Non è vero che le vicende politiche italiane stiano ripetendo, a
parti invertite, quel che accadde cinque anni fa in preparazione della campagna
elettorale del 2001. L'elemento che obiettivamente si ripete è la
tendenza elettorale che sembra inarrestabile; uguale è pure l'atteggiamento
degli elettori che si comportano quasi avessero già deciso come votare
con un anno di anticipo e perciò osservano e valutano i fenomeni
che si stanno verificando – alcuni, quelli finanziari, per vari aspetti
inquietanti – come fossero ininfluenti sulla scelta della maggioranza e
del governo.
Questo dato indica la profondità della crisi che investe il polo
moderato, un aggregato ormai di ex dirigenti di ex partiti, rimasti ancorati
al loro passato ed incapaci di costruire il futuro: saremmo dovuti tutti
diventare una “cosa” nuova e diversa rispetto a quel che eravamo stati e
ancora ci riconosciamo indicandoci con riferimento ai vecchi partiti nei
quali abbiamo militato sino alla data della loro scomparsa. Dopo il trionfo
elettorale il centrodestra si è “seduto”, ha smarrito per quattro
anni l'iniziativa politica, ha sperato di poter governare azionando un po'
meglio dei predecessori i meccanismi della gestione pubblica, mentre molti
di questi andavano rinnovati radicalmente. Il risultato è la delusione
di quanti avevano scommesso sulla capacità di Berlusconi di modernizzare
l'Italia: uno stato d'animo che gli elettori hanno trasferito nell'urna,
assumendo via via atteggiamenti più drastici, passando cioè
dall'astensione alla sfiducia vera e propria. Nessuno si attendeva che l'Italia
divenisse all'improvviso un paese dallo sviluppo equilibrato fra tante intemperie
internazionali; però dal centrodestra gli italiani si attendevano
che il paese compisse un balzo in avanti nei settori che fanno guadagnare
punti sul fronte dell'efficienza e della modernità. La rabbia degli
elettori si sta esprimendo da oltre due anni in tutti i significativi momenti
nei quali sono chiamati ad esprimersi: nelle elezioni europee, poi in quelle
regionali ed anche nelle occasioni di rinnovo dei sindaci e dei presidenti
delle province. L'andamento è stato univoco: il centrodestra ha registrato
puntualmente cocenti sconfitte.
Nell'area moderata non si è manifestato, nonostante l'assordante
imperversare dei segnali di pericolo, un moto di reazione. È invece
accaduto che gli elettori abbiano trasferito la loro delusione agli eletti,
i quali notoriamente vengono colti dal panico quando per i più all'orizzonte
si profila l'insuccesso, la perdita di ruolo e di potere. Questa è
l'analisi – essenziale e senza indulgenze – dello stato dell'arte politica
nel campo moderato. L'orientamento a votare a sinistra, che emerge chiaramente
dalle ultime consultazioni, non esprime tanto il giudizio negativo su quattro
anni di governo che si sta svolgendo in corso di eventi che hanno già
significativamente cambiato la faccia del mondo; nessuno immagina che, mutando
il colore della maggioranza, l'Italia inverta miracolosamente la rotta dal
declino allo sviluppo: il giudizio è grave sul piano strettamente
politico e scaturisce dalla disperata constatazione che le speranze di cambiamento
sono morte.
Il centrodestra non è una coalizione fra le tante che si sono alternate
nella storia d'Italia. Non è la somma di ex Dc, più ex Psi,
più ex Msi, più ex partitini centristi, più la Lega,
unico partito a non aver cambiato nome e simbolo. È la forza che
nel 1994 irruppe sulla scena politica del paese e lo strappò all'ineluttabile
destino comunista, gli restituì il fervore della cultura liberale,
espresse la determinazione ad uscire dalla crisi della politica, mettendo
in cantiere una riforma costituzionale che desse vigore alle istituzioni
svilite da cinquant'anni di partitocrazia. È giusto perciò
che gli elettori oggi chiedano il conto e che siano esigenti nel valutare
il risultato.
