La vera storia di Augusto César Sandino
di Alberto Indelicato
Ideazione di settembre-ottobre 2005

Il fronte anti-yankee già formato da Cuba e dal Venezuela si estenderà ulteriormente l'anno prossimo? Probabilmente le speranze di arruolare il presidente brasiliano Luis Inàcio da Silva, detto Lula, ex sindacalista, sono destinate ad essere deluse e lo stesso presidente argentino Néstor Kirchner preferirà non spingere dal terreno finanziario a quello politico la sua opposizione al grande vicino del nord ed alle istituzioni internazionali considerate sue emanazioni. Ma i due caudillos populisti, Hugo Chávez e Fidel Castro, sembrano puntare maggiormente sul Nicaragua, dove proprio l'anno prossimo dovrebbero aver luogo le elezioni presidenziali. Il Nicaragua che è, dopo Haiti, lo Stato più povero del continente americano, ha visto numerosi cambiamenti politici dalla rivoluzione sandinista ad oggi, senza che le misere condizioni della sua popolazione siano migliorate. Nelle elezioni del 2001 – undici anni dopo aver perduto il potere – colui che era stato il capo dei sandinisti Daniel Ortega si era presentato alle elezioni, ma era stato battuto da Enrique Bolanos, che nel quadriennio precedente era stato il vice del presidente Arnoldo Alemán. Questi, arrestato per reati comuni alla fine del 2003, fu rilasciato a seguito di un accordo nel Congresso tra i suoi seguaci e gli oppositori sandinisti. Gli Stati Uniti per protesta sospesero l'aiuto promesso di 49 milioni di dollari. Al processo Alemán fu condannato a venti anni di reclusione per frode, corruzione, malversazione, associazione a delinquere e violazione della legge elettorale. è evidente che, se fosse confermata l'alleanza tra i partigiani di Alemán ed i sandinisti, questi ultimi in cambio della libertà dell'ex presidente riacquisterebbero il potere che, dopo la guerriglia dei contras, avevano perduto con le elezioni del 1990 vinte da Violeta Barrios de Chamorro. Purtroppo la corruzione non è cessata e le condizioni economiche della popolazione sono ulteriormente peggiorate. Benché anche durante il governo sandinista non si fosse verificato nessun miglioramento, i dirigenti del movimento hanno adesso buon gioco a dipingere il loro decennio (1979-1990) come un'epoca se non di grandi progressi di grandi speranze. Le loro prospettive di tornare al potere aumenterebbero indubbiamente se essi rinunciassero anche a presentare i vecchi esponenti. La formula del successo potrebbe essere: gli antichi ideali portati da uomini nuovi. Gli antichi ideali sono quelli piuttosto confusi evocati dal nome di Sandino, che conserva un certo fascino nelle masse popolari e non solo in quelle del Nicaragua. Ma chi fu veramente quel Sandino la cui statua, grandiosa come quella del raffinato poeta nicaraguegno Rubén Dario, sovrasta la capitale?

La storia di Sandino, come d'altronde quella del suo paese, è legata alle vicende di un canale Atlantico-Pacifico che non fu mai costruito. Fu quel progetto che portò a due occupazioni del Nicaragua. Per opporsi alla seconda di esse, Sandino organizzò una guerriglia che sarebbe durata molti anni. Secondo gli Stati Uniti un nuovo canale sarebbe stato reso necessario dal fatto che quello di Panama, già in costruzione (l'apertura informale del canale avvenne nel 1914, l'inaugurazione ufficiale nel 1920), alla lunga si sarebbe rivelato insufficiente per l'aumentato volume di traffico previsto. Quello da costruire in Nicaragua sarebbe stato di facile realizzazione perché avrebbe potuto sfruttare per un lungo tratto il corso del fiume San Luìs, che dal Mar dei Caraibi giunge sino al Lago Nicaragua, il più grande dell'America Centrale, ed è separato dal Pacifico da un breve istmo. Una volta costruito, il canale avrebbe abbreviato la distanza da San Francisco a New York di ben 850 chilometri. Con il trattato Bryan-Chamorro (1914) il governo nordamericano ottenne un'opzione per costruire quel canale versando allo Stato nicaraguegno tre milioni di dollari. è dubbio che negli Stati Uniti ci fosse realmente l'intenzione di sfruttare l'opzione; molto più verosimilmente a Washington si era voluta impedire l'eventualità che un paese terzo o un gruppo affaristico straniero realizzasse un'opera che avrebbe potuto fare concorrenza al canale di Panama. Ma principalmente il trattato dava agli Stati Uniti il diritto di proteggere militarmente il golfo di Fonseca sulla costa del Pacifico.

