Le scorie del Novecento
di Giuseppe De Bellis
Ideazione di settembre-ottobre 2005

A Belfast le buone notizie si confondono sempre con le cattive. Non si sa mai, in Irlanda del Nord. Non si sa se una stagione delle marce senza incidenti sia un bene o un male, oppure se l'ennesimo morto può essere l'ultimo o quello che apre una nuova serie di omicidi, violenze e paura. È così che Belfast è andata avanti per quarant'anni. È così che ora sa che l'annuncio dell'Ira non cambia molto: dicono che l'esercito vuole disarmare, ma questo non significa che la violenza sia finita. Forse gli irlandesi se lo sono sentiti dire troppo spesso che il futuro sarebbe stato differente. Forse si sono stancati di sentire che per la pace ci vuole tempo e fatica, ma poi arriva; forse trentasei anni dall'inizio dei troubles sono abbastanza per pensare che questa volta non sia diversa dalle altre. Forse è tutto questo e qualcos'altro che fa pensare che in fondo il Gattopardo abita anche a Belfast e Derry, ad Armagh e Cavan. Divisi, sempre: cattolici da una parte, protestanti dall'altra. Armi, nascondigli, rifugi, agguati, attacchi, rappresaglie. Funerali. Tanti, troppi. Potrà finire tutto questo ora, anzi è già finito da un pezzo. Ma non cambia il resto, lo strato di diffidenza reciproca, di timore dell'altro. Odio. Ecco questo c'è ancora e ci sarà in una terra senza più guerra, ma solo sull'orlo di una pace vera. È quasi ridicolo pensare che il disarmo dell'Ira modifichi i sentimenti. Quel documento è soltanto la conferma di quello che si vede quando arrivi in Ulster adesso. E anche se non basta è il caso di accontentarsi.

A Belfast ora che il mondo intero ha pompato l'annuncio del disarmo, vivono esattamente come il giorno prima della resa dell'Ira. Perché loro sapevano che in fondo era tutto previsto. Lo si sapeva dal 1994, perché allora era già successo: le operazioni “militari” ufficiali dell'Esercito sono finite il 31 agosto di undici anni fa, ma adesso non lo ricorda nessuno fuori dalle Sei Contee. Fa comodo poter dire che il 2005 è stato l'anno della svolta. Fa comodo, ma è sbagliato. Se un cambiamento c'è stato è quello degli anni '90, quello che ha modificato la faccia ma non il cuore dell'Irlanda del Nord. Quella dove oggi avanzano i giovani dalla faccia seria. Gente come John e Martin, tassisti in servizio all'aeroporto internazionale che incontri quando arrivi dall'Italia per vedere come è messa adesso la regione più complicata d'Europa. Hanno il viso di Patrick, 23 anni, il Virgilio che accompagna lo straniero nei gironi di questa città-purgatorio strana e paradossale, dove oggi la guerra civile è un ricordo di cui vergognarsi, ma anche una possibilità non del tutto esclusa: «Non vogliamo tornare al passato, ma speriamo che il passato non ritorni da noi». E ogni tanto ritorna, nonostante l'annuncio dell'Ira: lo scorso luglio, durante le marce orangiste. Risse, scontri, qualcuno sbattuto dentro. Poi a Ballymena i protestanti hanno incendiato alcune case dei cattolici. E ancora il 23 agosto a Belfast: bombe molotov, pietre e spranghe con i cattolici e gli unionisti a battagliare all'incrocio tra Ardoyne Road e Alliance Avenue. Tensione. La dimostrazione che comunque niente è semplice e si fa fatica a dimenticare. Non si abbattono le differenze. Come non crollano i muri che tagliano ancora Belfast, anche se non ci sono più i troubles. All'epoca le barriere erano necessarie, ma inutili: si moriva lo stesso. Adesso sono necessarie ancora, ma la gente le chiama peace-lines. La più importante corre lungo Cupar street, zona occidentale della città. Qui il quartiere di Falls, roccaforte cattolica. Al di là Shankill, feudo degli ultralealisti, gli hooligan protestanti. Cemento e rete metallica, con una porta al centro: il passaggio da una parte all'altra. Di giorno è sempre aperto. I ragazzi di Belfast l'attraversano senza terrore, ma con lo sguardo basso.

