I paradossi della canzone politica
di Maurizio Stefanini
Ideazione di settembre-ottobre 2004

È un’estate, prima della caduta del muro di Berlino: dieci, venti, trenta anni prima, ma è una scena che può essere accaduta anche nel 1987, o addirittura nel 1988. L’occasione, una qualunque in cui qualche italiano di sinistra, in particolare dell’allora Fgci, si è ritrovato a cantare in cerchio attorno al fuoco assieme ai boy scout rossi della Fdj: la Freie Deutsche Jugend, “Gioventù Tedesca Libera”, l’organizzazione di massa under 26 del regime di Pankow. Ad esempio, un viaggio organizzato di quelli con cui l’ex Pci portava i suoi militanti a conoscere le delizie del socialismo reale. O uno di quei forum in cui in nome della distensione fino a ’89 inoltrato i movimenti giovanili dei partiti dell’Ovest e dell’Est Europa si riunivano per lunghe e inconcludenti discussioni sui massimi sistemi. O un invito a qualche Congresso. O un viaggio studio di quelli che si facevano con la scusa dell’ideologia e col vero scopo di far pratica di tedesco a prezzi ridotti rispetto alla Bdr capitalista. O altro ancora… Come che sia, l’interprete-accompagnatore annuncia che, “in omaggio ai compagni italiani”, i giovanotti della Fdj intoneranno Italianisches Bolschewistenlied, il “Canto dei Bolscevichi Italiani”. Se l’ospite conosce un po’ l’ambiente, sa bene che la Ddr, paese senza storia, si è inventata tutta un’identità fittizia a partire dalla sua indefessa adesione ai miti della Terza Internazionale. I repertori canori della Fdj consistono dunque essenzialmente in inni “progressisti” e paraprogressisti dalla più svariata provenienza, tradotti in tedesco senza pietà e teutonicamente cantati con stile, appunto, tra il boy scout e la Hitlerjugend: Guantanamera in tedesco, la Marsigliese in tedesco, Blowin’ in the wind in tedesco, e chi più ne ha più ne metta. Insomma, perché nel repertorio corrente delle Feste dell’Unità e dei comizi del Primo Maggio non c’è nulla il cui titolo italiano assomigli a quello suggerito, si aspetta di tutto.

Ma quel che accade, va oltre anche quel tutto normalmente immaginabile. Pugno chiuso, sguardo compunto, i giovanottoni della Fdj attaccano. «Von der blutbefleckten Erde/ hat ein Schei sich losgerungen/ Schrei der unterdrückten Menschheit,/ wie noch keiner je erklungen». Significa: «Dalla terra macchiata di sangue/ si è levato un grido,/ grido dell’umanità oppressa/ come mai risuonò». Ma, possiamo scommetterci, nove volte su dieci l’ospite italiano il tedesco non lo capisce, e di quei versi veementi coglie solo un’insalata di dentali e aspirate. La musica però, per essere familiare lo è, fin troppo. «Docht dort drüben über Russland/ hat ein Lich sich neu entzündet». Porca miseria, ma quella non è, non è?!!!… Al ritornello, naturalmente, torna a alzarsi il pugno chiuso. «Bolschewisten/ Bolschewisten,/ Edelste der Kommunisten,/ erst durch euch, ihr Bolschewisten,/ wird die Freiheit Wirklichkeit!». Ma la combinazione tra quel gesto così rosso, e quella melodia così nera, lascia definitivamente boccheggiante l’ospite. «Bolscevichi. Bolscevichi/ i più nobili dei comunisti!». «Che c’è compagno italiano? Non piace bella canzone di bolscevichi italiani?». «Che bolscevichi e bolscevichi? Das ist Giovinezza, questa è Giovinezza! è l’inno del fascismo!».

