Se non è un
sogno da mille e una notte, poco ci manca. Vista dall’aereo che precipita
nella notte stellata verso la pista dell’aeroporto Atatürk, Istanbul sembra
una donna adagiata sulla riva del mare, con il vestito luccicante di strass,
sensuale e viva come ce l’hanno raccontata per secoli i viaggiatori europei
a caccia di emozioni esotiche. Dopo la lunga teoria di villaggetti
appollaiati lungo la costa della Tracia, quasi all’improvviso, appare
dall’eterna foschia del Bosforo l’immensa distesa di luci della seconda
Roma. L’aereo punta sul piccolo bacino della Marmara, poi piega a sinistra
verso l’oscurità dei sobborghi di Nord-Ovest, mentre sul lato destro, oltre
il braccio del Bosforo puntellato di traghetti, si dispiega all’infinito il
mare di lucine delle case residenziali del quartiere asiatico. I ponti che
collegano le due metà della città, quella europea e quella asiatica,
sembrano serpenti illuminati. Quindi il velivolo vira a destra,
un’inversione a U di centottanta gradi, e punta verso i binari di luce che
delimitano la pista dell’aeroporto. Si abbassa, trecento, duecento, cento
metri mentre dai finestrini della cabina di pilotaggio la grande megalopoli
turca ci inghiotte, con i suoi sette colli fatati come quelli di Roma, i
suoi grattacieli e le case luccicanti, le moschee e i minareti, i suoi
quindici milioni di abitanti che popolano le sponde di due continenti:
“Welcome in Istanbul”, la torre di controllo certifica l’atterraggio.
Un paese ponte che guarda all’Europa
Eccola la Turchia che tanto inquieta l’Europa, settecentottantamila
chilometri quadrati di montagne e altipiani piazzati per nove decimi sul
costone asiatico, tra Mediterraneo e Mar Nero fino ai confini orientali del
Caucaso turcofono strappato ai Soviet di Madre Russia e a quelli
sud-orientali con gli inquieti Stati arabi del Medio Oriente, Siria, Iraq,
Iran. Un paese ponte, come spiegano gli abecedari di geografia, tra Oriente
e Occidente, con una capitale moderna, Ankara, quattro milioni di abitanti
sparsi per palazzi moderni in un’atmosfera burocratica e amministrativa, e
un’antica, Istanbul, che con il suo carico di storia e quello umano di
quindici milioni di anime, tira il paese verso Ovest, i Balcani, l’Europa.
Verso la Germania, ad esempio, che ospita ufficialmente cinque milioni di
gastarbeiter turchi, di cui duecentomila nella sola Berlino, quasi tutti
raccolti nell’effervescente quartiere di Kreuzberg a conferma della battuta
che fa di Berlino (e non Istanbul) la città turca più popolosa d’Europa.
Eppure questo Stato che racchiude tra cupole e minareti la più laica
comunità di religione islamica, dove le donne lavorano con pari dignità
rispetto agli uomini, le ragazze vestono come pare loro e una donna – Tansu
Ciller – ha ricoperto qualche anno fa la carica di primo ministro, viene
tenuto a bagnomaria dall’Unione europea.
Le tappe dell’avvicinamento della Turchia a Bruxelles puntualizzano una
storia infinita costellata da fughe in avanti e repentini ripieghi, speranze
e docce fredde. Nel 1963 viene stipulato l’accordo di associazione tra
Comunità europea e Turchia (detto accordo di Ankara) e perfezionato in un
protocollo addizionale nel 1970: tra gli obiettivi “il consolidamento
costante ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche,
l’istituzione dell’unione doganale in tre fasi successive, la libera
circolazione dei lavoratori”. Ma quest’ultimo aspetto non è stato mai
realizzato per non meglio precisati motivi socioeconomici. Nel primo biennio
degli anni Ottanta la vita politica precipita nel caos e, temendo
l’allineamento della politica estera su posizioni vicine ai paesi comunisti
dell’Est Europa, l’esercito interviene per riportare l’ordine: due anni nei
quali viene sospesa la Costituzione prima di riaffidare, nel 1982, il timone
alla politica.