L'esigenza di difendere la base di Fonseca si aggiungeva a quella di proteggere i notevoli interessi già esistentidegli investitori nordamericani. Ne derivarono gli interventi militari del grande vicino del nord nella situazione interna del Nicaragua. In effetti, il paese era in balia di continui disordini, lotte civili e colpi di Stato che mettevano in pericolo gli investimenti degli imprenditori statunitensi. Washington aveva già assunto il controllo delle dogane e della banca centrale, nonché la gestione delle ferrovie nicaraguegne, quale garanzia degli ingenti investimenti effettuati. Già nel 1911 dei marines erano intervenuti a favore del governo minacciato da un tentativo di rivolta, repressa la quale essi erano ripartiti. Ritornarono l'anno seguente chiamati dal presidente Adolfo Diaz e rimasero nel paese, che godette così di un periodo di relativo ordine sino al 1925. Fu possibile anche tenere in maniera abbastanza corretta nuove elezioni presidenziali, che videro la vittoria di un binomio formato da un presidente conservatore e da un vicepresidente liberale. I due partiti erano tradizionalmente rivali e si erano combattuti in passato (ed avrebbero continuato a combattersi più tardi) con le armi piuttosto che con sistemi democratici. L'elezione dei loro due esponenti faceva sperare in tempi migliori ed invece, poco dopo la partenza dei marines, scoppiò una nuova rivolta, guidata da quell'Emiliano Chamorro, dirigente conservatore, che in qualità di ministro degli Affari Esteri aveva firmato il trattato del 1914. Probabilmente, nel proclamarsi presidente, egli aveva contato su quel “merito” per sperare nell'appoggio o almeno nella neutralità benevola degli Stati Uniti. Tuttavia Washington non riconobbe la sua autoinvestitura, né il suo governo ed intervenne nuovamente facendo sbarcare i marines a protezione della vita e dei beni dei suoi cittadini. Intanto contro Chamorro si era sviluppata la guerriglia dei liberali estromessi dal potere e di altri esponenti conservatori tra cui l'ex presidente Adolfo Diaz, che godeva delle simpatie nordamericane. Alla fine l'usurpatore fu costretto a dimettersi, ma la lotta continuò tra i pretendenti alla sua successione e gli Stati Uniti dovettero inviare nuove truppe. Fu durante quella confusa guerra civile che tra le forze dei liberali si fece notare un giovane che sino allora era stato completamente sconosciuto ai vari capi banda e capi fazione dei due partiti principali: Augusto Nicolàs Calderón Sandino. Figlio naturale di un agiato proprietario terriero e di una sua contadina indiana, Margherita Calderón, Sandino era nato nel 1895 a Niquinohomo, un villaggio del centro del Nicaragua. Accolto nella casa del padre, non sembra che avesse sofferto molto della sua situazione familiare, peraltro non rara in America Centrale. D'altronde, in seguito, il padre lo aveva riconosciuto dandogli il suo nome e facendogli seguire studi regolari in una scuola commerciale. Nella biblioteca paterna il ragazzo aveva letto le biografie degli eroi delle lotte d'indipendenza delle colonie latino-americane dalla Spagna ed anche probabilmente quelle di altre grandi figure storiche come George Washington ed Ottaviano Augusto. Nel 1923 aveva attentato alla vita di un personaggio locale, Dagoberto Rivas. Benché questi fosse un esponente del partito conservatore, mentre la famiglia Sandino parteggiava notoriamente per quello liberale, non sembra che il gesto fosse originato da ragioni politiche. Per sottrarsi al processo per tentato omicidio, il giovane Sandino si allontanò dal villaggio e cominciò una peregrinazione sia in Nicaragua che nei paesi vicini, dove esercitò numerose attività quasi sempre alle dipendenze di società nord-americane. Lavorò in miniere d'oro e piantagioni di zucchero e banane in Honduras e quindi quale impiegato in una società petrolifera in Guatemala e finalmente si stabilì a Tampico in Messico, dove fu assunto dalla Standard Oil. Fu allora che venne in contatto con varie dottrine rivendicative, dall'anti-imperialismo all'anarchismo, al sindacalismo rivoluzionario, al comunismo. In quel periodo tuttavia egli sembrò maggiormente attratto da altre teorie: s'iscrisse ad una loggia massonica, aderì a gruppi teosofici e spiritualisti e il fervore mistico lo portò ad aderire alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Da questo miscuglio di credenze religiose e filosofiche si sviluppò probabilmente la sua esaltazione per l'indigenismo, quasi una divinizzazione dei popoli di sangue indio (a cui apparteneva per via della madre), popoli “martiri” perché oppressi dai bianchi, spagnoli prima e gringos o yankees dopo. Nel 1926, avendo appreso che il suo reato era caduto in prescrizione, decise di tornare al suo paese, dove però la sua mancata vittima, diventata nel frattempo deputato, aveva manifestato l'intenzione di punirlo personalmente. A scanso di complicazioni, egli si trasferì in un'altra provincia, dove lavorò ancora in una miniera d'oro e sempre alle dipendenze di una società statunitense.