Se però l'esito delle elezioni regionali del 2000 provocò
la caduta di D'Alema e portò alla ribalta del centrosinistra Amato,
considerato da tutti bravo e perdente, adesso previsioni e sondaggi catastrofici
stanno provocando sussulti dentro la Casa delle Libertà. Allora i
Ds elessero Rutelli agnello sacrificale e si dispersero lungo la penisola
alla ricerca di garanzie di sopravvivenze personali: Veltroni si candidò
al Campidoglio, D'Alema si rifugiò nel collegio di Gallipoli, Occhetto
cercò ospitalità a Cosenza. Ora nell'area in difficoltà
nessuno vuol mollare il ruolo: Berlusconi si proclama candidato-premier
e accusa di tradimento chiunque lo contrasta, Fini e Casini restano delfini
un po' appesantiti dagli anni, tanto è vero che il secondo gradirebbe
essere chiamato “balena”, che almeno rievoca i fasti della Dc. Però
nessuno dà ad intendere d'essere disposto a fare passi indietro,
ad eccezione di Fini che è giunto alla volata finale della legislatura
in obiettive condizioni di debolezza, tanto è vero che dagli alleati
centristi giungono segnali aggressivi di restituzione di An al ruolo autonomo
di forza schierata a destra. Qualcosa di più insidioso della vecchia
ipotesi cossighiana “distinti e distanti”, esercitazione politologica senza
fortuna di anni recenti.
Qualcosa quindi si muove nell'area di centrodestra. Innanzitutto Berlusconi,
dopo aver dato per troppo tempo la sensazione di una grave sottovalutazione
degli eventi elettorali, ha preso l'iniziativa gettando sul tavolo del dibattito
l'ipotesi del partito unico. Non è il coniglio tratto dal cilindro
alla vigilia di una campagna elettorale caricata dall'esigenza di recuperare
i consensi perduti; il partito unico è il punto di arrivo della organizzazione
della politica dentro il sistema bipolare. È un fatto organizzativo,
che stabilisce i modi di stare insieme, definisce come si selezionano le
classi dirigenti e si definiscono i programmi, come la politica esce dai
laboratori e va fra la gente, coinvolgendola nella partecipazione democratica.
Il ritardo nella organizzazione dell'area moderata, attraversata da culture
diverse e tutte riconducibili alla radice della libertà, va imputata
alla responsabilità primaria di Berlusconi, che non a caso oggi più
degli altri sta pagando le conseguenze: la Casa delle Libertà ed
in particolare Forza Italia sono rimaste sospese tra novità e nostalgia,
la condizione ideale per non andare né avanti né indietro
e diventare preda della paralisi. Cioè della crisi. Recuperare quando
la situazione è troppo degradata è un miracolo che in politica
non si realizza mai. Ed infatti Berlusconi, che pure passa per un esperto
della materia, questa volta non ce l'ha fatta. Inoltre, quando un progetto
non esprime il disegno elaborato da una classe dirigente consapevole e viene
posto peraltro in un momento sbagliato (la prossimità della campagna
elettorale introduce elementi fuorvianti di sopravvivenza personale che
appesantiscono il dibattito, non lo agevolano), il rischio è che
perda la ragione e la forza. È andata così per il partito
unico, rinviato ormai a dopo le elezioni, meglio all'esito delle elezioni.
Di positivo resta il fermento che ha mobilitato fondazioni e riviste di
area. Ma una cosa è scrivere e parlare di politica, altra cosa è
fare politica. Non si può invocare il partito unico, che è
il mezzo attraverso il quale si esprime e si realizza il sistema bipolare,
e contemporaneamente dichiararsi nostalgici del proporzionale. È
un insensato ricorso alla formula della tela di Penelope, notoriamente un
espediente per guadagnare tempo. La Casa delle Libertà il tempo lo
ha perduto, con il primo risultato di perdere nel frattempo gli elettori.
Bloccato il progetto del partito unico, del quale Berlusconi sarebbe stato
il leader naturale, è venuta alla ribalta l'ipotesi del “partito
di centro”, del quale protagonista altrettanto naturale si propone Casini.
