I film italiani non piacciono più, salvo Nuovo
cinema Paradiso, Mediterraneo e naturalmente La vita è bella. Tutte storie
degli anni Quaranta e tutti premi Oscar: che non sia il cinema, ma il popolo
italiano di oggi, rispecchiato dal suo cinema, a non piacere più neanche a
se stesso? L’eccezione che conferma la regola è Pane e tulipani del Soldini
regista (non dello skipper, quello è suo fratello). Commuove nonne e zie,
sorelle e cugine. Bene, tutto fa, anche le midinettes. Ma per il resto siamo
tornati una colonia cinematografica degli americani, come nel dopoguerra, e
stavolta abbiamo meno prospettive di non esserlo più, un giorno. La crisi
della particolare industria detta cinema, che talora produce una forma
d’arte, il film, non è più causata in Italia da eventi eccezionali, ai quali
autori altrettanto eccezionali possano opporre l’inventiva. Oggi sono venuti
meno fattori che nessuna “ricostruzione”, nessun Piano Marshall e nessun
sistema di coproduzioni paiono poter ristabilire: nel 1999 la produzione è
stata di novanta film (una volta si arrivava a quattrocento) e solo sei
hanno guadagnato...
I perché del disastro li chiediamo a Daniel Toscan du Plantier, ex direttore
della casa di produzione e distribuzione Gaumont-Italia, oggi alla testa
dell’ente di promozione del cinema francese (Unifrance). Toscan ha vissuto a
lungo in Italia, è stato amico di Roberto Rossellini e si è legato a sua
figlia Isabella, poi ha avuto una figlia da Francesca Comencini. È dunque un
francese che ama l’Italia – e le italiane dal cognome in “ini” – come una
seconda patria. Dice: «Per la sinistra e l’estrema sinistra sono le tv di
Berlusconi ad avere ucciso il cinema. Un piagnisteo che inizialmente
coinvolgeva anche Craxi, come se fosse stato un uomo di destra. Rispetto ai
suoi tempi, quando i ministri socialisti non facevano che parlare di
computer e Warner Bros., che cos’è cambiato con D’Alema, e dopo di lui? Le
tv di Berlusconi sono l’effetto, non la causa di ciò che è accaduto:
innanzitutto, la fine della qualità determinante del cinema italiano,
l’identità col suo popolo, la più completa che io abbia conosciuto. La
grandezza del vostro cinema è stata immensa grazie alla coincidenza fra
altezza culturale e orientamento popolare, sintesi di cui il cinema francese
era ed è incapace. Ma quella grande stagione è stata un fenomeno della
generazione formatasi in era fascista: Rossellini e De Sica, Fellini e
Visconti, Risi e Comencini, Scola e Monicelli hanno avuto ascesa e declino
quasi simultanei. I loro successori – con una cultura post-gauchiste, da
Little Italy alla Scorsese – non hanno più seguìto una tradizione
considerata fuori moda. Se in Francia tutto è parigino, in Italia il cinema
era costruito sul modello meridionale, “romano”, che però non era l’unico;
infatti poi si è affermato il modello “milanese”, rivelatosi ottimo solo per
la tv. È anche per causa sua che il pubblico ha smesso di riconoscersi nel
cinema dell’Italia “contadina”: solo che il cinema dell’Italia
“industriale”, “europea”, peggio, “americana”, vale poco».
«L’Italia – continua Toscan – ha sofferto a lungo del peggiore circuito di
distribuzione nelle sale. Al suo cinema è poi mancata l’attenzione dello
Stato. Alla testa del Dipartimento dello spettacolo nel governo Prodi, ha
deluso Walter Veltroni. Ci diceva rassegnato che a Prodi il cinema non
interessava, ed era vero. Prodi è un “lussemburghese” (il Lussemburgo è la
sede europea per eccellenza delle banche americane, ndr). Giovanna Melandri
non ci ha deluso, perché da una newyorkese non ci aspettavamo nulla. Fin dai
tempi di André Malraux, ministro della Cultura con Charles de Gaulle, il
cinema in Francia ha un peso politico. L’accordo firmato a Berlino lo scorso
26 giugno per un consorzio di rilancio del cinema europeo lo ribadisce».
