra potrebbero compierlo restando ciascuna se stessa.
Purtroppo, questa questione culturale è ancora aperta. Dopo la crisi del socialismo, i Ds non hanno elaborato categorie interpretative nuove e neppure seguito l'evoluzione di quei partiti socialisti – il riferimento principale è naturalmente ai laburisti inglesi – che sono rimasti socialisti nel nome, ma del socialismo hanno cambiato il concetto. Specularmente, dopo la crisi della Prima Repubblica, Forza Italia si è lanciata verso il liberalismo, ma non ha mai definito meglio di che cosa si trattasse, e Dio sa se ce n'era bisogno in un'epoca in cui la dottrina – ripeto: la dottrina, non la pratica – liberale è anch'essa in crisi. Un esempio tipico e indicativo di queste mancate definizioni culturali è l'Europa. Per la sinistra è diventata l'ultima ideologia (lo ha scritto Ralf Dahrendorf), per Forza Italia un oggetto misterioso, da interpretare ora in un modo ora in un altro.

A proposito di “ideologizzazione” di un'area geografica. Se la sinistra è colpevole di europeismo indiscriminato, questo governo potrebbe essere accusato – e com'è noto è stato accusato – di indiscriminato americanismo. Per quel che mi riguarda, ho l'impressione che prima l'Italia – tutta, a destra come a sinistra – scende a patti con l'idea che di alternative al potere americano, semplicemente, realisticamente, non ce ne sono, meglio è. Il centrodestra poi, tanto più nella situazione politica attuale, sarebbe suicida se rinunciasse alla sostanza politica e culturale che può venirgli da oltreoceano. È evidente, d'altra parte, che così come non è indiscutibile l'Europa, non possono essere indiscutibili gli Stati Uniti. Continua a non essermi del tutto chiaro, ad esempio, se in termini di mera Realpolitik la seconda guerra del Golfo sia stata una scelta giusta – anche se non credo nemmeno che sia stata necessariamente una scelta sbagliata, e ritengo piuttosto che per valutarne appieno gli effetti ci vorranno ancora degli anni.
A me è piuttosto chiaro, invece. Il terrorismo ha diviso i paesi dell'Occidente, soprattutto dell'Europa, in due: quelli subordinati al petrolio arabo e impauriti delle conseguenze dell'immigrazione islamica domestica e quelli orientati alla difesa dell'alleanza euro-atlantica e della nostra civiltà, anche a costo di subire delle perdite. I primi, purtroppo, non si sono risparmiati il terrorismo islamico. I secondi hanno difficoltà a vincere con le armi, anche se con le armi hanno portato l'Afghanistan e l'Iraq più vicini alla democrazia. Inoltre, i primi non hanno avanzato una proposta e una strategia politica, salvo quella dell'appeasement. I secondi, hanno lanciato un programma di esportazione o promozione della democrazia. L'America è stata il capofila dei secondi, e l'Italia è stata dalla parte dell'America. Io credo che si stia sempre più dimostrando la parte giusta.
Questo non vuol dire che l'America abbia sempre ragione o che gli interessi dell'America siano necessariamente gli interessi dell'Europa. No, la nostra scelta di parte era giusta, perché lì era il fronte della lotta al terrorismo. Si parla tanto, per scongiurarla, della guerra di civiltà. Voglio scongiurarla anch'io, ma credo che se l'Occidente non riuscisse ad impiantare almeno un nocciolo di democrazia in Afghanistan e Iraq la guerra di civiltà sarebbe più vicina.
Quanto all'unilateralismo, l'America non l'ha scelto. Intanto è stato un atto di legittima difesa: perché dimenticare sempre l'11 settembre e tutti gli atti terroristici precedenti? Perché dimenticare sempre Israele? Poi l'unilateralismo all'America l'ha imposto la vecchia Europa, quando ha pensato di cavarsela addossando le responsabilità all'America con la tesi che l'America il terrorismo se l'era meritato con la sua politica imperiale. L'antiamericanismo endemico della nostra cultura ha fatto il resto. Vedo che ora, dopo le bombe in Europa, c'è qualche atto di resipiscenza. Ma ci vorranno decenni per fare dell'Europa un soggetto internazionale con una politica unitaria estera e militare, compresa la lotta contro il terrorismo. Al momento l'Europa è in crisi gravissima ed è inutile fingere che non lo sia. Per ora è un supermercato, con in più qualche vigilante armato agli ingressi, messo all'ultimo momento per tutelare i carrelli. La sospensione dell'accordo di Schengen da parte della Francia è un esempio tipico di arruolamento di vigilanti. Il vero problema è che non c'è ancora una vera opinione pubblica europea, un demos europeo. Peggio, nell'opinione pubblica c'è la sensazione, e talvolta la convinzione, che ciò che non va bene sia dovuto proprio all'Europa: le discussioni sui parametri di Maastricht e sull'euro lo dimostrano. Bisogna ricominciare, ma da dove e con chi non è chiaro.