Una lunga storia di conflitti e divisioni
Ecco perché l'Ulster non ci crede: va avanti, sperando. Non pensa che la sua storia sarà mai fatta di tranquillità: s'immagina un destino migliore, ma non definitivamente bello. Può pensare che non ci saranno più bombe, ma non che il gene dell'Ira si estingua. L'Esercito esiste ed esisterà. Rimarrà buono perché gli conviene, perché anche il più folle dei militanti sa che nel 2005 la questione irlandese è marginale. E allora si parla di un nuovo inizio, che però è soltanto la ripresa di un cammino già cominciato e interrotto nel 2001, dopo le speranze tradite del 1998. Si riparte con delle elezioni fondamentali appena concluse. Si riparte da una volontà di Londra e Dublino di mettere in riga gli ultracattolici e gli ultraprotestanti del Nord. Si riparte da una mossa di buona volontà fatta da Tony Blair sei mesi fa, quando ha chiesto ufficialmente scusa alle famiglie Conlon, Maguire e Hill per l'episodio di Guildford, quando l'Ira uccise con una bomba cinque persone e vennero accusati ingiustamente loro, Gerry Conlon e Paul Hill. Erano da poco arrivati da Belfast ed abitavano in una comune hippy a Londra. Dopo sette giorni di isolamento, tra maltrattamenti e minacce di morte, i due firmano false confessioni e in prigione finirono anche due altri loro amici. La stampa li chiamava i quattro di Guildford: furono tutti condannati all'ergastolo per degli attentati che non avevano mai fatto.

Qualche settimana dopo, accusati di favoreggiamento e detenzione di esplosivo, furono arrestati sette membri delle famiglie Conlon e Maguire, fra i quali Giuseppe Conlon, il padre di Gerry, morto in prigione. Fu condannato a cinque anni di prigione anche un ragazzino appena quattordicenne, figlio di Anne Maguire, la zia di Gerry che prese quattordici anni. Alcuni avevano già finito di scontare la pena quando nel 1989 (quindici anni dopo le condanne), la Corte d'Appello finalmente riconobbe la loro innocenza grazie all'impegno dei loro legali e di un vasto movimento di opinione pubblica. Dentro erano finiti senza un briciolo di prove. Ne erano usciti solo dopo quella battaglia incredibile che Jim Sheridan ha raccontato in Nel nome del Padre. Blair, davanti al Parlamento, ha chiesto perdono per l'errore, ha ammesso che quella legge che permetteva di incarcerare chiunque, anche solo per un sospetto, era abominevole: «Sono molto spiacente che abbiano patito tanta sofferenza ed ingiustizia. E per questo oggi chiedo loro scusa. Meritano di essere completamente e pubblicamente scagionati».

