Ritratto di un irregolare
di Luca Marcozzi
Ideazione di settembre-ottobre 2005

C'è un passo, nel Male oscuro, in cui Giuseppe Berto rievoca l'innocenza perduta attraverso una serena scenetta domestica: certe volte, alla sera, «quando dopo mangiato la mamma non era troppo stanca e noi non troppo assonnati, allora leggeva le poesie, avevamo in casa tre grandi libri con le figure e le poesie del Fusinato e anche i Promessi Sposi, però i Promessi Sposi nessuno li leggeva mentre le poesie del Fusinato erano proprio belle e non per niente mio padre le aveva comprate anche se costavano tanti soldi».

Arnaldo Fusinato è il poeta padovano, noto per le poesie patriottiche, autore del famoso Inno a Venezia («il morbo infuria, / il pan ci manca / sul ponte sventola / bandiera bianca»), ma anche del componimento goliardico Lo studente di Padova, di varie ballate tardoromantiche, come Suor Estella, e anche di due brevi novelle in versi, di argomento speculare, che nel contesto piccolo borghese della famiglia Berto – padre maresciallo dei carabinieri congedatosi per aprire un negozio di cappelli, madre che lo seguiva nelle fiere e nei mercati – avranno avuto lieta accoglienza e pronto uditorio: Il buon operaio, ritratto d'un proletario lieto negli stenti e nelle necessità, e devoto, e Il cattivo operaio, storia di un delinquente anarcoide che, per i suoi malvezzi, è destinato a finire appeso. Basta l'argomento a far capire come esse siano il frutto, più che di un retrivo pedagogismo conservatore, di un illusorio socialismo irenico, vagheggiato dalla piccolissima borghesia alla quale la famiglia Berto apparteneva, benpensante per necessità e forse anche per solidarietà con quelle classi sociali rispetto alle quali non era messa poi troppo meglio, ma assennata per virtù propria, pronta sì a migliorare la propria condizione ma caratterizzata da una ripulsa genetica per ogni avventura e per l'esercizio del potere, servitrice fedele dell'ordine costituito. In questo ambiente nasce Giuseppe Berto, e questa affezione ereditaria al modello sociale da cui proveniva non solo non lo abbandonerà ma, trasformatosi in moderatismo pugnace, si ritroverà, anni dopo, nell'espressione più compiuta del pensiero politico e sociale dello scrittore. Un moderato fin dalla nascita, verrebbe da definirlo, la cui classe sociale, per così dire, si teneva lontana per innata prudenza da rischi che non fossero calcolati, ivi incluse le rivoluzioni. Ad essa il fascismo offrì servita su un piatto d'argento l'avventura dell'impresa d'Africa prima e poi della guerra: sembrava che ci fosse da guadagnare, e Berto non solo vi partecipò, ma ne trasse anche qualche vantaggio, facendo gli esami in divisa e ottenendo la sua brava laurea in lettere (qualche tempo fa, si sarebbe detto che si realizzava il sogno della famiglia piccolo-borghese di avere il figlio “col pezzo di carta”), prima di pagare il fio con una non facile prigionia a Hereford, Texas, assieme ad Alberto Burri, Gaetano Tumiati, Dante Troisi. Se si eccettua la trascurabile pubblicazione a puntate del racconto La colonna Feletti, è proprio in prigionia che Berto inizia a scrivere, così che tutta la sua carriera coincide, sin dall'inizio, con la vita dell'Italia repubblicana. Berto vede nascere l'Italia dal Texas, per sentito dire; scrive un racconto lungo e un romanzo d'impianto realista, Le opere di Dio e Il cielo è rosso, su una famiglia dispersa dall'avanzata americana, e su un bombardamento alleato a Treviso, senza sapere nemmeno come andasse la guerra in Italia, e se quel bombardamento ci fosse stato, o no; e inizia la sua carriera letteraria così, senza alcuno sguardo lieto e progressivo sul mondo che lo circonda. Tutto, anzi, gli sembra un deserto di rovine, il deserto fisico della distruzione causata dalla guerra e il deserto morale che la precede e la segue: affine in questo atteggiamento privo di illusioni – salvo lo stile lì paludato, qui scarnificato – alla Pelle di Malaparte; e, proprio come a Malaparte, a Berto non fu mai perdonata l'indipendenza di giudizio, che si sarebbe espressa in ogni occasione, ma