Flessibili ma poco integrati
di Mario Celi
Ideazione di settembre-ottobre 2005

Il nuovo slogan è “società attiva”. Nel centrodestra lo si ripete in maniera martellante. La “società attiva” è la frontiera del nuovo welfare, un sistema che sia in grado di «garantire eque opportunità e diritti sostenibili a tutti i componenti della società, avvalendosi principalmente del contributo di soggetti che sono capaci di essere utili a se stessi e agli altri».

Se si punta su un nuovo cavallo, si può presumere che il precedente favorito dimostri segni di stanchezza. Non che sia proprio bolso, ma che – insomma – avrebbe bisogno di un po' di energie nuove. La convinzione apodittica che alcune forze politiche hanno dell'inviolabilità della legge Biagi fa sì che vi siano difficoltà anche soltanto a ipotizzare una modifica della legge 30 che – a poco più di un anno dall'entrata in vigore – ha mostrato necessità di ritocco in alcune parti. Un espediente è quello di avanzare la proposta di una legge Biagi-2, un pacchetto che conservi il “nome” ma valorizzi, appunto, la società attiva: «una società dinamica – per dirla con Sandro Bondi – capace di rinnovarsi, ma soprattutto una società moderna e competitiva che ponga al centro del sistema la persona con i suoi diritti, le sue potenzialità, le sue responsabilità. E che al contempo le fornisca un solido sistema di riferimento che ne garantisca i diritti e ne soddisfi i bisogni».

Il concetto di welfare community può essere un ottimo obiettivo teorico, ma si trova a fare i conti con una fotografia dell'Italia che mostra tinte un po' più grigie del roseo ottimismo da più parti sfoggiato quando si tratta di argomenti inerenti il lavoro. Da un sondaggio realizzato a fine 2003 da Cirm World Research (gruppo Hdc) su un campione di mille persone rappresentativo della popolazione nazionale, risulta infatti che gli italiani sono sempre più in apprensione sul tema lavoro in generale: la legge Biagi non convinceva (allora) il 53 per cento degli intervistati e solo il 14 per cento degli interpellati vedeva positivamente gli “ingaggi a progetto”. Ma, al di là dei pareri su una legge sulla quale è forse ancora prematuro esprimere un giudizio definitivo, restano i numeri riguardanti le “scelte di fondo”: il 48 per cento degli italiani preferisce un lavoro a tempo indeterminato a un'occupazione meglio retribuita ma precaria, contro un 32 per cento favorevole al rischio di un mestiere più remunerativo e ballerino.

Inoltre, se all'estero la sicurezza è data dal lavoro, in Italia si punta tutto sulla casa d'origine. Gli studenti si dicono molto soddisfatti della vita personale e non sono neppure preoccupati della condizione economica della propria famiglia. Il 63 per cento dei ragazzi diventa però più pessimista quando deve esprimersi sulla situazione di allarme nel mondo del lavoro.

E nella ricerca sui lavoratori italiani promossa dai Ds in collaborazione con l'istituto Swg (Il lavoro che cambia, edizioni Ediesse), la più rilevante per dimensioni realizzata negli ultimi anni con i suoi circa ventitremila questionari raccolti, le risposte a tutte le domande evidenziano che oggi, in termine di soddisfazione, il lavoro è meglio di ieri e i problemi non derivano dalla qualità o dai contenuti ma dalla tutela e dalle garanzie. Preoccupa l'eventualità di doversi trovare un altro impiego così come inquieta la prospettiva di andare in pensione con trattamenti inadeguati. Un senso di insicurezza che si percepisce in tutta la ricerca («Oggi nessun posto di lavoro è sicuro» dicono 4 su 10), effettuata peraltro tra quanti già sono “lavoratori”, con un'elevata quota di coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato, che lavorano per grosse imprese, che hanno cambiato pochi posti e che si sentono “sicuri” o “abbastanza sicuri” del proprio impiego.