Tradizionalmente, il moderatismo italiano oltre che sugli Stati Uniti si appoggia sulla Chiesa cattolica. E come nelle attuali condizioni politiche sarebbe suicida per il centrodestra non tenere conto di quel che accade oltre Atlantico, altrettanto autolesionistico sarebbe non aprire un ragionamento con l'interlocutore d'oltre Tevere. La questione, certamente, è anche politica. Circoscriverla però alla sua mera dimensione politica sarebbe un errore grave, semplicemente perché la tradizione cristiana e la Chiesa cattolica “pesano troppo” perché le si possa ridurre a instrumenta regni. A me convince il modo nel quale lei, presidente, ha aperto il dialogo con i cattolici: come momento di ricerca di un nucleo circoscritto ma solido di radici tradizionali – un “dogma minimo”, lo chiamerebbe Voegelin – sul quale edificare la società aperta. Al contrario, poco mi convincono quanti criticano questo dialogo o nel nome di un relativismo radicale che è semplicemente impossibile, o perché ispirati da preoccupazioni sull'invadenza clericale che forse avevano un senso negli anni Cinquanta, ma che oggi, in una società del tutto secolarizzata, mi paiono anacronistiche e anche un po' ridicole.
Il nuovo dialogo o colloquio o confronto fra laici e credenti che era già cominciato prima del referendum sulla fecondazione assistita, anche se lì si è rafforzato, non è qualcosa di occasionale, ma di profondo. Il fatto è che, di fronte a nuove sfide impreviste o quasi inesistenti fino a pochi anni fa – le questioni bioetiche, il confronto fra culture a seguito dell'immigrazione crescente, la guerra al terrorismo – molti laici hanno scoperto la radice storica e culturale della stessa propria laicità. Qualcuno è tornato alla vecchia litote di Croce, «perché non possiamo non dirci cristiani», altri sono andati oltre e, soprattutto in occasione delle discussioni sul Preambolo della Costituzione dell'Unione europea, hanno inteso riaffermare la loro matrice cristiana o giudaico-cristiana, o giudaico-cristiana-greco-romana. Su questo terreno è iniziato il dialogo e si è cominciato a pensare, dall'una e dall'altra parte, non ad alleanze o convergenze strumentali e occasionali, ma ad una base culturale comune e solida. La cosa andrà avanti, per merito delle “avanguardie”, come la fondazione Magna Carta, o delle “minoranze creative”, a cui si era appellato il cardinale Ratzinger ora Papa Benedetto XVI. E penso che crescerà. Questa è la vera grande e piacevole novità della cultura politica italiana. Avrà le sue difficoltà, i suoi alti e bassi, le sue incomprensioni e magari furbizie, ma è una novità che darà frutti anche alla politica.

