C'era una volta Cinecittà
di Maurizio Cabona
Ideazione di settembre-ottobre 2000

I film italiani non piacciono più, salvo Nuovo cinema Paradiso, Mediterraneo e naturalmente La vita è bella. Tutte storie degli anni Quaranta e tutti premi Oscar: che non sia il cinema, ma il popolo italiano di oggi, rispecchiato dal suo cinema, a non piacere più neanche a se stesso? L’eccezione che conferma la regola è Pane e tulipani del Soldini regista (non dello skipper, quello è suo fratello). Commuove nonne e zie, sorelle e cugine. Bene, tutto fa, anche le midinettes. Ma per il resto siamo tornati una colonia cinematografica degli americani, come nel dopoguerra, e stavolta abbiamo meno prospettive di non esserlo più, un giorno. La crisi della particolare industria detta cinema, che talora produce una forma d’arte, il film, non è più causata in Italia da eventi eccezionali, ai quali autori altrettanto eccezionali possano opporre l’inventiva. Oggi sono venuti meno fattori che nessuna “ricostruzione”, nessun Piano Marshall e nessun sistema di coproduzioni paiono poter ristabilire: nel 1999 la produzione è stata di novanta film (una volta si arrivava a quattrocento) e solo sei hanno guadagnato...

I perché del disastro li chiediamo a Daniel Toscan du Plantier, ex direttore della casa di produzione e distribuzione Gaumont-Italia, oggi alla testa dell’ente di promozione del cinema francese (Unifrance). Toscan ha vissuto a lungo in Italia, è stato amico di Roberto Rossellini e si è legato a sua figlia Isabella, poi ha avuto una figlia da Francesca Comencini. È dunque un francese che ama l’Italia – e le italiane dal cognome in “ini” – come una seconda patria. Dice: «Per la sinistra e l’estrema sinistra sono le tv di Berlusconi ad avere ucciso il cinema. Un piagnisteo che inizialmente coinvolgeva anche Craxi, come se fosse stato un uomo di destra. Rispetto ai suoi tempi, quando i ministri socialisti non facevano che parlare di computer e Warner Bros., che cos’è cambiato con D’Alema, e dopo di lui? Le tv di Berlusconi sono l’effetto, non la causa di ciò che è accaduto: innanzitutto, la fine della qualità determinante del cinema italiano, l’identità col suo popolo, la più completa che io abbia conosciuto. La grandezza del vostro cinema è stata immensa grazie alla coincidenza fra altezza culturale e orientamento popolare, sintesi di cui il cinema francese era ed è incapace. Ma quella grande stagione è stata un fenomeno della generazione formatasi in era fascista: Rossellini e De Sica, Fellini e Visconti, Risi e Comencini, Scola e Monicelli hanno avuto ascesa e declino quasi simultanei. I loro successori – con una cultura post-gauchiste, da Little Italy alla Scorsese – non hanno più seguìto una tradizione considerata fuori moda. Se in Francia tutto è parigino, in Italia il cinema era costruito sul modello meridionale, “romano”, che però non era l’unico; infatti poi si è affermato il modello “milanese”, rivelatosi ottimo solo per la tv. È anche per causa sua che il pubblico ha smesso di riconoscersi nel cinema dell’Italia “contadina”: solo che il cinema dell’Italia “industriale”, “europea”, peggio, “americana”, vale poco».

«L’Italia – continua Toscan – ha sofferto a lungo del peggiore circuito di distribuzione nelle sale. Al suo cinema è poi mancata l’attenzione dello Stato. Alla testa del Dipartimento dello spettacolo nel governo Prodi, ha deluso Walter Veltroni. Ci diceva rassegnato che a Prodi il cinema non interessava, ed era vero. Prodi è un “lussemburghese” (il Lussemburgo è la sede europea per eccellenza delle banche americane, ndr). Giovanna Melandri non ci ha deluso, perché da una newyorkese non ci aspettavamo nulla. Fin dai tempi di André Malraux, ministro della Cultura con Charles de Gaulle, il cinema in Francia ha un peso politico. L’accordo firmato a Berlino lo scorso 26 giugno per un consorzio di rilancio del cinema europeo lo ribadisce». Consorzio franco-tedesco che rinverdisce i fasti della Continental, la casa di produzione che con soldi tedeschi produsse i capolavori di Clouzot nella Parigi occupata. Un bell’archetipo, ma che taglia fuori l’Italia, tradizionale partner della Francia nelle coproduzioni anche quando, nel 1938, a Marsiglia la nostra Nazionale veniva fischiata dai fan del Fronte popolare perché scendeva in campo con la maglia nera e un grande fascio littorio accanto allo scudetto tricolore.