Consorzio franco-tedesco che rinverdisce i fasti della Continental, la casa
di produzione che con soldi tedeschi produsse i capolavori di Clouzot nella
Parigi occupata. Un bell’archetipo, ma che taglia fuori l’Italia,
tradizionale partner della Francia nelle coproduzioni anche quando, nel
1938, a Marsiglia la nostra Nazionale veniva fischiata dai fan del Fronte
popolare perché scendeva in campo con la maglia nera e un grande fascio
littorio accanto allo scudetto tricolore.
Aldo Tassone, critico e storico, direttore di France-Cinéma, che promuove
annualmente la bella rassegna del cinema francese di Firenze, dice
arrabbiato con Toscan: «Sulle responsabilità televisive, ricordo che la
Francia impone alle sue tv di trasmettere i film francesi anche in prima
serata; in Italia le tv danno i film italiani – salvo quelli di Sergio Leone
– solo dopo mezzanotte. E poi, in Francia, Tornatore come Soldini,
Calopresti come Nichetti si scontrano con le sistematiche stroncature del
Monde e di Libération».
Michele Anselmi, critico dell’Unità fino alla chiusura, si chiede: «Ma dove
incontra Toscan cinematografari di sinistra e di estrema sinistra che ancora
accusino Berlusconi della crisi del settore? Ormai i film di Argento,
Bertolucci, Salvatores e Scola sono prodotti e/o distribuiti dalla Medusa,
che è di Berlusconi. E poi non è vero che i grandi registi italiani di una
volta facessero incassi altrettanto grandi: la Titanus rischiò di fallire
per Il gattopardo di Visconti. La sintonia fra popolo e cinema italiano che
Toscan rimpiange c’è stata solo per La dolce vita, ma anche allora un film
con Franchi & Ingrassia incassava di più. Però Toscan ha ragione quando dice
indirettamente che per la Melandri è stato uno smacco l’esclusione
dell’Italia dall’asse franco-tedesco: Parigi e Berlino, ma soprattutto la
prima, non ci giudicano più un partner attendibile. E hanno ragione lui e il
presidente del festival di Cannes, Gilles Jacob, nel dire che il nostro è
ormai un cinema “piccolo”, di autori confinatisi in un alfabeto unicamente
cinematografico e disinteressati alla politica: quando aprono un quotidiano,
evidentemente, guardano solo la pagina degli spettacoli».
Critico della Gazzetta di Parma, quotidiano vicino al Polo, e saggista,
anche Maurizio Schiaretti mette in evidenza che «De Sica, Visconti,
Rossellini, Risi, Comencini e Monicelli non hanno avuto subito il consenso
popolare. Senza produttori degni di questo nome, non avrebbero girato il
secondo e il terzo film. Quanto a Berlusconi, non ha ucciso il cinema
italiano; è il cinema italiano a essersi suicidato, consegnandosi alle tv,
anche pubbliche, i dirigenti delle quali non brillano per lungimiranza. È
stata una resa pressoché incondizionata. Il “diritto d’antenna” ha eliminato
proprio i produttori come Ponti e De Laurentiis, che avevano il coraggio di
rischiare sugli autori e sui progetti. Il colpo di grazia è venuto dal
cinema regionale. Un film toscano fa il pieno al botteghino? Tre mesi dopo
ecco dieci film toscani in programmazione. Non è inseguendo un pubblico
diseducato dal piccolo schermo che si rilancia un grande schermo privo
quanto mai di talenti e sempre più affidato proprio ad autori e interpreti
delle tristi serate televisive. Di conseguenza il cinema italiano sarà
schiacciato dagli americani, che almeno sanno confezionare le loro scatole
vuote».
Sulla sempre relativa commercialità degli autori italiani interviene anche
Piero Pruzzo, storico del cinema e direttore del mensile Film Doc: «Solo in
Italia si sono visti in tv film a bizzeffe, senza alcuna regola. Questo
processo ha portato il cinema a dipendere dalla produzione tv, quindi a
pensare i film per il piccolo schermo, incluse le pause per gli spot. Ma
anche la stampa ha le sue responsabilità. Già una ventina d’anni fa un noto
direttore preferiva che si parlasse poco dei film italiani: aveva stabilito
che al pubblico non piacevano, ma se oggi Pane e tulipani è diventato un
successo è perché, nonostante il primo magro fine settimana, l’Istituto Luce
ha insistito a tenerlo nelle sale. E poi s’è imposta una generazione di
giornalisti pronta a dare pagine e pagine a James Bond e a Clint Eastwood,
ma solo dieci righe a Abbas Kiarostami e a Zhang Yimou. In questo clima il
nostro cinema ha continuato a vivere di exploit: strana, da noi, non è la
crisi, ma che ogni tanto se ne esca».