Si riparte soprattutto dalla gente che, anche se non ci crede fino in fondo, s'è stancata di vivere perennemente in bilico tra la pace e la guerra. Non ne possono più gli irlandesi delle sei contee del nord di una battaglia strisciante che alla fine sfociava nella criminalità comune. E allora forse non è un caso che se c'è un punto da cui partire è proprio una morte, una di quelle che prima non sapevi mai se fossero l'ultima o la prima di una nuova serie. Quella di Robert McCartney, accoltellato al cuore in un bar, lui cattolico ucciso da altri cattolici davanti a settanta testimoni omertosi. Ci sono stati centinaia di McCartney negli anni bui dei troubles. All'epoca venivano tollerati, adesso no. Quell'accoltellamento e il suo strascico di interrogatori di gente che sapeva e non parlava erano l'Irlanda vecchia. La battaglia delle sorelle e della fidanzata di Robert sono la nuova. Hanno combattuto, si sono esposte, ciascuna in prima persona. Sono state minacciate e hanno resistito. In sei contro il passato. Sei donne, e questa è l'anomalia vera, il termometro della situazione. Perché le signore di Belfast prima erano allineate e coperte, sempre e comunque dalla parte dei paramilitari. Erano quelle che sbattevano i mestoli contro le pentole o i bidoni della spazzatura per avvisare i ragazzi dell'Ira che stavano arrivando gli inglesi. Erano le custodi dei segreti, delle confessioni. Sapevano tutto e non parlavano. Adesso in Ulster le donne alzano la voce. Le sorelle McCartney hanno sfondato un cancello dal quale sono entrate tutte le altre stanche del silenzio e della paura. Hanno protestato. Per quattro mesi queste signore hanno messo a ferro e fuoco il mondo politico e sociale di Belfast. Era il 30 gennaio il giorno dell'omicidio. Era il primo giugno quando la polizia è riuscita ad arrestare due persone con l'accusa di essere stati i killer di Robert. Due uomini dell'Ira, due cattolici, incarcerati per la pressione di gente che in teoria starebbe dalla loro stessa parte. La svolta è qui, e in quello che quell'omicidio ha rappresentato nei mesi successivi. Perché il caso McCartney in se stesso varrebbe zero o forse anche meno, ma è arrivato nel momento giusto, ha trovato spazio in tv e sui giornali fino a entrare nel dibattito sul processo di pace: a inizio febbraio uscirono le prime voci sui potenziali assassini ed erano tutti appartenenti all'Ira che in teoria avrebbe dovuto osservare un cessate-il-fuoco. Soprattutto, la morte di Robert ha oltrepassato le frontiere dell'Irlanda del Nord, quando le sorelle McCartney hanno arruolato nella loro campagna il presidente americano George W. Bush, e poi anche il Parlamento europeo. Le pressioni hanno messo in crisi il Sinn Fein: Gerry Adams è crollato, ha invitato le donne al congresso annuale del partito, con l'aria di chi non sapeva come risolvere una situazione complicata. Loro sono rimaste impassibili: non hanno accettato le scuse, non hanno voluto sentire parole di conforto o di sdegno. Hanno cercato solo i responsabili. Così hanno costretto lo stesso Adams a sospendere dodici membri del partito e a chiedere all'Ira di espellere tre dei suoi. Un sintomo. Perché in quel momento s'è capito che la maggioranza dei cattolici nell'Irlanda del Nord vuole non solo il disarmo, ma anche lo scioglimento dell'Esercito. Un sondaggio, commissionato dal Belfast Telegraph e da Bbc Newsnight poco prima del voto del 5 maggio scorso, dice che la gente dell'Ulster non vuole più avere paura di incrociare qualcuno e pensare che sia il nemico. Il 60 per cento dei cattolici ed il 44 per cento degli elettori del Sinn Fein pensano che l'Ira debba scomparire, e il 70 per cento, compresi il 59 per cento di quanti hanno votato Sinn Fein, credono che dovrebbe liberarsi di tutte le sue armi. Numeri. Percentuali. Umori. Il popolo nordirlandese dice che gli ultracattolici sono sprofondati, tra la fine del 2004 e l'inizio del 2005, nella crisi più profonda della loro storia. In quel periodo Adams e l'intero vertice del partito hanno avuto contro non solo i rivali protestanti, ma anche il governo di Londra, quello “amico” di Dublino, persino la comunità irlandese Usa.