Poi c'è anche quella che l'economista Ilvo Diamanti definisce “sindrome dei penultimi”, cioè lo stato d'insicurezza nella quale si sono venuti a trovare strati sociali che, per reddito e livello professionale, non possono essere collocati nella zona più bassa della scala sociale: figure di tecnici, artigiani, impiegati, definite genericamente “ceto medio”, che guardano al futuro con ansia. Se nel passato la povertà e l'esclusione si identificavano con la mancanza di lavoro, oggi la perdita di potere d'acquisto dei salari e l'erosione dei redditi fanno sì che l'individuo possa essere out anche se dispone di lavoro.

Insomma, da ogni parte si evidenzia e ricorre una esigenza di sicurezza alla quale un moderno welfare deve saper rispondere. Secondo Maurizio Sacconi, Paolo Reboanti e Michele Tiraboschi (autori del libro La società attiva. Manifesto per le nuove sicurezze, edito da Marsilio) le «politiche sociali hanno storicamente assunto il compito di dare sicurezze alle persone “dalla culla alla tomba” in termini tali da farne cittadini a pieno titolo. E questa funzione, propria di ogni modello di welfare, deve essere rafforzata sul piano delle effettività e delle congruità tra obiettivi e strumenti. La modernità della visione – propria di chi si muove nell'ottica della società attiva – sta piuttosto nell'elaborare una più compiuta definizione del benessere fisico e psichico delle persone, di individuare i nuovi fattori di rischio, di disegnare in conseguenza nuove politiche redistributive della ricchezza prodotta. Politiche redistributive che non significano solo erogare sussidi a chi esce dalla condizione di soggetto attivo, come nel caso dei trattamenti pensionistici, che assorbono oggi larga parte della spesa sociale. La concessione di tutele e benefici deve essere condizionata piuttosto alla partecipazione attiva nella società e deve essere indirizzata anche verso coloro che, con comportamenti attivi e responsabili, possono e vogliono operare come moltiplicatori di risorse, solidarietà e ricchezza. A precisi diritti devono corrispondere altrettanto precisi oneri e responsabilità in capo al beneficiario delle prestazioni sociali». In sintesi, le vecchie e fallimentari politiche assistenziali hanno fatto il loro tempo: «mentre il vecchio welfare si è concentrato, con sempre minore successo, su singole esigenze di tutela, un moderno welfare deve essere capace di fornire una risposta globale e di tipo antropologico ai diversi bisogni della persona, fornendo una rete di nuove sicurezze».

Una rete di attori pubblici e privati, di mercato e di solidarietà, centrali e locali: ed ecco ritornare il concetto di welfare community. Una “comunità del benessere” che deve però fare i conti con i tre principali problemi che attanagliano il nostro paese: il record mondiale di squilibrio demografico (per caduta della natalità e aumento dell'età media abbiamo la premiership del rapido invecchiamento); il più basso tasso di occupazione tra la popolazione attiva nelle nazioni industrializzate (per ogni cento persone tra i 15 e i 64 anni che lavorano negli Usa ce ne sono 81 in Europa e 59 in Italia, poco più di un terzo delle lavoratrici sono integrate nel mercato del lavoro, meno del 30 per cento degli anziani è ancora in attività dopo i 55 anni); la condivisione con Grecia e Portogallo del più basso tasso di scolarizzazione europeo in scienza, tecnologia, matematica e ricerca.

Il sistema-Italia eceonomicamente insostenibile
Tre problemi che rendono il sistema-Italia economicamente insostenibile. «In verità nel nostro paese – sostiene Alessandra Servidori nel suo Dal libro bianco alla legge Biagi (Rubbettino editore) – esiste in modo strutturale un'economia parallela, condannata a vivere nell'irregolarità dal momento che nessuna delle misure adottate fino ad ora è stata in grado di debellarla. Occorre quindi ripensare il diritto del lavoro per contrastare il dilagante fenomeno del lavoro non dichiarato e clandestino». E la legge Biagi sarebbe proprio il primo e più importante passo verso il diritto delle risorse umane, una cosa diversa dal vecchio diritto del lavoro figlio della società industriale e dei suoi caratteri di stabilità e continuità.

Ma c'è anche chi sostiene, e non soltanto a sinistra, che ci si è fatto scudo della memoria del giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse il 19 marzo 2002 per riempire l'Italia di precari.