particolarmente con l'intervento più rilevante e compiuto sul piano politico e sociale, il pamphlet Modesta proposta per prevenire, pubblicato nel 1971. La vicenda dello scrittore coincide cronologicamente con quella dell'Italia democratica, la cui più profonda crisi impose a Berto di intervenire, non tanto manifestando il suo pensiero e i suoi fondamenti ideologici, quanto osservando con disincanto ciò che stava avvenendo. Si sentì in dovere, insomma, di spogliare di retorica sia il movimento di contestazione sia la fede nel progresso e nell'uomo nuovo che esso portava con sé, che avevano attratto dalla loro parte tutta l'intellighenzia italiana. Si offrì anche di rivelare, se un lettore attento ne avesse avuto bisogno, l'estrazione borghese e piccolo-borghese del movimento contestatario, la sua assurda pretesa di rappresentare l'avanguardia rivoluzionaria, il suo reale distacco dal popolo; praticamente, Berto scrisse da altre posizioni quel che aveva scritto anche Pasolini all'indomani degli scontri di Valle Giulia, con la differenza che quello di Berto era un discorso spoglio d'ogni piagnucolosa ampollosità, e anzi piuttosto dissacrante. Aggiunse anche, tra le caratteristiche del movimento, il cieco fideismo, la vocazione alla violenza, le affinità col fascismo, e i rischi derivanti dal connubio clerico-marxista che in esso allignava.

Modesta proposta per la rivoluzione borghese
Ai contestatori e a quanti si ispiravano al comunismo – ma anche alla Chiesa – Berto rimproverava un difetto di realismo, per così dire, antropologico, il fatto cioè che le loro proposte e le loro dottrine fossero basate su una pretesa natura dell'uomo che di umano non aveva nulla. Il libretto ebbe una discreta fortuna di pubblico, anche se, come spesso accadeva ai romanzi di Berto, fu stroncato dalla critica, con lui mai benevola, in quanto Berto è sempre stato un isolato, un po' nevrotico, che non ha mai partecipato né delle combriccole letterarie né di quelle accademiche o sociali o politiche, né dei salotti intellettuali. Un quotidiano di sinistra, ricorda Massimo Fini nella prefazione a un'edizione pubblicata da Rizzoli nel 1982, accusò l'autore di aver scritto un «trattatello politico-umoristico che rappresenta una delle pubblicazioni più reazionarie, superficiali e qualunquiste apparse negli ultimi tempi». Qualunquista forse no, anzi per il qualunquismo Berto spende parole di riprovazione, prima di definire con un paradosso «rivoluzione neoqualunquista» la sua proposta di rivoluzione borghese, moderata e conservatrice; ma che fosse un trattato umoristico non lo si può negare: il titolo era tratto da un celeberrimo pamphlet di Jonathan Swift. Oggi, che le cose stanno diversamente e che il pericolo della rivoluzione è scongiurato, che l'ideologia basata sulla fede tutta retorica in un'umanità che non è esattamente come le chiese laiche la descrivevano, cosa resta della Modesta proposta e delle idee politiche di Berto, scrittore irregolare, lontano dalle consorterie e dalle fazioni egemoniche della cultura, ieri come oggi ben allineate e coperte? Scritta con un occhio agli sviluppi politici a essa contemporanei e con l'altro alle vicende universali e alle condotte ricorrenti dell'Italia, il pamphlet può essere caduco per i temi legati al primo di questi aspetti, anche se alcune dissacranti spernacchiature dei “cattivi maestri” sono universali: di Marcuse che aveva incontrato gli studenti berlinesi nel 1967, dice che «l'ingombrante cavaliere dalla triste figura fu in quell'occasione scaricato»; a un Pasolini millenaristico, che sconfinava, da ateo e marxista, negli affari della Chiesa invitando Paolo VI a «compiere il gran rifiuto […] oppure scatenare lo scisma», per trarre le conseguenze del suo messaggio e del suo impegno sociale, faceva notare che «è passato un po' di tempo da quando il Pasolini offrì il suo ammaestramento a Paolo VI, ma ancora il pontefice non s'è risolto a seguirlo, non s'è dimesso né ha optato per la contestazione». Berto ne ha anche per Don Milani, prete «inquieto» e velleitario, il cui progetto pedagogico fu preso sul