Giovinezza, da canto goliardico a inno del Fascismo
L’anfitrione tedesco e l’ospite italiano, hanno in realtà ragione e torto, a un tempo, tutti e due. Se l’italiano ha la tempra del musicologo e la voglia di fare qualche approfondimento, infatti, potrà appurare che effettivamente quell’imbarazzante inno bolscevico sull’aria di Giovinezza è arrivato in Ddr attraverso la valigia diplomatica del Pci. In particolare, fa parte di un pacchetto di quattro Italianische Proletenlied che sono state tradotte da Alfred Kurella, membro del comitato centrale del partito dominante Sed, e in cui sono incluse le più consuete Worwärts, Proleten e Eines Morgen. «Avanti Proletari» e «Una mattina»: incipit che permettono di riconoscere facilmente Bandiera Rossa («Avanti popolo/ alla riscossa…»), e Bella ciao («Una mattina/ mi sono alzata…»). Una terza è Hundertschafenlied, un “Canto delle Centurie” che era l’inno appunto di quelle “Centurie Proletarie” che nel primo dopoguerra furono la formazione paramilitare dei comunisti tedeschi, ma che porta con Kurella la firma di un italiano: Raffaele Mario Offidani. E qui l’arcano inizia a spiegarsi. Offidani era infatti un militante del Pci, di origine marchigiana (si firmava “Spartacus Picenus”): fervente stalinista, tant’è che sul finale della sua vita maledisse Kruscëv per aver cambiato «il nome due volte santo di Stalingrado»; e con la mania della letteratura, tant’è che da ragazzino era riuscito perfino a farsi pubblicare un raccontino in stile pseudo-salgariano. Cresciuto, dopo aver fatto la Grande Guerra era passato dal mito di Salgari a quello di Lenin e dalla prosa alla poesia rivoluzionaria, iniziando a comporre inni “rossi” a centinaia. Aveva però l’handicap di non conoscere la musica, così che adattava la sua ispirazione al metro delle canzoni in voga. La sua primissima composizione, nel 1918, era stata una Leggenda della Neva in esaltazione di Lenin sull’aria della Leggenda del Piave. Nel 1919, sull’aria di un valzer parigino, aveva poi composto La guardia rossa, dedicata alle formazioni paramilitari che avevano imperversato nel “biennio rosso”, e che i delegati italiani avevano intonato a Mosca al primo congresso del Comintern. Di lì l’aveva ripresa Kurella, che aveva la mania delle traduzioni almeno quanto Offidani delle composizioni, e che poi si era messo dunque a volgere in tedesco tutto il materiale di Spartacus Picenus che gli capitava a tiro. Naturalmente, il monomaniaco Offidani aveva messo pure sulla musica di Giovinezza un testo “rosso”, ma in Italia quella musica era divenuta così caratterizzata che alla fine quel particolare “inno proletario” era stato colpito da damnatio memoriae. Kurella, non essendo italiano, non aveva però queste remore. Quella musica gli sembrò orecchiabile, perché in effetti lo era, il testo lo conquistò, e in quattro e quattr’otto trasformò anche quella canzone in memoria storica del “movimento operaio tedesco” e del suo “Stato democratico”. Per la futura gioia dei campeggi della Fdj, e perplessità degli italiani ignari dei citati retroscena.