Questa volta egli si mostrò molto più interessato alle lotte sindacali e, nelle sue conversazioni con i minatori, si accorse di avere un indubbio ascendente su di loro. Li esortò allora ad azioni di rivendicazione ed organizzò degli scioperi. Di fronte alle reazioni dei proprietari e della polizia del presidente Chamorro, dovette abbandonare la miniera e con un primo gruppo di una trentina di fedelissimi iniziò una sua guerriglia personale. Il gran passo era stato fatto. Egli faceva parte ormai – senza che vi fossero state delle intese preliminari – del fronte liberale. I capi liberali diffidavano di questo nuovo venuto sia per la sua giovane età, sia per le sue idee sociali, sia perché ne indovinavano l'ambizione. Egli dal canto suo si rendeva conto che i suoi alleati avevano scopi diversi dai suoi e probabilmente sarebbero stati disposti a scendere a compromessi non soltanto con i conservatori, ma anche con i marines nord-americani preoccupati di mantenere in qualunque modo l'ordine nel paese.

Non si sbagliava. Quando il più importante dei “generali” lo informò di aver raggiunto con il colonnello Henry Stimson, capo dei marines, un accordo in base al quale i liberali avrebbero avuto il controllo di sei dipartimenti se avessero consegnato le armi, Sandino finse di accettare e, raggruppati tutti i suoi uomini – ormai diverse centinaia – si ritirò nelle regioni del nord per continuare da solo la sua lotta contro i conservatori. Quanto ai nord-americani, egli fece sapere di non escludere un accordo con loro purché s'impegnassero a nominare un governatore militare al di sopra delle parti, che assicurasse la correttezza di nuove elezioni. Da queste proposte si vede come i sentimenti di Sandino nei confronti del “grande fratello del nord”, come del resto quelli di molti latino-americani, fossero complessi e contraddittori. In Sandino vi era da un canto l'insofferenza ed anche l'odio per quegli Stati Uniti che s'ingerivano nelle questioni interne degli altri paesi del continente e, dall'altro, l'ammirazione per la loro potenza, non disgiunta dalla speranza che essa fosse impiegata per riportare la normalità nella vita politica del suo paese. è inutile aggiungere che anche Sandino per “normalità” intendeva una sistemazione in cui egli stesso avesse una posizione preminente, se non egemonica.

La guerriglia contro gli americani
Le sue proposte però non furono prese in nessuna considerazione da Stimson e, di fronte a questo silenzio, Sandino decise di proclamarsi unica autorità legittima nella regione del nord dove operava. Per cominciare cambiò nome al capoluogo della zona, El Jìcaro, che si sarebbe chiamato ormai Ciudad Sandino. Nel luglio di quel 1928 i suoi uomini attaccarono i reparti di marines stazionati assieme a delle truppe governative nella cittadina di Ocotal nella provincia settentrionale di Nueva Segovia. Fu la prima grande battaglia dell'esercito di Sandino che, dopo diverse ore di fuoco e dopo aver perduto almeno trecento uomini, fu costretto a ritirarsi, anche perché in aiuto dei marines e dei governativi erano intervenuti aerei americani per bombardare gli attaccanti. Malgrado il suo esito sfortunato, la battaglia di Ocotal rappresentò un grande successo per Sandino, il cui nome divenne famoso in tutta l'America Latina: Davide aveva sfidato Golia. Si crearono comitati di appoggio e di solidarietà a cui aderirono le massime personalità politiche e artistiche del continente. La poetessa cilena Gabriela Mistral entusiasta propose la creazione di una “lega ispanica” che combattesse in Nicaragua agli ordini di Sandino. Questi ritenne quel momento di grande popolarità il più indicato per lanciare un appello politico diretto a tutti i popoli del continente. In esso egli si poneva come rappresentante non più soltanto dei cittadini del Nicaragua, ma di tutte le popolazioni di sangue indio, alle quali si proclamava unito da un legame mistico. C'era in lui certamente un elemento di megalomania che si sviluppava ogni giorno di più. In quegli stessi giorni, infatti, avendo letto probabilmente una biografia di Giulio Cesare, egli modificò, o meglio completò, il suo nome: non più “Augusto” ma “Augusto César”. Avrebbe creato in seguito e cercato di imporre un nuovo calendario rivoluzionario, il cui primo giorno sarebbe stato il 4 ottobre 1912, data di un primo atto di resistenza dei nicaraguegni contro i nordamericani. Dopo la battaglia di Ocotal egli abbandonò ogni residua speranza di ottenerne l'appoggio o almeno la neutralità nella sua lotta contro i conservatori e contro i capi liberali suoi rivali. D'altro canto riteneva di rappresentare un punto di riferimento per tutti coloro che nel continente si battevano contro le ingerenze economiche politiche e militari di Washington. E, malgrado anche nei successivi scontri le sue bande non riuscissero ad avere la meglio, l'eco della guerriglia si diffondeva ed attirava nuovi adepti pure da altri paesi del centro e del Sud America.