serio solo per insipienza della pavida Italia, sempre pronta per convenienza o pusillanimità al compromesso cattocomunista ma incapace – oggi come allora, verrebbe da dire –, di affrontare riforme radicali, a partire da quella della scuola: «in una società marxista il libro di Barbiana non sarebbe stato neppure pubblicato, mentre in una società borghese e cosciente sarebbe stato giudicato com'è, dilettantesco e illusorio, utile tutt'al più per denunciare una situazione che ha bisogno di rimedi, ma non proprio di quelli suggeriti. Invece da noi, con una società borghese smarrita tra la paura e l'idiozia, Lettera a una professoressa sembra diventato l'unica base per una discussione seria e costruttiva sulla scuola, il metro secondo il quale i burocrati dei partiti e dei ministeri elargiscono le riforme». Restano invece attuali, e da ripercorrere, le annotazioni di carattere generale, e quelle relative in particolare al popolo italiano. Ne scegliamo una tra le più fulminanti, che Berto, stilista non degli ultimi, pone in chiusa icastica e quasi proverbiale di periodi lunghi e complessi, quasi a creare un massimario politico: «Perciò è difficilissimo trovare un principe che voglia sostenere l'idea della libertà altrimenti che a parole».

Di particolare attualità, poi, si rivelano le considerazioni sulla situazione della Chiesa, scampata, a quanto pare, al delirio progressista degli anni Settanta e capace, a differenza del marxismo cui Berto l'apparigliava, di risollevare le sue sorti, come sembra stia accadendo in questi ultimi tempi, a partire dalla sua specificità, che la rende qualcosa di diverso da ogni istituzione politica e pubblica; la Chiesa o è un'altra cosa rispetto al mondo, o non è, e il nuovo pontificato di Benedetto XVI sembra aver colto questa caratteristica elettiva.

Il poeta dell'Io
Presumo che Berto ne sarebbe stato felice, visto che della Chiesa, che in quegli anni si divideva nell'apertura ai laici e al progresso, scriveva: «La chiesa è una istituzione assolutista, dogmatica, centralizzata, autoritaria, burocratica. Non che queste siano cose molto belle, ma bisogna convincersi che la Chiesa […] o è così, o non è». Appare sì in Berto uno spirito anticonciliare e conservatore, consono alla sua formazione e al suo tradizionalismo («la Chiesa non può essere se non come cercava di tenerla su l'ultimo papa conservatore, Pio XII. Giovanni XXIII, che gli successe per breve tempo, con quattro discorsi alla buona e con la convocazione d'un concilio inconciliante, riuscì a metterla in pasticci dai quali, forse, non si risolleverà mai più») ma assai più notevole è la diffidenza per le scelte non nette, per gli schieramenti di convenienza, le misture e i compromessi, le ingerenze dei laici nella vita ecclesiale e del clero in quella civile, la pastura ideologica che rende tutto sfumato e giustifica ogni intrigo; sulla comunanza fra cristiani dissidenti e progressisti e atei e “antropofagi” alla Pasolini, Berto, di natura incline alla diffidenza, oltre a dire che è ridicolo il laico che pretende di dettar legge alla Chiesa, affermava che «si giunge al sospetto che le cose un po' arrischiate che i cristiani non possono dire per non incorrere in guai, le dica il poeta per conto loro». Anche alla Chiesa, peraltro, è attribuita la sua parte di colpa, perché si accostava, spinta da una natura non dissimile, al marxismo, rischiando di essere corrosa da questo rapporto. Berto non è un cattolico conservatore, né di certo un ateo marxista: è solo un difensore dell'individualità, che ha orrore di ogni Chiesa e ogni fideismo, materialista o metafisico che sia, perché l'autorità religiosa (o comunista, che è lo stesso), ha come ultimo fine quello di «arrivare alla distruzione dell'uomo come ora è, all'annullamento dell'individuo». La semplificazione a cui le burocrazie e gli apparati, dello Stato o della Chiesa, costringono la struttura psichica dell'uomo per i propri fini, è il vero bersaglio di Berto, convinto che «l'Io che pensa, o che soffre, o che anche pretenda di esistere come Io, è incomodo per qualsivoglia regime o sistema». Nella