Però, ed è questo il dato forse più singolare, non solo Giovinezza non è evidentemente una canzone comunista; tecnicamente, non è neanche una canzone fascista. Ricordate quel raccontino del giovane Umberto Eco in cui gli archeologi di una civiltà “polare” dei millenni a venire, sopravvissuta all’olocausto nucleare, cercavano di ricostruire la letteratura del Ventesimo secolo a partire da alcuni sparsi frammenti? Il futuro guru della semeiotica faceva lo spiritoso nell’identificare il Lamento per la morte di Ignazio di García Lorca con un “canto di macellai ubriachi” e Giovinezza con la composizione di un lirico elegiaco, ma la verità è che il Commiato, tale il suo titolo originale, era davvero un canto goliardico. Il testo risaliva al 1909, e dunque a un’epoca in cui Mussolini faceva ancora l’agitatore antimilitarista. E l’autore ne era stato Nino Oxilia: un commediografo che a quella parola e alla vita degli universitari torinesi avrebbe dedicato due anni dopo la celebre pièce Addio giovinezza!. «Sono finiti i giorni lieti/ degli studi e degli amori/ o compagni in alto i cuori/ e il passato salutiam!/ è la vita una battaglia/ è il cammino irto d’inganni/ ma siam forti, abbiam vent’anni/ l’avvenire non temiam». E la seconda strofa era ancora più eloquente: «Stretti, stretti sotto il braccio/ di una piccola sdegnosa,/ trecce bionde, labbra rosa,/ occhi azzurri come il mare./ Ricordate in primavera,/ nei crepuscoli vermigli,/ tra le verdi ombre dei tigli/ i fantastici vagar?». Il ritornello, in compenso, era già quasi quello: «Giovinezza, giovinezza,/ primavera di bellezza!/ Della vita nell’asprezza/ il tuo canto squilla e va!». In che modo questo «passerotto non andare via!» della Belle Époque divenne il ferrigno inno del regime fascista? C’era per la verità la terza strofa, che metteva in qualche modo le mani avanti: «Salve, nostra adolescenza! Te, commossi, salutiamo,/ per la vita ce ne andiamo;/ il tuo riso cesserà!/ Ma se un dì venisse un grido/ dei fratelli non redenti/ alla morte sorridenti/ il nemico ci vedrà!». Era la moda di allora: si metteva di mezzo a tutti i costi Trento e Trieste, allo stesso modo in cui per tutto l’ultimo quarto del Ventesimo secolo Antonello Venditti ha infarcito di superflui appelli alle mobilitazioni studentesche e alle manifestazioni della pace quell’ossessivo ricordo dei tempi del liceo che è la sua musa autentica e profonda. Senonché, mentre per fortuna dopo il ’68 la rivoluzione non c’è stata, purtroppo la “quarta guerra d’indipendenza” nel 1915 ci fu davvero. Purtroppo per Oxilia, intendiamo, che andò volontario, e nel 1917 ci lasciò la pelle sul Monte Tomba. Ma l’autore della musica Giuseppe Blanc invece sopravvisse, e fu anzi proprio lui che già nel 1910 durante la sua naja da ufficiale di complemento degli alpini iniziò a riciclare il Commiato come Inno degli sciatori. Dagli sciatori passò poi agli Arditi: «Del pugnale al fiero lampo/ della bomba al gran fragore/ tutti avanti, tutti al campo/ qui si vince oppur si muore!». E dagli Arditi ai Legionari Fiumani di D’Annunzio, dai Legionari agli Squadristi, e dagli Squadristi all’ufficialità del regime, con Mussolini che a un certo punto pensò di mobilitare qualche musicista togato per “fondere” assieme Giovinezza e la Marcia Reale in un solo inno. Per fortuna l’abominio fu evitato, e Mussolini si accontentò nel 1925 di imporre ex novo un testo più aulico. «Salve, o Popolo d’Eroi,/ salve, o Patria immortale!/ Son rinati i figli tuoi/ con la fè nell’ideale/ Il valor dei tuoi guerrieri,/ la virtù dei pionieri,/ la vision de l’Alighieri/ oggi brilla in tutti i cuor». Curiosamente l’aggiustatore dei versi definitivi fu Salvator Gotta, autore di libri per bambini. Chi oggi sta attorno ai quarant’anni lo ricorderà nella veste di tuttologo di Topolino, rivista tutt’altro che squadrista su cui, al termine di una vita quasi centenaria, tenne una rubrica di risposte ai quesiti più impensati dei piccoli lettori: «Salvator Gotta risponde a…».