Intanto erano state indette le elezioni. Sembrava evidente che il vincitore sarebbe stato quel generale Moncada del quale Sandino stesso era stato alleato. Ma proprio in previsione di quella vittoria, che egli ormai non avrebbe condiviso, Sandino organizzò una serie di azioni di disturbo per impedire o almeno per ostacolare la consultazione elettorale nel territorio dove agiva il suo esercito ed addirittura formò una Giunta, che avrebbe dovuto contrapporsi al futuro governo. Egli stesso sarebbe stato non soltanto il capo, ma anche la massima autorità militare della Giunta con il titolo che si era attribuito di Generalissimo.

Tuttavia le elezioni si svolsero regolarmente sotto la supervisione delle autorità statunitensi e con il risultato previsto: il generale Moncada aveva facilmente battuto il candidato conservatore. Sandino a questo punto ritenne di dover allargare i suoi orizzonti al di là del Nicaragua e scrisse al presidente del Messico, Emilio Portes Gil, per proporgli una sua visita, durante la quale avrebbe discusso con lui «ampi progetti che avrebbero riguardato l'avvenire di tutta l'America Latina». Il presidente messicano si guardò bene dal rispondere, per cui Sandino si rivolse nonostante tutto al presidente Moncada, che egli sino allora si era rifiutato di riconoscere. Moncada, secondo la sua proposta, avrebbe dovuto proclamare immediatamente l'Unione delle repubbliche centro-americane. Questo tuttavia sarebbe stato soltanto un primo passo. Il successivo doveva consistere nella convocazione di una conferenza panamericana per costituire la Federazione Indio-Latino-Americana. Tutte queste idee non ebbero però alcuna eco nelle personalità ufficiali, a cui erano formalmente rivolte, mentre la sua guerriglia contro i marines nordamericani e la popolarità di cui egli continuava a godere avevano attirato l'attenzione del Comintern. Nell'estate del 1928 il suo sesto Congresso mandò un «messaggio fraterno all'eroico esercito di emancipazione nazionale del generale Sandino» e poco dopo il primo Congresso anti-imperialista, convocato a Francoforte sul Meno e presieduto da Henri Barbusse, invitò il rappresentante di Sandino, José Constantino Gonzalez, a prendere la parola, tra gli applausi dei presenti, di fronte a personalità come Jawaharlal Nehru e la moglie di Sun Yat-sen. Questa informò un Congresso entusiasta che in Cina era stato dato il nome di “divisione Sandino” ad un'unità dell'esercito del Kuo-min-tang.

In Nicaragua però il contingente statunitense dei marines era stato rafforzato ed aveva inferto severe perdite alle forze sandiniste, che dal canto loro reagivano sia attaccando con improvvisi colpi di mano, sia danneggiando e distruggendo le proprietà dei cittadini nordamericani, nella convinzione o nella speranza che questi ultimi facessero pressione sul loro governo perché ritirasse le sue truppe dal paese. E per ottenere che analoghe pressioni fossero esercitate dai paesi europei, venivano minacciate anche la vita ed i beni dei loro cittadini residenti in Nicaragua. In linea generale però i gruppi sandinisti si tenevano lontani dalle città preferendo agire nei villaggi, dove potevano contare sull'aiuto o almeno sulla neutralità dei contadini. Negli Stati Uniti buona parte dell'opinione pubblica premeva perché si ponesse fine alla presenza dei marines nel paese latino-americano. Sarebbe stato più saggio, si sosteneva anche in alcuni ambienti dell'amministrazione, addestrare una polizia locale per mantenere l'ordine e far rispettare le proprietà degli statunitensi. Nel 1929 la stessa amministrazione del presidente Herbert Hoover riteneva che, anche per migliorare i rapporti con i paesi del sud, fosse giunto il momento di ritirare i militari che vi stazionavano. Ma lo stesso governo di Managua ed i capi dei marines mettevano in guardia contro il pericolo di disordini maggiori e peggiori, per cui a Washington si concluse che era preferibile attendere che la situazione si chiarisse, vale a dire che la guerriglia fosse sconfitta definitivamente. A questo scopo fu creato un apposito esercito di volontari nicaraguegni, la Guardia Nazionale, agli ordini del capo dei marines. Dal canto suo Sandino continuava a disegnare grandi scenari da realizzare in un futuro prossimo. Anzitutto chiese che, con il ritiro dei marines, fosse anche abrogato il trattato Bryan-Chamorro. Inoltre invitò lo stesso Moncada a proclamare l'Unione delle Repubbliche Centro-Americane quale primo passo verso una Federazione continentale ed Antillana Indio-Latino-Americana. Si rivolse anche direttamente a tutti i presidenti delle repubbliche del continente per esortarli ad appoggiare un suo “Piano per la realizzazione del supremo sogno di Bolivar”, vale a dire l'unificazione in un solo organismo statale di tutti i paesi americani di lingua spagnola. Un'apposita conferenza sarebbe dovuta essere convocata a Buenos Aires dal presidente argentino Hipòlito Yrigoyen con la partecipazione dello stesso Sandino in rappresentanza del Nicaragua. Non ricevette alcuna risposta, ma gli giunse invece l'invito a lungo atteso e desiderato di recarsi in Messico. Qui lo attendeva un'altra delusione: il presidente messicano non aveva nessuna fretta e forse nessun desiderio di riceverlo. Fu ospitato, ed in certo modo relegato, nella città di Merida nello Yucatan, dove riceveva uno stipendio e l'assicurazione di tanto in tanto che il giorno dell'udienza del presidente Emilio Portes Gil sarebbe giunto presto. Attorno a lui intanto collaboratori, fiancheggiatori ed amici più o meno disinteressati intessevano piani e trame per tirarlo dalla loro parte. I rappresentanti dell'Apra, l'Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana del peruviano Haya de la Torre, lo spingevano a proclamare una rivolta sociale continentale; altri gli proponevano di formare un fronte anti-imperialista interclassista; altri ancora, tra cui il comunista salvadoregno Farabundo Martì, lo spingevano a rafforzare i suoi rapporti con il Comintern. Egli tuttavia rifiutò una alleanza troppo stretta con i comunisti, nel timore di diventare un loro strumento.