Modesta proposta Berto si scaglia contro la burocrazia contro i partiti, grossi e piccoli, la finzione democratica, che si manifesta con la scelta dei candidati operata dagli apparati di partito con gli accordi che si fanno nei corridoi del palazzo, contro l'ipocrisia parlamentare, il sottogoverno, l'affarismo, la corruzione, gli «intrallazzi»: «intrallazzo è una parola che nei comuni vocabolari di trent'anni fa non si trovava», scrive ancora Berto «mentre figura con bel risalto in quelli più recenti, segno che in fin dei conti la cosa ha preso piede, in questo quarto di secolo di democrazia». Anche i miti vuoti, ma gonfi di retorica, come quello della Resistenza e del lavoro, su cui l'Italia repubblicana si fondava, sono tra i bersagli della Modesta proposta. Alla debolezza dell'Italia come Stato nazionale il potere ha opposto da una parte la superfetazione dei suoi apparati burocratici, dall'altra la retorica: «l'Italia fu fatta e da espressione geografica si trasformò in espressione retorica. Per stare alla bell'e meglio in piedi, cioè, il nostro paese ebbe subito bisogno di appoggiarsi all'esteriorità, alle finzioni alle commozioni, e questo s'ottenne usando, soprattutto, le iniziali maiuscole: Patria, Famiglia, Stato, Popolo, Nazione, Religione, Risorgimento, Fascismo, Resistenza, Scuola, Casa, e via dicendo».

Elogio della libertà
«Quando ci accorgiamo che qualcosa difetta di sostanza, noi la scriviamo con l'iniziale maiuscola, in questo modo conferendole una specie di garanzia immunitaria, che la mette al riparo dal buon senso e dalla critica». Qui Berto, quasi un Michelstaeder per le dame, tocca uno dei punti nodali, civili e filosofici, della modernità: la pervasività morale e sociale, della retorica e dell'infingimento, necessarie sul piano esistenziale a offuscare alcune verità che l'uomo scansa o vela per non provare dolore, e sul piano civile a nascondere il vero volto del potere e a celare i suoi condizionamenti. Denunciare la retorica del potere o quella rivoluzionaria, ancor più roboante, costituì un'operazione di verità rischiosa, immaginiamo, dati i tempi, anche sul piano personale. In particolare, Berto constatò come della Resistenza, nonostante si trattasse di un fenomeno del tutto trascurabile sul piano storico oltre che su quello militare, gli italiani si fossero serviti per insignorirsi di quel riscatto nazionale dal fascismo che l'Italia, in realtà, non aveva mai avuto. Con tutto questo, Berto non concede però spazio né al qualunquismo, né alla sola pars destruens marxista, poiché la democrazia, pur con tutti i suoi difetti – originari e costitutivi, presenti per Berto anche nell'ideale democrazia di Atene, come la corruzione, il potere effettivo distribuito in base al censo, e difetti di genere contingente, quale l'incapacità di adattarsi ai mutamenti sociali ed economici con la stessa rapidità coi quali essi avvengono – non solo è, giusta la massima di Churchill, una forma di governo che non ha alternative se non peggiori, ma anche la sola che può garantire all'individuo la sua specificità di Io, consistente, anzitutto, nella libertà individuale. Allo scrittore e all'intellettuale, poi, la libertà di pensare e di esprimersi è vitale, e solo la democrazia può fornirla, come proprio in apertura di volume Berto ricorda: «Nei miei scritti io mi sono sempre servito di quella libertà, senza mio merito alcuno, mi venne elargita da vincitori stranieri e resistenti italiani alla fine della seconda guerra mondiale»; perciò è sommo interesse dello scrittore e dell'intellettuale difendere la libertà, che è il primo dei suoi strumenti di lavoro, e senza la quale neppure esisterebbe. Nessuna indulgenza, dunque, verso il marxismo e la contestazione rivoluzionaria che si ispirava a quella ideologia, che pretendeva di formare l'uomo nuovo, ma non avrebbe fondato altro che uno Stato burocratico e fortemente autoritario, nel quale i vari contestatori e rivoluzionari del futuro «dovranno mettersi a tramare – assai più faticosamente di quanto non sia possibile fare qui – magari per la rinascita dell'uomo vecchio». Per