Che il nome Biagi sia un tabù lo dimostra il fatto che, ad esempio, la riforma del lavoro – a sinistra – non venga quasi mai citata con il suo nome, cui viene preferito il più burocratico “legge 30/2003”. Ma il problema della precarizzazione è fatto concreto. Non se lo nascondono neanche al ministero del Lavoro. «La precarizzazione è spesso la conseguenza del fatto che il lavoratore brancola nel buio di un mercato opaco, trascinandosi da una forma di precarietà all'altra perché non conosce neppure le opportunità che avrebbe. La legge Biagi vuole usare la flessibilità come un'arma per contrastare la precarietà: bisogna sconfiggere l'improprio accostamento tra flessibilità e precarietà. Sono concetti opposti», afferma il sottosegretario Sacconi.

Ma non sono solamente Fausto Bertinotti e la Cgil a essere inesorabilmente ostili alla riforma del lavoro ispirata a Marco Biagi. Si legge infatti nelle linee di sintesi del diciassettesimo rapporto Eurispes sull'Italia del 2005, 1296 fittissime pagine stracariche di tabelle, dati, cifre, percentuali e intrise di pessimismo «sulla transizione infinita, senza meta e senza prospettive» del nostro paese: «La flessibilità purtroppo in Italia è stata interpretata soltanto come la possibilità per l'imprenditore di modificare in qualsiasi momento le condizioni del rapporto di lavoro (e quindi anche le modalità di cessazione del rapporto di lavoro) con il proprio dipendente e non come strumento in grado di rendere flessibile l'organizzazione stessa del lavoro. Si è trattato di un tipo di approccio fallimentare e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, viste le performances negative del nostro sistema economico negli ultimi quattro anni».

Anche un moderato come l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu non si accoda al peana della flessibilità: «Sulla legge 30/2003 – scrive – il mio giudizio è negativo proprio perché ha un'impostazione opposta al “pacchetto” (la legge 196/1997 che portava il suo nome, ndr): invece di regolare e limitare la flessibilità la moltiplica, introducendo una miriade di forme di lavoro che aggravano il rischio di precarietà e che sono estranee alle stesse esigenze delle imprese. Non a caso la gran parte dei contratti collettivi conclusi dopo il 2003 si limita a regolare forme già note (part-time, contratto a termine, apprendistato e inserimento) e “sterilizza” gli altri tipi previsti dalla legge 30». «Nei contratti, le norme peggiori della legge 30 non sono state neanche recepite. E attenzione, non a caso parlo di legge 30 e non di legge Biagi. Lo faccio per il rispetto che ho per la memoria del professore», dice Fulvio Fammoni, responsabile per il mercato del lavoro della Cgil.

Ancora più tranchant il sociologo Luciano Gallino: «La legge 30 va abrogata. Ciò che lì dentro si può salvare esisteva già prima. Ammesso che le imprese abbiano bisogno di lavoro flessibile, si potrebbero fissare quattro o cinque modalità anziché 48 come adesso». Pietro Ichino, ordinario di Diritto del lavoro all'Università Statale di Milano ed editorialista del Corriere della Sera ha un altro dubbio su una norma che di fatto comporta l'assorbimento di una parte consistente di lavoratori precari o irregolari nell'area di applicazione delle tutele del diritto del lavoro: «La trasformazione della collaborazione autonoma in lavoro subordinato – spiega – comporta per l'impresa un aumento di costo orario diretto pari circa a un terzo, oltre all'applicazione di tutti i vincoli propri del lavoro subordinato, che si traducono in costi indiretti notevoli. In tutti i casi, che temo saranno centinaia di migliaia, in cui l'impresa non potrà o non vorrà assumersi questi maggiori costi e vincoli, vedo il rischio della perdita di occupazione o di aumento del lavoro nero». Il progetto di Bertinotti, come della Cgil e del correntone Ds, è molto semplice: ricostruire un'idea di contratto a tempo indeterminato come regola e di flessibilità come eccezione, ripensando il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita, perché in una società nella quale la produttività aumenta è ragionevole pensare a una riduzione del tempo di lavoro.