A proposito del Preambolo della Costituzione europea: in parecchi l'hanno accusata di scarsa coerenza, perché prima avrebbe negato, poi affermato il bisogno delle “radici cristiane”.
Resto dell'idea che altre volte ho detto e scritto: non c'era nessun bisogno di menzionare Dio nella Costituzione dell'Unione: se fosse stata accettata, se fosse stata sentita utile, se avesse conquistato i cuori, la Costituzione avrebbe vissuto lo stesso, come fanno altre costituzioni che non parlano di Dio, ad esempio la nostra. Ma resto anche di un'altra idea, pur essa detta e scritta tante volte: il giorno in cui si decide che la Costituzione dell'Unione debba avere un Preambolo in cui sia scritta la nostra identità, allora è impossibile fare i ginnasiali eruditi, citando in greco Tucidide, o fare i politici generici, limitandosi a citare le «eredità culturali, religiose e umanistiche» o il «patrimonio spirituale e morale». Non ne hai l'obbligo, ma se vuoi parlare di patrimoni o eredità religiose le quali devono servire a mettere insieme un demos europeo, allora non puoi limitarti a dire e non dire, devi essere esplicito, perché si parla di identità. Dunque, devi parlare di cristianesimo.

Parlare di radici e non menzionare il cristianesimo, insomma, finisce per essere non un esercizio di laicità, ma un'esibizione di anticlericalismo…
Ovvio. Perché è veramente ovvio che senza la religione giudaico-cristiana, la nostra civiltà europea non esisterebbe. Non esisterebbero i nostri valori più fondamentali, a cominciare dal primo: la dignità della persona. Abbiamo tutti fatto le scuole, anche dopo il ginnasio, e sappiamo bene gli innesti, le evoluzioni, le trasformazioni, le derivazioni, che la tradizione giudaico-cristiana ha subìto. Ma, allora, o ti metti a citare tutte queste evoluzioni nel Preambolo, e scrivi un'enciclopedia inutile allo scopo, oppure ti fermi ai padri. Se invece i padri li nascondi o li rendi indistinti, come puoi pensare che i figli ci si riconoscano? I laicisti non credono in Dio, ma scrivendo quel Preambolo hanno mostrato di credere nei miracoli. Dev'essere stata la Nemesi (un dio pagano) che ha fatto rompere il giocattolo alla democrazia più laicista d'Europa, la Francia.

Di tutti i pilastri sui quali potrebbe fondarsi una moderna ideologia liberale moderata – liberismo economico, difesa dell'Occidente, salvaguardia di un “dogma minimo” di origine tradizionale in un quadro di società aperta – quest'ultimo mi pare quello destinato a sollevare le maggiori resistenze da parte del ceto intellettuale del nostro paese. Mentre – alla buon'ora! – la nostra cultura sembra avere infine accettato l'idea che o liberalizziamo, o finiamo male; mentre la difesa dell'Occidente dal terrorismo è un principio largamente accettato, per quanto ampie siano le divergenze sul “come” difendersi; sulla tutela dei valori tradizionali, anche di un piccolo nucleo di valori tradizionali, soprattutto se quella tutela prevede un'alleanza con la Chiesa, l'intellettualità italiana si mostra quanto mai aggressiva – ossia, nel nome di una a mio avviso malintesa interpretazione dei diritti dell'individuo, di quei valori tradizionali farebbe volentieri piazza pulita, come la recente battaglia referendaria ha ben dimostrato. E come ben dimostrano le polemiche sollevate dal discorso che lei ha fatto a Rimini al meeting di Cl: polemiche “all'italiana”, troppo spesso scopertamente strumentali, scorrette nell'estrapolare una frase – anzi, una parola addirittura – da un contesto non semplice né semplicistico. E polemiche, tuttavia, dalle quali si capisce chiaramente fino a che punto il dialogo coi cattolici che lei conduce stia toccando dei nervi scoperti.
Avevo detto, testualmente: «non sono venuto per convincervi», e avevo anche detto: «devo fare un giro lungo», perché il tema che mi era stato assegnato – la democrazia è libertà? – è difficile e complesso. Ho ricevuto molti applausi e, immagino e anche spero, molte obiezioni o perplessità o riserve. Il testo era lì, distribuito per onestà fin dal primo momento. In sostanza, ho detto, la mia dottrina liberale è anch'essa in crisi, per una ragione fra tutte: mentre ci ha dato le migliori società libere della storia, essa non prende in considerazione che noi vogliamo non solo società aperte, ma società coese, stabili, virtuose, e questo la dottrina liberale non lo consente. Il liberalismo, in tutte le sue molte varianti, antepone sempre la libertà al bene.
La crisi della dottrina liberale è parallela alla crisi dell'Europa. Le nostre democrazie liberali sono opulente di ricchezza e grasse di benessere, ma povere di valori morali e misere di spiritualità. Il risultato di questa crisi è che in Europa viene meno l'identità, la quale si affievolisce, si diluisce, si disperde a favore dell'individualismo e del multiculturalismo, inteso come lo intendono i suoi teorici europei, e cioè come dottrina che difende non i diritti di libertà dei singoli, ma le comunità anche quando esse nuocciono alla libertà dei singoli. Per questo l'Europa diventa “meticcia” e per questo ho denunciato il meticciato culturale: questa dottrina del meticciato culturale è l'altra faccia della dottrina del relativismo morale. L'una tiene l'altra e tutte e due hanno conseguenze negative.