Insomma, quella tesi famosa di Eric Hobsbawm secondo la quale la maggior parte delle “tradizioni” non sono in realtà tali ma invenzioni successive è valida in molti campi. Ma forse in nessuno arriva a livelli di paradosso tali come nella canzone politica. Lo dimostra il curioso andirivieni di Giovinezza tra estrema destra italiana e estrema sinistra tedesca, e lo dimostra anche l’avventura della canzone che è tornata di recente a una seconda giovinezza come inno antiberlusconiano: ci riferiamo a Bella Ciao, che da quando Santoro l’ha cantata (male) per protestare contro la propria ”emarginazione televisiva” non manca più girotondo o concerto del primo maggio in cui non venga riproposta. Inno della nuova Resistenza, forse. Ma non inno della Resistenza. Anzi, in realtà un Inno della Resistenza non esiste. La guerriglia antitedesca e antifascista tra 1943 e 1945 fu un fenomeno estremamente frammentato sul territorio, come è d’altronde caratteristica di ogni guerriglia. Dunque, ogni raggruppamento ideologico-territoriale di bande, brigate e divisioni cantava le sue canzoni, che al massimo filtravano nelle zone immediatamente adiacenti. Fu il caso quest’ultimo in particolare di Fischia il vento, che di tutti i canti partigiani fu forse quello con la diffusione maggiore, e che fu composto da Felice Cascione, comandante di una Brigata Garibaldi ligure, sull’aria di Katiuscia: una canzone d’amore russa che era stata composta nel 1938, e che aveva ascoltato presumibilmente da un prigioniero sovietico scappato in montagna dopo l’8 settembre. Dalla Liguria Fischia il Vento filtrò in Piemonte, dove divenne l’inno delle Brigate Garibaldi locali, e anche in Lombardia. E dalla sua presenza sulle labbra dei partigiani “rossi” che dopo il 25 aprile 1945 occuparono Milano e Torino deriva la sua notorietà. Ma nella Liguria in cui era nato, invece, le Brigate Garibaldi adottarono un altro inno, Bersagliere ha cento penne, adattamento di una vecchia canzone alpina. Il motivo? A differenza delle Brigate Garibaldi piemontesi e lombarde, che erano espressione pura del Pci, quelle liguri avevano un reclutamento più interpartitico, al punto che una Divisione Garibaldi di questa regione ebbe come comandante il democristiano Aldo Gastaldi “Bisagno”. E sembra che sia stato appunto “Bisagno” l’autore di questo testo: «Bersagliere ha cento penne/ e l’alpino ne ha una sola/ il partigiano ne ha nessuna/ ma sta sui monti a guerreggiar». Riferimento patriottico al civile che ha il dover di andare lui a difendere il Paese nel momento in cui l’esercito si è sbandato, al posto del più impegnativo manifesto ideologico di Fischia il vento, con le sue simbologie del “sol dell’avvenire” e della “rossa primavera”.

Canti militari, in contrapposizione all’innodia di derivazione sovietica o di tradizione anarchico-socialista, utilizzavano anche le formazioni non garibaldine piemontesi. Canti alpini per i Giustizia e Libertà (Gl) del Partito d’Azione: in particolare un riadattamento del vecchio canto della prima guerra mondiale Sul ponte di Bassano bandiera nera, che era stato poi rispolverato su tutti i fronti della seconda, e il cui verso «la meglio gioventù che va sotto terra» è stato più di recente scippato attraverso Pier Paolo Pasolini dalla filmografia nostalgica sessantottina. «Tedeschi e fascisti/ fuori d’Italia/ gridiamo a tutta forza/ pietà l’è morta», era il testo proposto da Nuto Revelli: un ufficiale reduce dell’Armir che nella canzone polemizza con gli ex camerati tedeschi, accusandoli di aver usato gli italiani in Russia come copertura per il loro ripiegamento. «Che Dio maledica/ chi ci ha tradito/ lasciandoci sul Don/ e poi è fuggito». Pure in gran parte alpina è l’innodia delle badogliane Formazioni Mauri, in cui combattè Beppe Fenoglio. è l’autore del Partigiano Johnny a descriverci infatti nei suoi libri i duelli musicali coi “concorrenti” garibaldini: Fischia il Vento contro Azzurri, come quelli delle Mauri si autodefinivano mezzo secolo prima della nascita di Forza Italia, per via del fazzoletto “sabaudo”. «Sul cappello portiamo l’enlema/ dei Reali di Casa Savoia/ noi lo portiamo con fede e con gioia/ viva l’Italia e i suoi partigian!». Da notare che i maurini non chiamavano i fascisti “repubblichini” ma “repubblicani”, tout court: «E tu o Germania che sei la più forte/ e fatti sotto se hai del coraggio/ se la Repubblica ti lascia il passaggio/ noi partigiani fermar ti saprem». (Anche questa strofa la descrive Fenoglio, cantata dai partigiani che hanno occupato Alba). Di derivazione bersaglieresca era infine la marcetta delle Formazioni Di Dio dell’Ossola, quelle di Eugenio Cefis e Enrico Mattei. Cattoliche, ma “Di Dio” non in senso vandeano, bensì semplicemente in onore dei fondatori, i fratelli siciliani Alfredo e Antonio Di Dio. Militare, ma in singolare coincidenza col testo dell’altro cattolico Bisagno nell’appello alla mobilitazione dei civili al posto dell’esercito scomparso: «Non c’è tenente, né capitano/ né colonnello, né generale/ questa è la marcia del partigiano/ questa è la marcia dell’ideale».