Il sogno della “riduzione di orario a parità di salario” non abbandona il leader comunista, malgrado il fallimento sancito nella stessa Francia che in passato ne aveva fatto una bandiera che adesso è stata costretta a ripiegare nel baule dei ricordi. Il mito che, invece che con una riduzione del salario, la riduzione del tempo di lavoro possa essere compensata da una crescita della produttività si è dimostrato infatti fallace. Addio dunque alla storiella dell'edile romano che nel secolo scorso lavorava 14 ore al giorno e veniva pagato con l'equivalente di un cucchiaio d'olio, un'aringa affumicata e una pagnotta, mentre al giorno d'oggi può anche raggiungere i 1000-1500 euro al mese lavorando “solo” otto ore. I tempi sono cambiati e non ha più sostentamento la tesi che, per i lavoratori occidentali, l'aver ridotto di molto il tempo di lavoro rispetto al passato non abbia loro impedito di migliorare enormemente la propria condizione.

Un ciclo di vita tutto spostato in avanti
Ma al di là delle polemiche ideologiche sulla flessibilità (che secondo i “Biagi-boys” amplia invece la possibilità di incontro tra domanda e offerta di lavoro e allontana lo spettro del sommerso), resta il fatto che negli ultimi tre anni la quota di assunzioni a tempo determinato è molto cresciuta. Scrive il Riformista che nella grande impresa, nel 2003, è arrivata al 60 per cento (fra temporanei, stagionali, contratti formativi e apprendistato). Il che non serve certo a rassicurare gli assunti circa il loro futuro. Negli stessi anni la crescita dell'occupazione si è dovuta in larga parte (quasi un terzo) ai co.co.co (collaboratori coordinati e continuativi), cioè lavoratori a bassissima stabilità e a scarso reddito (dati Cnel). È cresciuto in misura consistente anche il part-time, che può essere stabile ma è a basso reddito e mantiene una connotazione “atipica” non rassicurante (specie se non volontario, come avviene sovente). Anche le fonti Istat non sono confortanti: su 100 assunti a termine, dopo 3 anni hanno un contratto a termine soltanto 21 (nella media italiana) e 5 nel Sud; dopo 5 anni solo 36 nella media italiana e 15 nel Mezzogiorno. Questo prolungarsi della precarietà dei giovani è molto negativo per vari motivi: a cominciare dal fatto che provoca il rinvio delle scelte fondamentali della vita, sposarsi e avere figli. Nel lungo periodo creerà problemi di sostenibilità del sistema pensionistico (per il ridursi dei contributi). Questa protratta instabilità aumenta inoltre le incertezze collettive che si diffondono anche oltre l'ambito dei diretti interessati.

Preoccupazioni, queste ultime, che accomunano entrambi gli schieramenti politici. I giovani infatti hanno un ciclo di vita tutto spostato in avanti. Si laureano tardi e male, tra i 27 e i 28 anni, con titoli che, soprattutto a quell'età, sono difficilmente spendibili. Sembrerebbe esistere una sorta di “ciclo deresponsabilizzante delle troppe garanzie” che spinge i giovani a terminare gli studi tardi, a uscire di casa tardi, a sposarsi e ad avere figli tardi. Con la conseguenza che la nostra economia stenta a trovare giovani qualificati. Del resto, i dati sull'integrazione tra università e lavoro sono sconfortanti. La settima indagine di “Almalaurea” sulla condizione occupazionale di 56 mila laureati degli atenei italiani che aderiscono a quel consorzio inter-universitario mostra che solo metà dei laureati italiani ha trovato un'occupazione un anno dopo la laurea (ma buona parte prosegue un lavoro che già aveva durante gli studi). A tre anni dal conseguimento del diploma universitario, due terzi dei laureati ha un'occupazione. Dopo cinque anni, 86 laureati su cento sono occupati (ma di questi solo 74 con un posto di lavoro stabile). Tra Nord e Sud – a dimostrazione che la questione-disoccupazione ha caratteristiche generazionali, regionali e territoriali – rimane un divario molto forte, evidenziato da una differenza di 20 punti percentuali nel tasso di occupazione dei laureati dopo un anno e dopo tre anni dalla laurea.

Da questa indagine, il professor Sabino Cassese trae tre conclusioni: mentre la disoccupazione è andata riducendosi, negli ultimi anni, l'occupazione dei laureati è diventata più difficile; la questione meridionale nel nostro paese è ancora aperta e ben lontana dall'essere risolta; c'è una difficoltà strutturale d'incontro della domanda e dell'offerta di lavoro, in quanto più della metà dei laureati accede a un posto per iniziativa personale o interessamento di familiari o conoscenti, solo 10 attraverso stages o tirocinio e solamente 3 mediante concorso.