La rottura con i comunisti
Ne seguì una polemica aspra con accuse di tradimento e a Sandino fu rinfacciato di aver accettato delle somme che il comitato “Giù le mani dal Nicaragua”, organizzato dal partito comunista messicano, aveva raccolto per finanziare un suo giro propagandistico in Europa e di essersi invece fatto corrompere dagli Stati Uniti. Il viaggio in Europa avrebbe dovuto far sì che il suo prestigio si riverberasse anche sul Comintern, mentre egli, secondo le accuse, si sarebbe fatto dare altre somme dagli Stati Uniti impegnandosi a restare in Messico ed a ordinare ai suoi seguaci di sospendere la guerriglia. Se forse è vero che Sandino non aveva alcuna intenzione di lasciare l'America, l'accusa di aver ricevuto denaro dagli Stati Uniti era certamente una calunnia sia perché egli ormai pensava di rientrare in patria, sia perché anche in sua assenza i suoi uomini in Nicaragua continuavano ad attaccare i marines. In conclusione Farabundo Martì, autore della macchinazione, fu espulso dalla cerchia dei “consiglieri” e la rottura di Sandino con i comunisti fu definitivamente consumata. All'inizio del 1930 dopo essere stato finalmente ricevuto dal presidente messicano, senza però che dall'incontro uscisse nulla di concreto, egli decise di ritornare in patria per riprendere personalmente la guida della lotta. In giugno, ferito abbastanza gravemente in uno scontro con le truppe governative, profittò della convalescenza per elaborare una sua cosmogonia, nella quale egli stesso e la giovane moglie Bianca avevano una parte fondamentale. Forse anche per impulso di quel suo zelo religioso – di una religione, certo, molto personale – oltre che dell'entusiasmo che sapeva creare nei seguaci, la sua guerriglia ebbe allora notevoli successi. Le sue truppe, enormemente aumentate anche perché rinforzate da volontari venuti da vari paesi latino-americani, britannici, tedeschi e qualche statunitense, riuscirono, infatti, a controllare l'intera regione settentrionale del Nicaragua ad eccezione dei centri urbani. Certo, egli non poté impedire – come si era ripromesso di fare – che si svolgessero le elezioni parlamentari, ma l'offensiva che la Guardia Nazionale scatenò contro di lui subito dopo si concluse ancora una volta con un insuccesso. Poiché le elezioni si erano svolte quasi normalmente, vale a dire senza scontri violenti tra i seguaci dei due partiti, quello conservatore e quello liberale, e, poiché quest'ultimo aveva vinto in maniera inequivocabile, Washington tornò anche a causa della grande crisi economica a manifestare l'intenzione di ritirare al più presto i suoi marines. I capi dei due partiti però insistettero perché essi restassero sino all'elezione di un nuovo presidente della Repubblica, prevista per la fine del 1932, e continuassero a collaborare alla repressione della guerriglia.