Nel 1987 Ankara chiede di diventare membro dell’Ue. Nel frattempo la Turchia
è andata avanti con il recepimento dell’aquis comunitario, quel complesso di
norme che costituisce la base comune dei paesi che partecipano alla vita
comunitaria, e nel 1995 è partita la terza fase dell’unione doganale. Crisi
di Cipro, rapporti tesi con la Grecia, vittoria islamica nelle elezioni del
1996 concorrono a raffreddare gli entusiasmi di Bruxelles che boccia, l’anno
dopo, l’inserimento della Turchia nel gruppo dei paesi candidati
all’allargamento. Ankara la prende male e l’Ue riannoda il filo interrotto
varando nel 1998 la Strategia europea per la Turchia e, dopo ulteriori fasi
di trattative, adotta nel marzo del 2001 il partenariato per l’adesione
della Turchia.
Nel corso di lunghi decenni i turchi si son visti sfilare avanti 15 paesi,
dall’Austria agli Stati scandinavi, fino ai paesi dell’Europa
centro-orientale che tra 2004 e 2007 diventeranno tutti membri dell’Unione.
Eppure la Turchia non si allontana troppo dagli standard di vita europei.
L’economia è molto più solida di quella di paesi come la Romania o la
Bulgaria, la sua classe imprenditoriale ha più dimestichezza con i sistemi
capitalistici di quanta non ne abbia quella di Varsavia o Bratislava. Eppure
Polonia e Slovacchia dall’anno prossimo faranno parte dell’Unione, Ankara
resta al palo. Non ha molta giustificazione neppure la preoccupazione di una
deriva islamica, dal momento che da quando il padre della patria, Kemal
Atatürk impose negli anni Venti la rivoluzione dei nomi, dei costumi e delle
abitudini dei turchi e li spinse con energia verso una società laica e
moderna, il paese è stato geloso custode di questa modernità, riuscendo a
coniugare democrazia e religione islamica. Il muezzin lancia cinque volte al
giorno il suo richiamo alla preghiera, una lunga e suadente litania
amplificata dagli altoparlanti che interrompe per un attimo la frenesia
della giornata lavorativa, ma non sono molti quelli che abbandonano il
lavoro per andare in moschea. La preghiera è un rituale importante che non
confligge con gli obblighi del lavoro, con i ritmi di una società moderna e
laboriosa.
Islam, la scelta moderata e il rischio integralista
La vittoria nel novembre 2002 del Partito della Giustizia e Libertà, di
ispirazione islamico-moderata, guidato dal premier Tayyip Erdogan – entrato
in Parlamento grazie alle suppletive del marzo successivo – è dovuta più
alla lunga crisi che morde da anni l’economia del paese, inutilmente
combattuta dai governi precedenti. E’ stata una scelta di democrazia da
parte di un elettorato maturo che spera nel successo di una nuova classe
dirigente: non è per mettere il velo sul volto delle donne che i turchi
hanno mandato al governo Erdogan ma per porre rimedio ai conti pubblici.
Trecentosessantacinque seggi, il 67 per cento dell’intero Parlamento,
pongono questo partito di fronte a una sfida che riguarda l’intera società
turca e non solo la sua componente più religiosa.
C’è un sistema paese da rimettere in moto, un’economia da rilanciare
attraverso l’intensificazione degli scambi e delle strategie industriali e
commerciali. E c’è soprattutto un ruolo geo-politico da riconquistare nel
mondo che cambia, velocemente, forse troppo velocemente per i tempi di
reazione della politica levantina. Eppure i giovani vestiti all’occidentale
che scorrazzano a notte fonda per l’Istiklâl Caddesi di Istanbul, la lunga
via pedonale che taglia a metà il moderno quartiere europeo, riempiendo i
pub dove si alternano rabbiosi cantanti rock a coloriti musicanti folk ed
etno non chiedono altro: che l’economia riesca a ripartire e a riassorbire
la disoccupazione che decima le speranze degli under 30. Disoccupazione,
miseria e disagio sociale sono i veleni che si insinuano negli spazi vuoti
dei quartieri periferici di Istanbul, dove i giovani respirano povertà ed
emarginazione e sono facile preda della propaganda estremista. L’islamismo
“senza se e senza ma” alligna nei perimetri esterni della grande metropoli e
alimenta l’incubo di una società laica in difficoltà.