Bella ciao, una tradizione inventata
Curiosamente, in Emilia le filiazioni erano rovesciate. Su un’aria delle fanfare dei bersaglieri fu infatti adattato l’inno dei garibaldini locali, che si intitola appunto La Brigata Garibaldi. «Fate largo, che passa/ la Brigata Garibaldi/, la più bella, la più forte/ la più ardita che ci sia». Al contrario le Gl emiliane, che a differenza delle piemontesi erano piuttosto anticomuniste, avevano però riadattato un vecchio canto anarchico di fine Ottocento, l’Inno della Rivolta dell’avvocato Luigi Molinari. «Nel fosco fin del secolo morente/ sull’orizzonte cupo e desolato/ già spunta l’alba minacciosamente/ del dì fatato», era l’attacco del testo originale, che poi si inerpicava su vertici di una violenza inaudita. «Urlan l’odio, la fame e il dolore/ da mille e mille facce inscheletrite/ e urla col suo schianto redentore/ la dinamite/ Per le vittime tutte invendicate/ là nel fragor dell’epico rimbombo/ compenseremo sulle barricate/ piombo col piombo/ E noi cadremo in un fulgor di gloria/ schiudendo all’avvenir novella via/ dal sangue nascerà la nuova storia/ dell’anarchia». è da questi versi che si è chiaramente ispirato Francesco Guccini per la sua altrettanto violenta La locomotiva. In confronto, il testo partigiano è quasi edulcorato. «E noi farem del monte un baluardo/ saprem morire e disprezzar la vita/ per noi risorgerà la nuova Italia/ con la guerriglia». Ma anche questo era nato in Liguria, ed era poi arrivato in Emilia attraverso i garibaldini locali. Portata in montagna evidentemente da qualche portuale genovese di antecedenti anarchici, o forse arrivata dalla storica roccaforte anarchica di Carrara, la canzone era stata probabilmente rielaborata nel clima ecumenico-patriottico alla Bisagno, finendo così per impressionare favorevolmente i Gl emiliani.

Sempre tra Emilia e Lombardia orientale c’erano poi le Fiamme Verdi, in bilico tra Dc e Pli e con occhio alle tradizioni degli Alpini, stile Gl e Formazioni Mauri del Piemonte. Ma più ancora che ai canti del corpo il loro repertorio canoro riprendeva il folklore valligiano, decenni dopo riciclato come simbolo identitario dai leghisti. «Noi della Val Camonica/ discenderemo al pian/ non più la fisarmonica/ ma il mitra tra le man». «Perché porti quel fazzollettino/ perché porti quel fazzolettino/ perché porti quel fazzolettino/ tutto bel verde di vivo color?/ Son ribelle io della montagna/ Son ribelle io della montagna/ Son ribelle io della montagna/ la Fiamma Verde la porto nel cuor». E un’importante zona partigiana fu anche il Friuli-Venezia Giulia, il cui repertorio è restato però poco conosciuto per ragioni linguistiche. Da una parte, infatti, i locali garibaldini non solo si misero al servizio dei titini, ma adottarono massicciamente un’innodia di derivazione slava. Dall’altra i moderati delle Formazioni Osoppo, una delle cui brigate fu vittima della strage garibaldina alle Malghe di Porzus, combattevano sì per la difesa dell’italianità della regione, ma celebrandola in rigoroso friulano. Plui fuarz di prime, il loro inno più noto, si segnala per un epos nazional-religioso normalmente assente anche nelle formazioni più fortemente cattoliche. «O sin fis di un sanc fuart e famôs;/ E tai secui sin stàz simpri i prins/ A defendi la Patrie e la Crôs/ Fûr i barbars dai nestris confins». «Siamo figli di un sangue forte e famoso;/ e così sicuri siamo stati sempre i primi/ A difendere la Patria e la Croce./ Fuori i barbari dai nostri confini». E qui è abbastanza chiaro che con “barbari” non si intendevano solo i tedeschi… Questo accenno a “la Patria e la Croce”, tutte assieme, è tanto più singolare se si pensa che, contrariamente a quanto spesso si ripete, gli osavani non erano in origine cattolici ma gente del Partito d’Azione. Anche se poi nella contrapposizione alla linea filo-slava dei locali garibaldini avevano finito per raccogliere tutti coloro che lottavano per difendere l’unità nazionale. 