«Scelto dalla Giustizia Divina»
A seguito dei suoi successi, Sandino si era convinto che la sua lotta godeva di appoggi soprannaturali e si era addirittura detto certo che egli ed i suoi uomini erano stati «scelti dalla Giustizia Divina per compiere le sue opere». Il terremoto che nel marzo del 1931 distrusse Managua fu da lui interpretato come un presagio a suo favore, un segno che il cielo approvava la sua ribellione e che alla fine egli sarebbe stato vincitore. Aveva anche delle visioni e faceva persino previsioni che trascendevano la sua stessa lotta politica, come quando si disse certo che a breve termine sarebbe scoppiata una guerra mondiale durante la quale sarebbero morti due terzi di tutta l'umanità. Queste speculazioni non gli impedivano di formulare altri più concreti progetti come un'Unione delle Repubbliche centro-americane o di esortare alla rivolta intere grandi città come Leòn, che però si guardò bene dall'aderire al suo appello. All'avvicinarsi della data delle elezioni presidenziali Sandino formulò un progetto ancora più ambizioso: impedire il loro svolgimento lanciando una campagna di boicottaggio, scatenare quindi un'offensiva per conquistare tutto il Nicaragua ed imporre un presidente scelto da lui. Mentre la sua guerriglia otteneva spesso dei successi, le iniziative politiche di Sandino si risolvevano quasi sempre in un nulla di fatto, anche perché erano troppo ambiziose e non tenevano conto del reale rapporto di forze.

La vittoria di Sacasa
Le elezioni presidenziali, infatti, ebbero regolarmente luogo sotto la supervisione, richiesta da entrambi i partiti, dei marines nordamericani e si risolsero con la vittoria di Juan Bautista Sacasa. Era questi il candidato di quel partito liberale per il quale – o almeno accanto al quale – Sandino aveva cominciato la sua guerriglia e da cui si era allontanato sia per ragioni ideologiche che per rivalità personali. Ancor prima che Sacasa prendesse possesso della sua carica, egli, facendo buon viso a cattivo gioco, fece sapere di essere disposto a cessare la sua ribellione se fossero state accettate alcune sue condizioni: nomina di persone da lui indicate alle cariche di ministro della guerra, delle Finanze e degli Affari Esteri e rimpatrio immediato delle truppe statunitensi (ma il ritiro era già deciso e sarebbe avvenuto il 2 gennaio 1933); il suo esercito doveva costituire il grosso delle forze armate nazionali; il futuro governo avrebbe dovuto appoggiare la sua proposta di una conferenza per un'Unione latino-americana e riconoscere il diritto del popolo a costringere eventualmente il presidente della Repubblica alle dimissioni.

Benché non desiderasse altro che ristabilire la pace, Sacasa non poteva ovviamente accettare quelle condizioni e, appena in possesso delle sue funzioni, lanciò un'energica offensiva contro i ribelli. La controguerriglia dopo la partenza dei marines nordamericani era ormai condotta dalla sola Guardia Nazionale, a capo della quale era stato appena nominato un uomo deciso ed ambizioso che aveva anch'egli combattuto qualche anno prima nelle fila dei liberali: Anastasio “Tacho” Somoza Debayle. Nato nel 1896 in un villaggio non lontano da Niquinohomo, egli aveva frequentato la stessa scuola di Sandino nella città di Granata. Sebbene non molto agiato, il padre lo aveva mandato a studiare a Philadelphia. Rientrato in patria Somoza Debayle aveva tentato vari mestieri senza riuscire a trovare la sua strada. Gliela fornì infine la guerra civile, alla quale partecipò schierandosi dalla parte dei liberali e più particolarmente del generale Moncada, suo lontano parente. Moncada appena eletto presidente della Repubblica, lo aveva nominato viceministro e quindi ministro degli Affari Esteri. Il successore di Moncada, Sacasa (che era zio di sua moglie) lo pose a capo della Guardia Nazionale, carica alla quale egli era certamente più interessato. La sua offensiva fu immediata ed energica. I rivoltosi furono circondati e ridotti alla difensiva nel giro di pochi giorni. Alla fine di gennaio Sandino fece sapere di essere disposto a trattare la pace a condizioni meno irrealistiche di quelle poste precedentemente. Dopo l'incontro nel suo accampamento con gli emissari del presidente della Repubblica, un aereo messo a disposizione da questi lo condusse con alcuni dei suoi a Managua. Nella capitale, malgrado il governo avesse cercato di mantenere il segreto sul suo arrivo, lo attendeva un'accoglienza trionfale. Lungo la strada si era riunita una notevole folla che lo applaudiva come se fosse un vincitore e quella manifestazione lo convinse che egli poteva avere ancora un peso nella vita politica del Nicaragua. Il capo della Guardia Nazionale lo prese sulla sua autovettura ufficiale per condurlo al palazzo presidenziale, dove il capo dei rivoltosi ed il capo dello Stato si abbracciarono dichiarando che da buoni fratelli non avrebbero più condotto una guerra civile. Fu stilato un protocollo, quasi un trattato di pace, che fu firmato da entrambi e dal rappresentante del partito conservatore. Nel documento Sandino proclamava la fine della «crociata per la libertà» ed il presidente rendeva omaggio al suo «atteggiamento nobile e patriottico». Si passava quindi ad aspetti più concreti: Sandino riconosceva l'autorità di Sacasa, che concedeva l'amnistia a tutti i suoi seguaci che avessero commesso reati politici o comuni nei sei anni precedenti; l'esercito sandinista sarebbe stato gradualmente sciolto ed in ogni caso avrebbe dovuto consegnare le armi entro il 13 febbraio, ma ai suoi uomini sarebbe stata assegnata una superficie di 36.000 chilometri quadrati nella regione del nord perché vi creassero delle colonie agricole. Inoltre notevoli finanziamenti avrebbero dovuto permettere la realizzazione nello stesso territorio di grandi opere pubbliche. Ciò che Sandino progettava era una sorta di comune che servisse da esempio per tutta l'umanità. Pur se aveva rinunciato alla lotta armata, non aveva infatti abbandonato i suoi grandi disegni di nuovi sistemi politici e sociali. In quel suo territorio, dove egli avrebbe conservato il diritto di tenere una specie di guardia armata di cento uomini, egli pensava di accogliere i rivoluzionari di tutto il mondo che avessero voluto collaborare al suo progetto.