Il presidente della Camera si muove con atteggiamento prudente, consono
al ruolo istituzionale. Ci pensa Follini a tenere alto il tono della conflittualità
interna, facendosi carico della posizione di antagonista del protagonismo
berlusconiano. Il ruolo è difficile da svolgere, atteso che per qualche
tempo egli è stato anche vicepremier (e dunque ha condiviso l'attività
del governo) e che il premier ha la tendenza a trasferire le polemiche sul
piano personale. Però Follini è stato irremovibile e lo si
può indicare come l'affossatore del partito unico. Non asseconda
l'idea di Berlusconi non solo perché ritiene che il partito unico
sarebbe congeniale al rafforzamento dell'antagonista interno, ma anche perchè
non lo individua come il mezzo per realizzare il suo disegno strategico.
Follini non accetta come immodificabili gli equilibri che risalgono al 1994.
Allora era un giovane dirigente Dc che colse per tempo i segnali di decadenza
del suo partito. Tracciò in vari saggi un'analisi lucida degli errori
della gestione finale della Democrazia cristiana, ma la sua cultura è
di quelle che si definiscono di centro. Andò con Casini perché
non era di sinistra e non avrebbe sopportato alcune compagnie, ma non risulta
che abbia mai pubblicato o pronunziato un intervento manifestando entusiasmo
per l'evoluzione della politica italiana verso la costituzione di una grande
area liberaldemocratica. Follini è un centrista doc, che oggi pensa
quello di cui ragionavano qualche lustro fa alcuni esponenti democristiani:
bisogna elaborare un sistema che sia dominato da una grande concentrazione
di centro, lasciando le opposizioni libere di svolgere la propria funzione
a destra ed a sinistra. L'ipotesi allora fu spazzata via dal sopraggiungere
di Tangentopoli; ora Follini la ripropone constatando il fallimento del
partito liberale di massa che sembrava uscito fortissimo dalle ceneri della
partitocrazia. C'è una differenza importante: i Dc di allora ipotizzavano
il centro che guardava a sinistra; Follini pensa al centro alternativo alla
sinistra, che può fare intese elettorali con la destra.
Infine il segretario dell'Udc, anche per ragioni anagrafiche, non avverte
nei confronti di Berlusconi l'obbligo della riconoscenza al quale spesso
il premier richiama Casini e persino Mastella. Questi – entrambi – devono
molto al leader di Forza Italia per la loro sopravvivenza politica, poi
svoltasi per strade diverse. Follini no. Nel '94 era giovane e non partecipò
agli accordi elettorali; nel suo partito ha fatto carriera perché
ha scelto rapporti e tesi vincenti. Dice quel che pensa e lo fa senza soggezione,
la sua versione della convenienza riguarda le prospettive proprie. Questo
non significa che sia nel giusto e che l'adesione di Monti sia un sostegno
vincente; significa che c'è un'altra ipotesi che si agita nell'area
del centrodestra e che con essa bisognerà confrontarsi. Oltre tutto
sinora la nostalgia del centro è una sorta di presunzione astratta,
mai passata al vaglio del corpo elettorale. È vero che il centro
ha governato l'Italia per mezzo secolo, ma la stagione durò così
a lungo a causa della scarsa affidabilità democratica della destra
e della sinistra. Nel corso dell'ultimo decennio qualcosa si è mosso
su entrambi i fronti e non sembra più il tempo per riproporre patti
per escludere.
Si è aperta nel centrodestra una fase tribolata, però densa
di iniziative e di proposte. Non è neppure possibile allo stato delle
cose prevedere se la coalizione giungerà alle elezioni con l'attuale
schieramento. Però c'è una confortante ripresa dell'iniziativa
politica e questo è comunque buon segno. La ripresa della creatività
politica non è una consolazione per esorcizzare i sondaggi negativi,
è piuttosto la riaffermazione di una vecchia regola che ammonisce
tutti sulla imprevedibilità della politica. Purché ci sia
la politica con la capacità di pensare ed agire conseguentemente.
Domenico
Mennitti, sindaco di Brindisi.
(c)
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