Questa debolezza del cinema italiano si è manifestata con l’esclusione dal
concorso nell’ultimo Festival di Cannes. Si è ribattuto – come ha fatto
Tassone – che Pane e tulipani non era peggiore di altri film, francesi o non
francesi, invece ammessi. Ma un Festival non è solo un concorso estetico.
Cannes è lo pseudonimo di Canal Plus ed è dunque eminentemente la vetrina
della cinematografia francese che questa rete sponsorizza; Venezia è lo
pseudonimo di Telepiù ed è dunque eminentemente la vetrina della
cinematografia italiana che questa rete sponsorizza. Se – oltre a questi –
si espongono a Cannes e a Venezia film modesti di paesi cinematograficamente
minori, è per barattare l’importazione di film francesi e italiani in quei
paesi. Rispetto a Cannes, inoltre, il cinema italiano manca di potere
contrattuale perché ormai il nostro pubblico riserva solo il 4 per cento
degli incassi ai film francesi. Il discorso sarebbe reciproco con Venezia
per il cinema francese, che invece è ancora ben rappresentato proprio per il
sostegno politico di cui gode.
Discorso analogo comincia a valere per il Festival di Berlino: nel 1999 non
c’è stato nessun film italiano in concorso; nel 2000 uno, ma solo come gesto
di buona volontà, perché, per la sua pochezza, sarebbe stato da escludere.
Non si sottovaluti Berlino. Mentre i veneziani detestano la Mostra e chi la
frequenta, mentre l’Italia non riesce a costruire al Lido un nuovo palazzo
del cinema, la capitale tedesca ha capito che formidabile biglietto da
visita sia una rassegna cinematografica mondiale e ormai contende a Cannes
il primato festivaliero, necessario volàno per riportare agli antichi
livelli una cinematografia grande ai tempi dell’Ufa di Hugenberg e che, nel
dopoguerra, ha lanciato Herzog e Fassbinder, Schlöndorff e Wenders, la
Schneider e Kinski, Brandauer e Ganz.
Non è tutto. Tagliata fuori dall’asse franco-tedesco, l’Italia di Cinecittà
si prepara a uscire – stando ai sondaggi elettorali – anche dalla sfera
d’influenza della sinistra e a correre in aiuto del vincitore. Ma la destra
ha una politica cinematografica? Se ce l’ha, la nasconde bene. Non si
intende per politica cinematografica il candidare questo o quel regista al
Parlamento, o peggio arruolare questo o quell’attore di second’ordine per
una “convention” forzitaliana o una sagra aennesca, ma l’avere un’idea che
l’industria dell’immaginario è generosa solo con chi ci sa fare: si pensi
alla perfezione raggiunta da Hollywood, il ministero della Propaganda di
Washington: induce non solo gli americani, ma gli europei (gli asiatici, gli
africani, eccetera) a pagare il biglietto per farsi indottrinare sul
migliore dei mondi possibili, l’american way of life. Ha poi la destra una
critica cinematografica che non riduca l’estetica all’economia (“è bello il
film che incassa”)? O che non si limiti a esaltare la “censura del mercato”,
cioè il principio che è giusto il silenzio sui film non di alto
intrattenimento? Non c’è industria che possa abbassare all’infinito la
qualità del prodotto senza alla fine rimetterci. Cinecittà ha perso
l’egemonia di cui godeva negli anni Sessanta e Settanta sul mercato italiano
dello spettacolo proprio come la Fiat ha perso quella di quella di cui
godeva nello stesso periodo sul mercato italiano dell’automobile.
Gli interessi dell’Italia non sono necessariamente quelli di Cinecittà, come non sono quelli della Fiat. Ma è difficile disgiungerli.
(c)
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