Ma il popolo non sostiene più la battaglia fondamentalista
Ma è il popolo che pesa di più. È quello che vuole una vita normale, o almeno una cosa che alla normalità ci si avvicini. Ecco perché l'Ira annuncia il disarmo: perché il substrato di fondamentalismo gli si è sbriciolato sotto i piedi. Tanti piccoli detonatori hanno tolto all'Esercito le fondamenta. Tanti piccoli McCartney, persone normali prima conniventi e solidali, oggi esausti di vivere nel terrore. Loro vogliono che anche Derry, Armagh e il resto dell'Irlanda del Nord sia tutto come il centro di Belfast. Un'altra città: Victoria street è una piccola Londra: vetrine, negozi, pub. Tutto nuovo, tutto diverso. Niente barricate. Ci sono i poliziotti, sì. Ma adesso anche loro si mettono in posa per il turista di turno che gli chiede la cortesia. Persino l'hotel Europa è perfetto: negli anni degli scontri ogni settimana veniva colpito da un attentato, tanto da conquistarsi il primato di albergo più bombardato d'Europa. Accanto c'è il pub Crowne. A tutti quelli che passano viene raccontata sempre la stessa storia: «È di una coppia mista, lui cattolico, lei protestante. Lui ha accettato di chiamarlo così, solo a condizione che potesse mettere una bandiera inglese come zerbino: così chiunque entri deve calpestarla». Ora non c'è più. Qui dentro la sera c'è differenza: i cattolici da una parte, i protestanti dall'altra. Ma non ci sono casi McCartney. Si vive. Quello che la gente d'Irlanda vorrebbe dovunque.

Gerry Adams ha capito. È una persona intelligente: ha aspettato il momento giusto per la sua svolta personale. Ha aspettato che Tony Blair indicesse ufficialmente le elezioni del Regno Unito, ha aspettato che le polemiche sulla copertura politica degli assassini di Robert McCartney cominciassero un po' a scemare, ha aspettato che all'interno dell'Irish republican army nascesse la fronda contro i più violenti. Poi ha parlato: «L'Ira deve abbandonare la lotta armata. La nostra battaglia ha raggiunto un punto di svolta: vi chiedo di unirvi a me nell'approfittare di questo momento, di intensificare gli sforzi per ricostruire il processo di pace». Era una posizione opposta rispetto a quella di qualche mese prima, quando disse che «l'Ira non c'entra, qualunque cosa faccia non intaccherà il nostro lavoro verso la pace». Ha cambiato idea, Gerry, con una dichiarazione politica che sapeva tanto di un uomo con le spalle al muro, diviso tra un passato da terrorista e un presente da leader di un partito in crisi. Ma era l'unica strada che lui e il Sinn Fein avevano per tentare di tornare a contare sul serio nella trattative del processo di pace. Perché allora, così come erano messi, non erano credibili: in qualsiasi parte del mondo non c'è nessun capo di Stato pronto a fare da padrino a un partito che non denuncia i terroristi e gli assassini, che sa chi sono, li espelle dall'organizzazione, ma non li consegna alla polizia. Adams voleva Bush. Voleva che fosse lui il promotore di una road map all'irlandese. Il presidente Usa, ovvero l'amico e l'alleato di Blair che invece è avversario tenace ma corretto del Sinn Fein: George avrebbe dovuto chiedere a Tony di ascoltare le richieste di Gerry. Nella testa di Adams, Bush era il mediatore perfetto, in una situazione imperfetta. L'uomo della Casa Bianca gli ha voltato le spalle, quando ha visto in Adams l'incapacità di tenere a bada i fremiti dell'Ira che non uccide più i protestanti, ma ammazza in un bar un cattolico davanti a decine persone, anche loro cattoliche. Centoquaranta occhi e neppure una testimonianza. Nell'omertà più becera, Adams non aveva avuto la forza e il coraggio di prendere i responsabili e farli punire. Alla fine la punizione l'ha avuta lui, da Bush: nessun leader del Sinn Fein ospite della Casa Bianca nel giorno di San Patrizio, lo stesso Gerry ritenuto dal presidente «poco gradito sul territorio americano».