E, appunto, questo suo discorso ha toccato parecchi nervi.
Si sono aperte le cateratte. Insulti, da “bolso”, sol perché avevo detto le stesse cose che il mio critico ripete da tempo, a “idiota”. Accuse di “razzismo” (compreso quella più sofisticata di razzismo «non nel senso biologico della parola», come ha detto uno) o di difesa della “razza ariana” o di volere “gettare a mare” i bambini nati da coppie di etnie o culture diverse. Ironie, queste sì razziste, del tipo «io sono meticcio, perché sono nato a Reggio Calabria». Accuse di istigazione alla guerra di civiltà, perché avevo sostenuto che contro il terrorismo l'ultima (specificando: «l'importante che sia l'ultima») difesa è la forza. Obiezioni per essermi discostato dalle idee di Benedetto XVI, come se fossi un chierichetto o il segretario del Papa, o come se l'ermeneutica delle idee del Papa fosse prerogativa solo dei miei critici. Meschinerie insolenti, come evocare senza senso i miei poveri defunti genitori. Denuncia di mia supposta scalata dio sa a quale carica. Lezioni – questa è una perla – sul mio “paganesimo”, proprio mentre dicevo che il liberalismo ha bisogno del concetto del bene, e questo concetto, in Europa, deriva in prevalenza dal Dio dei cristiani. Ritirata, metà furba, metà codarda, di chi a Rimini aveva condiviso le mie idee, e poi si è eclissato o si è fatto vivo al telefono.
Ma al peggio non c'è mai fine. Così sono stato accusato di essere ignorante anche sul fatto che pure l'Italia è terra di meticci, e che già la Roma imperiale integrava le regioni conquistate (proprio così: la Roma “imperiale”! Le regioni “conquistate”!). Come se non sapessi quello che si insegna (almeno, ai miei tempi, si insegnava) alle scuole elementari e come se non avessi posto un ben diverso e preciso problema: noi – noi che siamo meticci per razza e per cultura – abbiamo anche una identità culturale, morale e spirituale, meticcia – cioè indistinta, indefinita, vaga, debole – oppure abbiamo o vogliamo avere una identità specifica nostra, in cui riconoscerci e da cui attingere un senso? Che c'entra con questo problema la razza (un concetto, questo di razza, peraltro non solo eticamente inaccettabile, ma scientificamente dubbio)? E che c'entra la purezza della razza, quando si richiama l'attenzione su quale identità spirituale vuole avere oggi l'Europa?
Un alto prelato ha testualmente commentato il mio discorso: «Una persona che viene nel nostro paese a lavorare non vale solo per quanto produce o per quanto lo si paga. Ha la sua identità, la sua cultura, la sua religione. So che tutto questo implicherebbe un discorso di reciprocità: ma non possiamo metterci al livello di quelli che non ti fanno esporre un crocifisso, ti impediscono di girare con una Bibbia o ti incarcerano se ti sorprendono a pregare. Noi questo non possiamo permettercelo». Se un cardinale non si vuole permettere di chiedere il rispetto reciproco, che cosa posso dire? Parce illis, Domine.
Avendo voluto ignorare questi problemi, sono così stato accostato, con illuminante (per chi ha fatto l'accostamento) sfoggio storiografico, a personaggi come Hitler o, più gentilmente, come Charles Maurras. Io, dunque, nazionalista, antiliberale, antisemita, antimoderno, come il capo scomunicato dell'Action française! Io, nazista, razzista, antiebraico, sterminatore, come il fondatore del nazismo! È stato un linciaggio autentico, meschino e vigliacco.