questo, dunque, fu scritta la Modesta proposta per prevenire, per difendere la libertà individuale e collettiva in un periodo in cui si preparavano, per essa, tempi bui, e per aprire e far aprire gli occhi a chiunque non volesse lasciarsi abbindolare da vuoti proclami e avesse desiderio, al contrario, di usare il ragionamento: «Io ho sempre affermato che non potranno mai essere biasimati abbastanza – così inizia il pamphlet – gli scrittori e in genere gl'intellettuali della generazione precedente la mia i quali, avvicinandosi il fascismo, o non lo osteggiarono in alcun modo, o lo avversarono in modo tanto balordo da favorirlo. […] Ora, siccome presentemente avverto per molti segni che si sta avvicinando un trambusto quanto funesto se non fascismo se non di più, affinché coloro che ne soffriranno non m'incolpino d'essere rimasto a guardare come un allocco e a ponzare come un vile, ecco che m'affretto a dire la mia, nella maniera più piana e meno malinconica possibile». Il «trambusto funesto», in effetti, si stava avvicinando, con gli anni di piombo e col rischio democratico che l'Italia effettivamente corse, col rischio concreto cioè di finire in una dittatura – che fosse del proletariato o dei colonnelli, per Berto, la sostanza non cambiava. Il quadro di adesione di Berto alla forma di governo della democrazia liberale è solo lievemente incrinato da alcune considerazioni relative alla natura particolare dell'Italia, i cui rapporti, per così dire, con questa forma di governo, non sono idilliaci («a noi altri d'Italia il sistema democratico poco si confà»). Le ragioni di questa idiosincrasia sono molteplici: anzitutto la burocrazia, così grande e potente negli anni in cui la Modesta proposta fu scritta da portare lo Stato a sfiorare «la morte per paralisi, il circolo chiuso autoburocratico».

Italia, il paese malato
Il male è noto ancor oggi, e difficile ogni rimedio, per le resistenze degli “apparati forti”, delle corporazioni, delle burocrazie ministeriali, per la difesa – che ciascuna corporazione percepisce come lotta di vita o di morte – di ogni potere particolare, ieri i tassisti, oggi i giudici, domani i professori universitari, dopodomani gli stradini e i coltivatori di poponi. Inoltre, o per compiacere a ciascuna categoria, o per necessità di moltiplicare con gli apparati statali il proprio potere di scambio, l'Italia della prima repubblica, come notava Berto, pur non avendo le grosse necessità di organizzazione che avevano altri paesi più ricchi ed evoluti, era stata feconda e ingegnosa «nell'inventare istituti, enti, aziende, ministeri e pretesti qualsiasi, e in sostanza nel buttar via, insieme ai nostri soldi, la nostra libertà»; e ancora, l'ingegno tutto italiano di spartire le briciole del potere aveva portato a creare governi smisuratamente grandi, sproporzionati per le necessità del paese ma necessari a perpetuare il potere grazie all'attenta distribuzione dei privilegi di casta; alla stessa logica, secondo Berto, rispondeva la recente – nel 1971 – riforma degli enti locali, con la creazione di province e comuni. Un altro dei mali genetici dell'Italia repubblicana, che impediva al nostro paese di provare una sincera adesione per il vivere democratico – e per quanto continuerà a impedirlo? – era secondo Berto la «passività, che spesso diventa complicità, dell'italiano nei confronti di chi gli si vuol mettere sopra: noi non domandiamo se non di essere oppressi». Questo è un punto piuttosto delicato nel pensiero politico di Berto, almeno in quello espresso nella Modesta proposta per prevenire: dal pamphlet, come conseguenza dell'idea per nulla democratica che «il popolo è beota, e non domanda altro che essere oppresso», è completamente assente ogni concessione alle facoltà del popolo di autodeterminarsi, di compiere scelte decisive per il proprio futuro con la partecipazione alla vita democratica per la quale gli italiani proverebbero addirittura «ripugnanza» : uno dei limiti della Modesta proposta è proprio l'assenza del popolo, la cui presenza nel libro si riduce alla concezione della massa che il marxismo, con le