La mossa americana ha dato la spinta al leader del partito ultracattolico per portarlo ad aprire la bocca e, per la prima volta nella vita, a dare uno schiaffo diretto, pesante e pubblico all'Ira. L'unica chance che aveva Adams se l'è giocata alla grande. L'uomo con le spalle al muro ha capovolto la situazione. Perché quell'invito all'Esercito, deciso e senza vie di fuga, gli ha salvato la carriera politica, l'ha rimesso in corsa. È stato lo scatto che gli ha permesso di smarcarsi dal peso ingombrante dei suoi legami con i paramilitari. Aveva paura che l'Ira rovinasse tutto quello che lui è riuscito a fare in vent'anni di lotta politica, nei due decenni che l'anno visto passare dalla teoria del “fucile in una mano e una scheda elettorale nell'altra”, a quella dell'unica possibilità racchiusa nelle urne. Sbattere la porta in faccia alla violenza era quello che gli chiedevano i suoi elettori. Non lo sapeva, Adams. L'ha scoperto il 5 maggio quando dalle cabine è venuto fuori un risultato che neanche lui si aspettava: cinque seggi al Parlamento di Londra, uno in più rispetto al turno precedente. Nel suo collegio, a West Belfast, Gerry ha aumentato di sei punti percentuali il distacco dal candidato arrivato secondo: nel 2001 s'era fermato al 64 per cento, stavolta ha toccato il 70 per cento. L'elezione che poteva metterlo al buoi per sempre è stata un trionfo. E tutto per una sola uscita giusta, quella che contava.

Ha vinto lui, ha stravinto il suo avversario peggiore: il leader ultraprotestante Ian Paisley. È l'uomo forte di Belfast, adesso: il suo Dup ha raddoppiato sia i voti (dal 18 per cento al 34 per cento) sia i seggi (da 5 a 9). Il reverendo fedele alla Corona e all'Union Jack è stato raccontato come l'unico leader dell'Europa democratica ad aver fondato un partito regionale. La retorica lo ha portato alla metà dei seggi delle sue circoscrizioni. Nemico giurato dei cattolici, dell'indipendentismo, di tutto quello che abbia il bianco il verde e l'arancione, oggi è l'uomo di punta del maggior partito dell'Ulster. A 79 anni, Paisley lo scorso 5 maggio ha fatto il pieno: il suo gruppo estremista e confessionale, il Democratic unionist party, ha praticamente cancellato il partito dell'establishment protestante nordirlandese, l'Ulster unionist party (Uup), tanto che il suo avversario, il moderato David Trimble, premio Nobel per la pace, ha perso il seggio a vantaggio del Dup ed è stato costretto a dare le dimissioni da leader dell'Uup, che ora conta un solo parlamentare.

Il risiko della politica
A Belfast, il leader dei lealisti più puri è chiamato Big Ian, per via di quella statura imponente che fa sembrare piccola anche una persona normale. Paisley è sulla scena politica da cinquant'anni, durante i quali più volte è stato dato per spacciato. Altre volte ha sfiorato il successo vero. Sempre comunque è stato il principale nemico del processo di pace. Per lui non esiste nessuna possibilità di mediazione: al diavolo ogni ipotesi di accordo sul federalismo, all'inferno ogni avvicinamento a quei “papisti” dell'Eire, la repubblica del Sud. Nel 1951, appena venticinquenne, fondò una chiesa propria, la Free presbyterian church, perché trovava la già austera Chiesa presbiteriana (dalle origini calviniste scozzesi, come quasi tutti i protestanti dell'Ulster) troppo arrendevole per i suoi gusti. Nel 1963 debuttò sulla scena pubblica britannica organizzando una manifestazione a Belfast per protestare contro la bandiera britannica a mezz'asta in segno di lutto per la morte di Papa Giovanni XXIII. «In alto la nostra sacra bandiera!» gridò ai fedelissimi Orangemen con la bombetta: «Tanto quello già brucia all'inferno!». La giornata finì male, con violenti scontri di piazza tra cattolici e protestanti. Paisley ce l'ha da sempre con «Roma dannata»: nel 1965 fu arrestato in piazza San Pietro mentre vendeva la Bibbia in inglese nella storica traduzione di re Giacomo (una sorta di santo graal degli ultrà protestanti), inveendo contro il Papa proprio sotto la sua finestra («Basta con l'Anticristo romano») e definendo la Chiesa cattolica «the Whore of Babylon» (la prostituta di Babilonia), secondo la trita definizione calvinista.