Sembrò dunque che l'ora della pace fosse finalmente arrivata. I marines erano partiti all'inizio dell'anno e il presidente Sacasa, eletto regolarmente, era riconosciuto anche dagli oppositori nonché dai sandinisti, che deponevano le armi e si davano ad attività produttive. Ma non tutti si considerarono soddisfatti: i comunisti ritennero che la rinuncia alla guerriglia fosse una prova ulteriore del tradimento del loro ex compagno di strada, tanto più che questi in una lettera inviata al New York Herald Tribune manifestò formalmente sentimenti d'amicizia per il popolo degli Stati Uniti, al quale fece anche giungere le sue condoglianze per le vittime che erano state provocate dalla sua lotta negli anni precedenti. Alcuni organi di stampa nordamericani a loro volta pubblicarono profili lusinghieri di Augusto César Sandino, “combattente per la libertà, erede di Simòn Bolivar e di José de San Martìn”. Tuttavia Sandino non era affatto convinto che gli Stati Uniti sotto la nuova presidenza di Franklin Delano Roosevelt avessero veramente rinunciato ad esercitare la loro egemonia sugli Stati latino-americani, anzi sospettava che a Washington si stesse preparando un piano per soggiogare tutta l'America Centrale e vedeva nella Guardia Nazionale ed in Anastasio Somoza Debayle degli strumenti per la realizzazione di tale progetto. In effetti, erano noti i rapporti molto stretti di Somoza Debayle con l'ambasciata nordamericana ed il fatto che egli avesse giudicato una prova di debolezza da parte del presidente Sacasa la concessione a Sandino di un territorio che in certo modo era sottratto alla sovranità dello Stato, con una forza armata che sfuggiva alla sua autorità di tutore dell'ordine. In un primo momento Sandino aveva pensato di entrare nella lotta politica con una sua formazione, il “Partido Autonomista”, ma vi aveva rinunciato su richiesta di Sacasa, nei confronti del quale egli continuava a manifestare sentimenti di lealtà e di rispetto pur rivendicando la sua indipendenza. Si andavano deteriorando invece i rapporti con Somoza Debayle e la sua Guardia Nazionale, con la quale gli uomini di Sandino ebbero ripetutamente degli scontri, ufficialmente definiti «incidenti causati da malintesi». Ma Sandino chiese che gli fossero concesse nuove armi per difendere il suo territorio e Somoza Debayle, oltre a rifiutargliele, gli ricordò che in base agli accordi egli era tenuto a consegnare una parte di quelle che ancora deteneva. Alla fine Sandino decise di rivolgersi direttamente al presidente Sacasa per denunciare l'atteggiamento ostile della Guardia Nazionale, “un corpo armato incostituzionale”, il cui capo – a suo avviso – stava preparando un colpo di Stato. Proprio per questo, fece capire, egli non avrebbe consegnato le armi dei suoi uomini.