Ma a qualcuno il discorso sarà pure piaciuto…
Sì, per fortuna. Hanno capito benissimo tante persone che mi hanno cercato, chiamato, scritto. Hanno capito benissimo, e sono grato ad entrambi, il presidente della Camera Casini e monsignor Fisichella. Ha capito Marcello Veneziani, attribuendomi però un ruolo che non è il mio, né politicamente (non aspiro alla guida della destra), né intellettualmente (non sono alla ricerca di una dottrina della destra, sono alla ricerca di come emendare quel liberalismo che, almeno a parole, oggi piace a tutti, affinché la crisi della dottrina liberale non aggravi la crisi delle democrazie liberali). Ha capito molto bene l'ambasciatore Biancheri, quando ha detto che il multiculturalismo ha creato, ad esempio in Francia, «trecento aree urbane dove la legge francese è di fatto inapplicata». E ha capito al volo anche Giuliano Ferrara, tanto che si è irritato perché dice le stesse cose che dico io.
La circostanza che queste e altre autorevoli persone che hanno compreso siano così diverse l'una dall'altra, e con posizioni e responsabilità anche tanto diverse, m'induce a ritenere che chi voleva capire poteva capire. E siccome mi picco di parlare chiaro, anche se so che anche chi parla chiaro non è esente da interpretazioni diverse, e inoltre, siccome mi ostino a usare il linguaggio non per alludere e non dire, o per dire cose banali e strappare l'applauso, ritengo che molti di quelli che non hanno capito o non vedano il problema o abbiano preferito non ascoltare, non leggere, non riflettere.
Certo, è più facile scomunicare che discutere. Io invece amo discutere. Le critiche sono il pane del mio nutrimento intellettuale: le avevo anche sollecitate inviando il testo di Rimini a gente che non la pensa come me e della cui competenza e onestà di giudizio mi fido. Ma se le critiche non sono venute e sono piovute solo le scomuniche e gli insulti, allora si è persa un'occasione e non si è fatto un passo avanti. L'occasione l'hanno persa soprattutto Forza Italia e il centrodestra: non avevano, nelle mie parole, una guida, avevano materiale per discutere e magari per sintonizzarsi con quell'opinione pubblica che ora volta loro le spalle sbigottita. Invece sono stati tutti muti come pesci, o hanno preso le distanze per piacere alla gente che piace o hanno strizzato l'occhio perché non sono abituati a pensare e parlar chiaro alla gente. Peccato. Peccato davvero, perché il problema che avevo posto – la crisi morale e spirituale dell'Europa – è ancora lì. E io, non m'importa degli insolenti e mi dispiace per i pigri, continuerò a pensarci su.




Marcello Pera, presidente del Senato della Repubblica, è uno degli esponenti di spicco di Forza Italia. E' presidente onorario della Fondazion Magna Carta.

Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.

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