Eletto per la prima volta nel 1970 al parlamento di Westminster (nel quale il suo Dup è appena diventato il quarto partito, con 9 seggi), parlamentare europeo dal 1979 (ha raccolto il più alto numero di preferenze in Europa), ha sempre definito Strasburgo «la sposa dell'Anticristo», vedendo nel progetto dell'Unione Europea un «pericoloso complotto cattolico per distruggere il protestantesimo». Lui dice di essersi fatto eleggere perché ha una missione: «Dio mi ha comandato di andare fra i papisti e cialtroni in quel luogo dannato». E per sottolineare la sua presenza, durante il discorso al Parlamento di Strasburgo di Papa Wojtyla nel 1988, Paisley si alzò in piedi per denunciarlo come l'Anticristo: venne estromesso dall'aula, ancora urlante, dai deputati indignati. Detto anche “Dottor no” per l'ossessione di far fallire tutti i tentativi di trovare una soluzione per l'Ulster, nel 1985 arrivò a denunciare Margaret Thatcher quale “vergognosa traditrice” per aver firmato l'accordo anglo-irlandese. Del resto, nonostante la sua ostentata lealtà alla corona e alla sovrana (disprezza invece la Chiesa anglicana, definita «una banda di molli e ottusi, ormai inebetiti dall'Anticristo romano»), la regina Elisabetta II è molto attenta a non riceverlo.

Non farà mai concessioni al Sinn Fein, Paisley. Ecco la brutta notizia che in Irlanda non si sa mai potrebbe anche diventare una buona. Dipende dalla prospettiva. Ed ecco l'unica cosa che l'annuncio della smilitarizzazione dell'Ira cambia. La prospettiva: con Adams schiacciato sul pacifismo e sulla volontà di trovare un accordo, con la minaccia dell'Esercito annullata, il peso della riuscita o del fallimento del processo di pace è tutto di Paisley e del suo Dup. Non se lo immaginava, mister Ian, che ora deve fare lui i conti con Peter Hain, il nuovo ministro britannico per l'Irlanda del Nord, che senza neppure aspettare l'insediamento ufficiale del governo, si è messo al lavoro per compiere la missione impossibile di rilanciare le istituzioni politiche della provincia. Hain, uno dei più fedeli alleati di Tony Blair, ex attivista contro l'apartheid in Sudafrica, ha subito ha spiegato la sua strategia: «Il solo modo per fare progressi è riportare i partiti al tavolo nei negoziati, ricostituire e far funzionare l'Assemblea dell'Irlanda del Nord e mettere fine alla criminalità e alle attività paramilitari». Sa benissimo, il ministro, che riportare i partiti al tavolo delle trattative è un obiettivo non a portata di mano. Il voto per le politiche, così come l'elezione nel novembre del 2003 della nuova assemblea fantasma di Belfast (non si è mai insediata) hanno fatto registrare la marginalizzazione dei partiti moderati e premiato quelli più radicali. Comunque il nuovo ministro non ha perso tempo. Si è insediato a palazzo di Stormont e al primo giorno di lavoro ha ricevuto una dopo l'altra le delegazioni dei partiti per un giro di consultazioni. Il suo primo problema è convincere proprio “Big Ian” a negoziare direttamente con il Sinn Fein e con Adams. A dicembre dello scorso anno un accordo sembrava vicino. Poi il reverendo ha ricominciato con i suoi soliti capricci: ha accusato i repubblicani di attività criminali, li ha insultati, e si è tornati alla casella numero uno. Ora che Paisley può avere le prove della distruzione dell'arsenale delle armi dell'Ira, fare un atto di buona volontà tocca a lui. E alla gente. In fondo a Belfast la politica l'ha sempre fatta la strada e se chi la abita decide di lasciarla tranquilla ci riesce. Basta capire che quella non è la pace.

 


Giuseppe De Bellis, giornalista de Il Giornale, è autore di reportage e inchieste dall'Italia e dall'estero. E' un esperto della questione nord-irlandese.

(c) Ideazione.com (2006)
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