È singolare il fatto che lo stesso giorno 16 febbraio 1934, ad un anno esatto da quello in cui Sandino si era recato a Managua per concludere la pace col presidente Sacasa, egli lanciasse un ennesimo manifesto per proclamare l'Unione delle Repubbliche centro-americane, nominare vari ministri di tale inesistente Unione e dichiararsi “Suprema autorità morale dell'America Centrale”. Come sempre, egli da un canto agiva nella realtà e dall'altro inseguiva i suoi sogni senza rendersi conto della loro inconsistenza. Il 18 febbraio incontrò il presidente, che insistette perché egli si attenesse agli accordi ed i suoi seguaci consegnassero le armi, condizione che Sandino non poteva accettare – tale fu la sua risposta – sia perché temeva che la Guardia Nazionale scatenasse una campagna contro il suo territorio, sia perché convinto che gli Stati Uniti «progettavano di impadronirsene» ed egli doveva essere in grado di difendersi. Alla fine Sacasa, pur insistendo sulla necessità che tutti rispettassero il trattato di pace civile, gli promise, per venire incontro alle sue preoccupazioni, che entro pochi mesi avrebbe ridotto gli effettivi della Guardia Nazionale e nominato un suo amico, il generale Horacio Portocarrero, alla carica di delegato generale dei territori settentrionali dove si trovavano le colonie agricole dei sandinisti, che così non avrebbero dovuto temere ingerenze della Guardia Nazionale.

Queste misure avrebbero diminuito sensibilmente il potere e l'autorità di Anastasio Somoza Debayle che, appena informato, convocò i suoi ufficiali per chieder loro se fossero d'accordo per l'adozione di una “soluzione definitiva” del problema sandinista. Tutti i presenti si dichiararono d'accordo e, per dimostrare che assumevano congiuntamente la responsabilità dell'azione, sottoscrissero un documento dal titolo ambizioso ma chiarissimo: “La morte di Cesare”, con il quale assumevano il solenne impegno di uccidere quella sera stessa il ribelle ed i suoi principali collaboratori.

L'assassinio di Cesare
Restava da decidere come procedere per mettere ad esecuzione quella condanna. Si sapeva che Sandino sarebbe ripartito il giorno seguente per il nord, ma che quella stessa sera sarebbe andato nuovamente dal presidente, che l'aveva invitato a cenare con lui. Sarebbe stata quella l'ultima ma anche la più favorevole occasione per eseguire la condanna. Sandino ed i suoi amici furono, infatti, arrestati all'uscita del palazzo presidenziale e condotti sul campo d'aviazione, dove furono uccisi con varie raffiche di mitragliatrice. Il giorno seguente la Guardia Nazionale attaccò i territori delle colonie agricole sandiniste uccidendo una gran parte dei membri e disperdendo tutti gli altri. Il presidente Sacasa non ritenne di dover prendere dei provvedimenti nei confronti di Anastasio Somoza Debayle.

Quello di Sandino fu un assassinio senza misteri ed in certo modo prevedibile. Ciò che maggiormente colpisce in quell'uomo è la sua personalità, certamente diversa e forse più complessa ed interessante da quella tramandata dai suoi ammiratori. Sensibile alle suggestioni della storia, nella quale cercava dei modelli per la sua azione, facilmente affascinato dalle teorie metafisiche e religiose più diverse, che abbracciò in vari momenti della sua breve vita, convinto di essere stato chiamato a compiere delle missioni soprannaturali, diviso tra la mitizzazione dell'indigenismo e l'esaltazione dei caratteri latini ed ispanici dei popoli del centro e del sud America, dotato di indubbie qualità carismatiche, egli appare privo di senso politico ed alla fine della sua parabola stranamente ingenuo. Come il suo avversario Anastasio Somoza Debayle, politico meno affascinante ma più pratico, egli mostrò spesso mancanza di scrupoli ed in qualche occasione una certa crudeltà.

La morte di Sandino suscitò un'enorme impressione in tutto il continente americano e molti partiti rivoluzionari si richiamarono negli anni seguenti al suo esempio, cercando di impadronirsi della sua eredità ideale per quanto confusa e contraddittoria. Seguì un periodo di eclisse della sua figura, che tornò ad essere evocata negli anni della lotta di Fidel Castro contro il dittatore di Cuba Fulgencio Batista e negli anni '80 nel suo Nicaragua. Come spesso avviene, la complessa figura di Sandino fu ridotta a due sole dimensioni: quella del “nemico degli yankees” e quella del “combattente della libertà”. Quest'ultima qualifica difficilmente gli può essere riconosciuta, anche se – come si è visto – egli aveva rifiutato di associarsi ai comunisti.

Due anni dopo la sua morte Anastasio Somoza Debayle destituì il presidente Sacasa e ne prese il posto, che mantenne per vent'anni sino a quando anch'egli fu ucciso a Panama da un oppositore, il giovane poeta Rigoberto López Pérez. La “dinastia” Somoza Debayle continuò a governare sino al 1979, quando un altro Anastasio Somoza Debayle fu anch'egli cacciato (dai sandinisti) e successivamente ucciso in Paraguay. Sarebbe però troppo facile parlare di una nemesi, data l'estrema violenza endemica della lotta politica e degli odii personali in Nicaragua durante tutto il secolo XX, violenza e odii che rendevano del tutto normali siffatti rendimenti di conti.

 


Alberto Indelicato, storico e saggista, già ambasciatore.

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