sue burocrazie, sfrutta e inganna; col popolo assente dai processi di conduzione dello Stato che dovrebbero riguardarlo, inorridito dalle manifestazioni esteriori dell'esercizio del potere, ma conquistato allo stesso tempo dalle espressioni più retoriche e magniloquenti del potere stesso, risulta debole nel pensiero politico di Berto l'idea di partecipazione democratica, assente per i motivi di cui si è detto, la sfiducia cioè dell'autore nella democrazia rappresentativa dovuta ai suoi difetti costitutivi, e alla pervasività osmotica e impenetrabile degli apparati di potere – non solo statale, ma a tutti i livelli e di tutte le corporazioni – che tendono a perpetuarsi a dispetto del pubblico interesse. Berto individua però la responsabilità di tale indifferenza per la democrazia anche nell'atteggiamento della grande industria, del capitale, di quelli che oggi si definiscono “poteri forti”, che aveva potuto assestarsi senza scossoni nell'Italia postfascista, ma usando il suo potere con ignoranza e superficialità. L'analisi di Berto è valida ancora oggi: nonostante sia proprio il potere economico a nutrire interesse per pretendere dalla politica un funzionamento corretto, nonostante nessuno più del potere economico avesse interesse ad ammodernare lo Stato e a fortificarne le strutture, ebbene proprio il capitale, a detta di Berto, aveva usato il proprio potere – anche di persuasione – per corrompere, arraffare il possibile e subito, vivere di rendite di posizione sicure ma fasulle, e destinate a crollare. In questo aspetto l'analisi di Berto, di stampo vagamente guicciardiniano, il che è singolare per uno che si dichiara seguace di Machiavelli, sembra aver colto nel segno: nelle sue strutture produttive, l'Italia era ed è un sistema privo di strategia, dall'industria sclerotizzata, poco propensa a investire su attività che non fossero quelle consolidate, pochissimo incline a finanziare attività di ricerca che non trovassero immediata applicazione. Grazie a questo atteggiamento di prudenza e di ignavia, ignavia nazionale che accomuna il capitale e il proletariato, il divario con le nazioni tecnologicamente più avanzate si è nel tempo accentuato, cosicché l'Italia continua a basare gran parte delle sue attività industriali sul tessile e sull'industria meccanica, a scarso tasso di innovazione, in preda ai marosi del mercato e della concorrenza. Si tratta, naturalmente, di processi a lungo termine, delle cui conseguenze è ingiusto attribuire la responsabilità a questo o a quel governo; le difficoltà che il sistema economico oggi sconta, sono dovute a processi iniziati trent'anni e più fa, nel periodo cioè, in cui Berto analizzava il rapporto del capitale col potere politico e scriveva, da facile profeta, che gli industriali, in Italia, «vissero con senso di provvisorietà tutti gli eventi». Quanto l'Italia da allora a oggi sia cambiata, e quanto l'analisi che Berto proponeva fosse corretta o non fosse, piuttosto, eccessivamente dominata dal desiderio di includere «le scoperte della psicologia del profondo», alle quali lo scrittore era profondamente legato, in un progetto di analisi sociale, ognuno lo potrà giudicare: è palese e innegabile, però, come su alcuni punti non secondari l'analisi di Berto fosse lucida e penetrante; le sue constatazioni sul rapporto degli italiani con la partecipazione democratica e sul fatto che l'Italia si era trovata per puro caso, per ragioni di politica internazionale indipendenti dalla propria storia e cultura, a diventare uno Stato dall'ordinamento liberale e capitalista; la denuncia della perpetuazione del potere politico grazie alle consorterie e agli apparati; la constatazione dello scarso riguardo che l'ideologia marxista aveva della natura propria dell'uomo, della «scarsa adattabilità biologica dell'uomo al comunismo», e dell'atteggiamento fideistico di tale ideologia; l'osservazione della crisi della Chiesa dovuta alla consorteria con un progressismo corrosivo, e ipocrita quanto solo i radical chic possono essere, sono momenti felici di un'analisi veritiera, lucida, ma soprattutto lungimirante.