Insomma, non solo le canzoni partigiane erano troppo caratterizzate dal punto di vista territoriale, ma anche troppo caratterizzate dal punto di vista ideologico. E non solo a sinistra, anche se oggi nelle compilation di canti partigiani che sono in vendita nei negozi di dischi si trova La rossa primavera e La Brigata Garibaldi, ma non I reali di Casa Savoia, e meno che mai La Patria e la Croce degli osovani. Quando nel 1965 il ventennale della liberazione fu dunque festeggiato da un governo di centro-sinistra che si preparava a creare l’“arco costituzionale” col Pci, si sentì il bisogno di “inventare” un inno che potesse celebrare in maniera discreta i “Valori della Resistenza” senza offendere nessuno: né con la lotta di classe, e neanche con le nostalgie sabaude o con le polemiche sulle Foibe. Qualcuno ebbe l’idea una canzone partigiana minore e dal testo anodino, che aveva adattato il tema dell’antica ballata Fiore di tomba con la musica e il ritornello di una filastrocca infantile di origine forse trentina. E nacque così il mito di Bella Ciao. Revisionismo musicale? Ma è quanto afferma nero su bianco un’opera dalle credenziali “progressiste” indiscutibili: Avanti Popolo. Due secoli di canti popolari e di protesta civile, a cura dell’Istituto Ernesto De Matino (Hobby & Work, 1998). Citiamo da pagina 144. «Questo canto partigiano dell’Italia Centrale (Lazio, Abruzzo, Emilia) è la trasformazione del canto epico-lirico Fiore di tomba, di cui si conoscono versioni già sulla medesima aria. Poco diffuso, e solo in alcune regioni, durante la guerra partigiana, è diventato attorno al 1965 – in una vera “invenzione della tradizione” – il canto per eccellenza della Resistenza italiana, essendo accettabile da tutti per il suo contenuto esclusivamente patriottico e l’assenza di accenni a un rinnovamento della società». Come abbiamo ricordato a proposito di Formazioni Mauri e Osoppo, per la verità sono stati censurati anche altri “accenni” di diversa natura. Ma questa, come si dice nei libri di Rudyard Kipling e nei fumetti di Tex Willer, è un’altra storia. Il dato curioso è semmai che questo simbolo “moderato” col governo Berlusconi sia diventato un simbolo non solo di contestazione radicale, ma addirittura di contestazione alla linea troppo “acquisciente” dell’Ulivo.

Cose italiane? In realtà, le storie complicate di Giovinezza e di Bella Ciao sono abbastanza consuete, nella storia della canzone politica di tutto il mondo. Un esempio da manuale è nella canzone simbolo della Rivoluzione Americana: «Yankee Doodle andò in città/ a cavallo di un pony»… Che non è poi altro se non la celebre marcetta che fischietta in continuazione l’Alberto Sordi-Nando Mericoni (o Moriconi?) di Un americano a Roma. Ma come della sigla di Quark solo gli esperti di musica classica sanno poi che corrisponde al titolo di Aria sulla Quarta Corda di Bach, anche il “tarattatattatattatà” dello pseudo “sceriffo del Kansas City” tutti lo conoscono, ma solo chi è americano o versato in folklore americano sa che corrisponde al titolo di Yankee Doodle. Una melodia orecchiabile che era nel Medio Evo un coro di lavoro dei vignaioli francesi.

Yankee Doodle, l’uomo venuto dall’Europa
Per le misteriose vie del canto popolare, dalla Francia il motivetto passò in Olanda e poi in Inghilterra, come filastrocca per bambini. In inglese, dedicata a un signor Locket che aveva perso la sua borsa (Mister Locket/ lost his pocket…). Ma durante la guerra civile tra Cromwell e Carlo I sull’arietta fu adattato dai “Cavalieri” monarchici un testo di feroce sfottimento del leader puritano.
«Mister Cromwell went at town/ riding on a pony/ stuck a feather on his hat/ and called it macaroni». «Il signor Cromwell scese in città/ a cavallo di un pony/ si mise una piuma sul cappello/ e la chiamò maccherone». A distanza di quattro secoli, l’ironia è ormai quasi indecifrabile. In sostanza, si irrideva da una parte al borghese che pretendeva di sfidare i nobili “Cavalieri” mettendosi a cavallo pure lui, ma cercando appunto da buon borghese tirchio di risparmiare sulla cavalcatura; dall’altra alla moda volutamente arcaica del rigido calvinista, che portava ancora i cappelli con piuma che un secolo prima erano stati importati dall’Italia (da cui la scherzosa definizione di “cappello col maccherone”). Un altro secolo, e lo stesso identico ritornello lo ritroviamo in Nord America, ma riferito a un personaggio diverso: «Yankee Doodle went at town», eccetera.