Ma anche questo è un problema che avvicina la Turchia all’Europa: non è
forse nelle banlieu di Parigi o nei quartieri dormitorio di Marsiglia o
ancora negli sfondi degradati dei sobborghi londinesi che alligna e cresce
il serpente dell’estremismo islamico che agita le icone di Osama bin Laden e
sogna improbabili Jihad? Istanbul è una città che si espande di mese in
mese, anzi, di notte in notte, attirando dalle zone rurali intere famiglie
che erigono baracche ai margini della periferia. Abitazioni chiamate
gecekonden (letteramente “costruite di notte”) protette da un’antica legge
ottomana, che vieta l’abbattimento di un tetto innalzato durante l’oscurità.
Nel tempo questi suq vengono distrutti e sostituiti da anonimi blocchi di
condomini, mentre nuovi tuguri spunteranno più in là, ingrossando una
periferia degradata e gonfiando la popolazione di Istanbul, ormai fuori
controllo: dieci, dodici, quindici milioni di abitanti. Già domani saranno
di più. Dunque la Turchia pare dibattersi nelle stesse difficoltà e negli
stessi problemi che agitano l’Europa. Crisi economica, crisi geo-politica,
crisi sociale: e una classe politica che non sa se sarà all’altezza delle
sfide. Tutt’attorno il mondo cambia e non solo in negativo. Sono migliorati
sensibilmente i rapporti con la Grecia, un vicino fonte di tensioni continue
anche in sede Nato.
Imprenditori, cuore a Ovest mercati a Est
Atene ha appoggiato, nel corso del suo semestre di presidenza, il processo
turco di integrazione nell’Ue ed ha stabilito relazioni bilaterali
costruttive. Ad Est si è allentata la tensione con i curdi che hanno avviato
un ripensamento delle strategie politiche, abbandonando la strada del
terrorismo e permettendo, tra l’altro, la ripresa economica della Turchia
orientale: nuovi traffici commerciali, rilancio del turismo, sviluppo
dell’agricoltura grazie alla realizzazione di dighe che hanno permesso una
migliore irrigazione dei terreni. Anche i nuovi scenari medio-orientali
aprono spazio alla penetrazione delle imprese turche a patto che sappiano
associarsi con partner qualificati che potrebbero venire dall’Europa.
L’aria condizionata soffia a getto continuo dai bocchettoni della sala
conferenze dell’Hotel Bosforo, dove il ministro dell’Industria di Ankara,
Ali Coskun, illustra al Forum della Confindustria italiana e al viceministro
Adolfo Urso, giunto in visita ufficiale, le linee-guida della nuova legge
sugli investimenti diretti dall’estero che apre il mercato turco all’impresa
straniera. Soprattutto a quella italiana che vede nella Turchia non solo un
grande mercato di 70 milioni di persone ma una vera e propria piattaforma
per realizzare joint venture da lanciare sui mercati mediorientali e
caucasici e nell’Asia centrale ricca di risorse energetiche. Nel consesso
degli imprenditori la Turchia è già un paese europeo, ben oltre i dubbi dei
politici di Bruxelles. Alcuni dati economici indicano che la strada del
risanamento intrapresa dagli ultimi due governi può dare i risultati
sperati: l’inflazione, che negli anni scorsi ha divorato salari e potere
d’acquisto, è in sensibile e continuo calo, le privatizzazioni possono
liberare nuove risorse e alleggerire il peso dello Stato contribuendo a
ridurre l’enorme debito pubblico, la tendenza demografica è molto positiva
(all’Europa si offre un paese giovane e vitale), gli scenari macroeconomici
futuri sono positivi e la Turchia annovera una classe imprenditoriale solida
e di lunga esperienza. Insomma, le potenzialità ci sono tutte per fare di
questo paese quello che i cambiamenti del nuovo secolo impongono: la
piattaforma europea verso il Levante, il Medio-Oriente, l’Asia centrale.
L’Italia, nel suo semestre di presidenza, è impegnata a dare corpo al
definitivo ingresso turco nell’Ue per riequilibrare a Sud il baricentro
dell’Unione e dare corpo e sostanza a quell’Europa mediterranea che senza la
Turchia sarebbe un’anatra zoppa. Di più: per vincere, da europei, la sfida
di un altro Islam, liberale, democratico, aperto allo scambio fecondo con
altre culture.
Pierluigi Mennitti, direttore di Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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