Anche di questo dovrà occuparsi la Biagi-2, correggendo quanto la Biagi-1 non è riuscita a fare: non soltanto regolare chi in qualche modo è già entrato nel mondo del lavoro, ma soprattutto agevolare e favorire l'accesso al mercato del lavoro di quanti ne sono attualmente esclusi. Non ricacciando i lavoratori più deboli nel ghetto del precariato e del lavoro irregolare, ma eliminando gli eccessi di rigidità. Non proteggendo i lavoratori dal mercato ma mettendoli in condizione di competere efficacemente nel mercato. E liberalizzando lo stesso mercato da quella sorta di bolscevismo bianco che lo voleva controllare e che è stato più una barriera che un aiuto: il collocamento.

«Il mercato del lavoro italiano, nei prossimi 15 anni, ha davanti a sé un futuro drammatico, soprattutto per le donne, il Mezzogiorno e gli over 50», dice l'amministratore delegato di Italia Lavoro, Natale Forlani. «Con un alto tasso di invecchiamento e un basso livello demografico, presto verranno a mancare 4,5 milioni di lavoratori. Il paese avrà, quindi, bisogno di un enorme flusso di manodopera. Ma il mercato da solo non è in grado di risolvere il problema. Serve una politica di regolazione. La legge Biagi interviene sui punti critici del mercato, senza creare precarietà, ma introducendo flessibilità e quindi promuovendo maggiori occasioni di lavoro».

Ma non è sufficiente. Perché il bisogno di lavoro umano è sconfinato, ma la società ha necessità di regolarlo. «E le regole in certi casi – dice Ichino – hanno anche l'effetto di rendere più difficile l'incontro tra l'offerta e la domanda di questa “merce” particolare».

«La pletora di rapporti d'impiego inventati dalla legge 30 – chiosa Aris Accornero, professore emerito di Sociologia industriale all'università romana La Sapienza – rivela non soltanto una puerile smania cosmopolita (ah, quant'è bello lo staff leasing, che negli Stati Uniti dà meno dello 0,6 per cento dei posti…) ma un limite ben più grave: quello di ritenere che tante più modalità d'impiego e soggetti d'intermediazione ci sono, tanti più posti di lavoro si creano». Una critica che i primi mesi di applicazione della Biagi sembrano smentire, benché il mercato del lavoro non abbia subito la grande scossa annunciata.

Ma non basta. Lo sa il governo, che con la legge 30 ha compiuto il salto decisivo verso un mondo del lavoro, e dei lavori, che cerca di coniugare dinamismo economico e giustizia sociale. Lo sa l'opposizione, che però finge di non vedere la parte più “di sinistra” della riforma Biagi, quella che sostanzialmente prevede la trasformazione dei co.co.co in rapporti di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato, con applicazione integrale delle relative tutele.

Dal ministero di Roberto Maroni si aspetta ora la Biagi-2. Qualche anticipazione si ha già, come la volontà di trasformare i sussidi assistenziali da mera integrazione al reddito a incentivi per un veloce reimpiego, magari fuori dai confini regionali. In maniera di evitare che gli ammortizzatori sociali diventino un disincentivo alla ricerca del lavoro. Una riforma che avrebbe dovuto accompagnare la legge Biagi ma di cui si sono perse le tracce in Finanziaria, così come è desaparecido il “reddito di ultima istanza”, destinato a incapienti e gravemente poveri, che avrebbe dovuto sostituire il “reddito minimo d'inserimento”, esperimento dichiarato non fattibile.

Una strategia – quella della Biagi-2 – con qualche locuzione anglofila di troppo (il welfare che diventa workfare, perché «è il lavoro che rappresenta la prima risposta al bisogno, e noi dobbiamo passare da un sistema orientato al welfare to rest, il welfare per andare in pensione, al welfare to work, per lavorare») e qualche speranza di sicurezza in più.




Mario Celi, giornalista e saggista, è caporedattore centrale de Il Giornale.

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