Chi è Yankee Doodle? La Guerra dei Sette Anni è non solo il definitivo regolamento di conti tra inglesi e francesi in Nord America, ma anche la prima presa di coscienza che gli inglesi delle Tredici Colonie, dopo un secolo e mezzo, sono ormai diventati qualcosa di diverso, rispetto a quelli rimasti nella madrepatria. E sono gli stessi soldati di Sua Maestà sbarcati oltre Oceano a farlo capire agli ausiliari delle milizie arruolate in loco, con i loro pepati motteggi. Yankees, iniziano a chiamarli, con un termine di etimologia oscura. Forse è una pronuncia indiana di English, se è nato nel New England. Forse è un Jan Keese, “Gianni Formaggio”, riferito ai fondatori olandesi dell’attuale New York, secondo la nota abitudine inglese di sfottere le etnie in base al loro supposto alimento preferito: kraut i tedeschi; frogs, “rane”, i francesi; macaroni, noi italiani… Sia nell’uno che nell’altro caso, uno yankee è ormai un ex europeo, che alcune generazioni di vita in America hanno ormai reso “altro”. Doodle è invece, letteralmente, un ghirigoro. Ovvero la zampogna, strumento il cui accompagnamento a bordone sembra disegnare come dei ghirigori musicali. Ovvero, che suona la zampogna: un villico, una persona di ambiente rurale. Yankee Doodle, dunque, sono i “buzzurri nord-americani”, che si presentano alla rassegna militare in divisa di miliziani al fianco delle prodi Giubbe Rosse dell’esercito regolare, facendole scompisciare dalle risate al vederli combinare tutta la serie di pasticci puntigliosamente elencati nelle interminabili strofe che costituiscono il testo “canonico” della canzone: fanno scoppiare un cannone nel caricarlo; tentano di sistemarsi in ordine chiuso, e sembrano «budino che si è sdraiato»; mangiano, e sprecano tanta roba da sembrare «più ricchi di Re Davide»; eccetera. Consiglia dunque il ritornello: «Yankee Doodle keep it up/ Yankee Doodle dandy/ mind the musica and the step/ and with the girls be handy». Su col morale, burinotto del Nord America. Fa piuttosto il damerino, attento alla musica e al tempo, e datti da fare con le ragazze. Sottinteso: e lascia perdere la carriera militare, che non è aria!

Naturalmente, questo primo esempio storico di antiamericanismo verrà ritirato fuori nel momento in cui miliziani coloniali e soldati regolari si ritroveranno di fronte gli uni contro gli altri, sui campi di battaglia della Rivoluzione Americana. E viene aggiunta infatti una strofa in cui “Capitan Washington” (non generale!) si pavoneggia tronfio su un cavallo bianco, ostentando da assurdo spaccone di avere a sua disposizione «oltre un milione di uomini». Curiosamente, però, man mano che la guerra va avanti, a cantare le oltraggiose strofette sono sempre meno gli inglesi, e sempre più i “burinotti yankee”, le cui vittorie valgono sempre più a irridere l’irrisione. «Siamo campagnoli coloniali, e intanto ve le abbiamo suonate lo stesso!», sembrano dire i soldati di Washington. Con lo stesso tono di sfida con cui Madame de Pompadour aveva scelto come proprio simbolo araldico lo stesso pesce del suo tanto deriso cognome plebeo Poisson, e con cui i ribelli olandesi avevano assunto orgogliosamente lo sprezzante epiteto di gueux, “pezzenti”, loro affibbiato dagli spagnoli.  Le strofette di Yankee Doodle diventano così per sempre un simbolo dei neonati Stati Uniti, e yankee un appellativo dei suoi abitanti. Ormai più affettuoso che spregiativo. E oggi nelle scuole americane Yankee Doodle viene insegnato con un testo che è stato in realtà inventato in quelle scuole stesse, per giustificare il paradosso di aver trasformato in canto patriottico quella che era stata forse la prima canzone antiamericana della storia. «Yankee Doodle is a tune/ That comes in mighty handy, / The enemies all run away,/ At Yankee Doodle Dandy!». I nemici scappano ormai via, quando sentono l’aria di Yankee Doodle Dandy!