Scriveva Massimo Fini che «tutto, o quasi, quello che ha scritto Berto in questo libro si è rivelato puntualmente esatto». A distanza di altri vent'anni e più da allora, possiamo verificare di nuovo le previsioni di Berto, e annoverare tra quelle esatte di Berto, lungi dal volerlo dipingere come un profeta, anche il crollo delle ideologie marxiste, che poteva essere presentito dato il loro fondamento su quelle basi antropologiche illusorie e fasulle che Berto aveva smascherato; il ritorno recente e ancora in corso, che si spera proceda senza incertezze, della Chiesa cattolica alla sua natura specifica, che la rende tanto più unica e immanente quanto più dal mondo è lontana; lo snellimento degli apparati burocratici dello Stato, e della quantità di potere che essi gestivano, sottraendolo ai cittadini (processo in corso, ma di lenta attuazione); il ridimensionamento dei partiti e, con le nuove leggi elettorali, le conseguenti restrizioni alla possibilità di accordi alle spalle degli elettori (sempre presenti, tuttavia, nella liturgia da prima repubblica delle “verifiche”). Anche la «modesta proposta» propriamente detta per prevenire la perdita della libertà, consistente nella nascita di gruppi di pressione democratica – per la loro ideazione Berto si ispira addirittura all'anarchismo – in qualche modo, sembra essersi realizzata, sebbene quando Berto passa dall'analisi alla proposta, appunto, si smarrisce gran parte della sua forza (d'altra parte il libro è stato scritto non per proporre, ma per denunciare). Solo alcuni di quegli ostacoli che impedivano con una vera modernizzazione dell'Italia, una compiuta democrazia e una partecipazione sentita dei cittadini al bene pubblico, sono rimasti ancora operanti: a Berto, se non altro, il merito di aver individuato il bersaglio. Ma nonostante abbia visto giusto in molti campi, a distanza di quasi trent'anni dalla morte di Berto, il “male oscuro” che perseguita i suoi libri e la sua figura, così irregolare nel conformista panorama italiano delle lettere, è ancora vivo. Per anni, il pregiudizio nei suoi confronti è stato certamente di natura politica e ideologica – e la Modesta proposta, in tal senso, ha avuto un peso non indifferente – ma è stato dovuto anche al fatto che un mondo deciso a dare un'immagine di sé placidamente protesa sulla strada del progresso sociale, scientifico e tecnologico, mal poteva sopportare chi ha voluto, con disincanto e amore per la verità, mostrare la strada contraria, prevedere con matematica esattezza il tracollo delle ideologie rivoluzionarie, fare uno sberleffo al trionfo della modernità e, in letteratura, sfidare la fede progressista nel realismo, smascherare le illusioni e le finzioni di ogni retorica, difendere i valori della tradizione e dell'individuo: per intellettuali di tal natura, non allineati e non conformisti, l'ostracismo in vita è il minimo che possa capitare; il peggio, da scongiurare, è la damnatio memoriae.

 

Luca Marcozzi, ricercatore di Letteratura italiana all'Università Roma Tre.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006