E altrettanto sconcertante è anche la storia di Guantanamera, che il regime di Fidel Castro spaccia come inno della Rivoluzione Cubana, e che legioni di italiani analfabeti di spagnolo hanno tradotto a senso con “prendi (agguanta!) una mela”, o idiozie del genere. In realtà una guantanamera non è che una nativa di Guantánamo: la città oggi famosa per i detenuti di al Qaida, e che fu fondata nel 1819 da un gruppo di francesi scappati da Haiti dopo la sanguinosa rivolta dei locali schiavi. Col primo nome di Santa Catalina del Saltadero del Guaso, ribattezzata poi con un antico toponimo aborigeno nel 1843, era una città provinciale rispetto all’Avana, con un tessuto di piccoli contadini e un’economia non basata sulla canna da zucchero come nella norma cubana, ma su microfondi di caffè e cacao. Questi campagnoli sono anche gli abitanti di Cuba che hanno conservato la maggior traccia somatica degli aborigeni dell’isola, e per questo li chiamano guajiros, da un’antica etnia indigena che ha lasciato le sue tracce anche nella Guyana e nella regione colombo-venezuelana dalla Guajira.

E guajira, nel senso di “contadina”, “burinotta”, dice appunto il famoso ritornello: «guajira guantanamera». La storia di quella che è una delle canzoni più famose del mondo iniziò nel 1929, con una festa in cui stava suonando Herminio García “Diablo” Wilson, un famoso virtuoso di tres, tipica chitarrina cubana a tre corde. In un intervallo fece un complimento a una procace ragazzotta che passava, ricevendone un invio a quel paese. «¿Pero quién se cree de ser esta guajira guantanamera?», rispose piccato il virtuoso. «E chi si crede ‘sta burina di Guantanamo». Città, appunto, non troppo stimata come centro mondano… “Guajira guantanamera…, suona bene”, commentò distrattamente un altro musicista. «Guajira guantanamera… Guajira guantanamera», e il virtuoso di tres improvvisò di botto su queste sillabe la melodia oggi universalmente famosa. Solo che il pezzo era sfottitorio. In seguito lo stesso “Diablo” Wilson avrebbe riciclato quelle strofette come sigla di una trasmissione radiofonica, e di lì sarebbe poi divenuta un modulo di cantastorie per farne versi di protesta o d’attualità. Senonché, nella baia di Guantanamo c’era una base americana che i governi pre-castristi avevano affittato a Washington, e che in seguito Washington avrebbe rifiutato di restituire, pur seguitando scrupolosamente a pagare il canone previsto dal Trattato (e che d’altronde Fidel continua a rifiutare…). Nel clima di esaltazione patriottica che accompagna la rivoluzione castrista, dunque, qualcuno dà a quel Guantanamera un sottofondo irredentista, e alla musica vengono adattati i Versi Semplici del poeta-padre della patria José Martí. Sono strofe molto belle, perché il Garibaldi-Mazzini cubano come comandante militare valeva poco, ma come pensatore era originale e come poeta assolutamente straordinario. «Il mio verso è di un verde chiaro/ e di un carminio acceso/ è come un cervo ferito/ che cerca nel bosco scampo». «Con i poveri della terra/ voglio la mia sorte intrecciare/ il ruscello della montagna/ mi piace più del mare». «Coltivo una rosa bianca/ in luglio come in gennaio/ per l’amico sincero/ che mi dà la sua mano franca/ E per colui che mi strappa/ il cuore con cui vivo/ né cardo né ortica coltivo/ coltivo la rosa bianca». Ma il tutto, sempre rivolto alla “burina guantanamera”, è sì divenuto popolare in tutto il mondo, ma in un contesto che in fondo è piuttosto ridicolo.

Ve l’immaginate i versi di Marzo 1821 di Manzoni o dell’Inno di Mameli adattati sull’aria delle Osterie, e lasciandoci il contrappunto del “paraponziponzipò” o del «dammela a me biondina, dammela a me biondà?».


Maurizio Stefanini, giornalista e saggista.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006