Aldo Tassone, critico e storico, direttore di France-Cinéma, che promuove annualmente la bella rassegna del cinema francese di Firenze, dice arrabbiato con Toscan: «Sulle responsabilità televisive, ricordo che la Francia impone alle sue tv di trasmettere i film francesi anche in prima serata; in Italia le tv danno i film italiani – salvo quelli di Sergio Leone – solo dopo mezzanotte. E poi, in Francia, Tornatore come Soldini, Calopresti come Nichetti si scontrano con le sistematiche stroncature del Monde e di Libération».

Michele Anselmi, critico dell’Unità fino alla chiusura, si chiede: «Ma dove incontra Toscan cinematografari di sinistra e di estrema sinistra che ancora accusino Berlusconi della crisi del settore? Ormai i film di Argento, Bertolucci, Salvatores e Scola sono prodotti e/o distribuiti dalla Medusa, che è di Berlusconi. E poi non è vero che i grandi registi italiani di una volta facessero incassi altrettanto grandi: la Titanus rischiò di fallire per Il gattopardo di Visconti. La sintonia fra popolo e cinema italiano che Toscan rimpiange c’è stata solo per La dolce vita, ma anche allora un film con Franchi & Ingrassia incassava di più. Però Toscan ha ragione quando dice indirettamente che per la Melandri è stato uno smacco l’esclusione dell’Italia dall’asse franco-tedesco: Parigi e Berlino, ma soprattutto la prima, non ci giudicano più un partner attendibile. E hanno ragione lui e il presidente del festival di Cannes, Gilles Jacob, nel dire che il nostro è ormai un cinema “piccolo”, di autori confinatisi in un alfabeto unicamente cinematografico e disinteressati alla politica: quando aprono un quotidiano, evidentemente, guardano solo la pagina degli spettacoli».

Critico della Gazzetta di Parma, quotidiano vicino al Polo, e saggista, anche Maurizio Schiaretti mette in evidenza che «De Sica, Visconti, Rossellini, Risi, Comencini e Monicelli non hanno avuto subito il consenso popolare. Senza produttori degni di questo nome, non avrebbero girato il secondo e il terzo film. Quanto a Berlusconi, non ha ucciso il cinema italiano; è il cinema italiano a essersi suicidato, consegnandosi alle tv, anche pubbliche, i dirigenti delle quali non brillano per lungimiranza. È stata una resa pressoché incondizionata. Il “diritto d’antenna” ha eliminato proprio i produttori come Ponti e De Laurentiis, che avevano il coraggio di rischiare sugli autori e sui progetti. Il colpo di grazia è venuto dal cinema regionale. Un film toscano fa il pieno al botteghino? Tre mesi dopo ecco dieci film toscani in programmazione. Non è inseguendo un pubblico diseducato dal piccolo schermo che si rilancia un grande schermo privo quanto mai di talenti e sempre più affidato proprio ad autori e interpreti delle tristi serate televisive. Di conseguenza il cinema italiano sarà schiacciato dagli americani, che almeno sanno confezionare le loro scatole vuote».

Sulla sempre relativa commercialità degli autori italiani interviene anche Piero Pruzzo, storico del cinema e direttore del mensile Film Doc: «Solo in Italia si sono visti in tv film a bizzeffe, senza alcuna regola. Questo processo ha portato il cinema a dipendere dalla produzione tv, quindi a pensare i film per il piccolo schermo, incluse le pause per gli spot. Ma anche la stampa ha le sue responsabilità. Già una ventina d’anni fa un noto direttore preferiva che si parlasse poco dei film italiani: aveva stabilito che al pubblico non piacevano, ma se oggi Pane e tulipani è diventato un successo è perché, nonostante il primo magro fine settimana, l’Istituto Luce ha insistito a tenerlo nelle sale. E poi s’è imposta una generazione di giornalisti pronta a dare pagine e pagine a James Bond e a Clint Eastwood, ma solo dieci righe a Abbas Kiarostami e a Zhang Yimou. In questo clima il nostro cinema ha continuato a vivere di exploit: strana, da noi, non è la crisi, ma che ogni tanto se ne esca».

Questa debolezza del cinema italiano si è manifestata con l’esclusione dal concorso nell’ultimo Festival di Cannes. Si è ribattuto – come ha fatto Tassone – che Pane e tulipani non era peggiore di altri film, francesi o non francesi, invece ammessi. Ma un Festival non è solo un concorso estetico. Cannes è lo pseudonimo di Canal Plus ed è dunque eminentemente la vetrina della cinematografia francese che questa rete sponsorizza; Venezia è lo pseudonimo di Telepiù ed è dunque eminentemente la vetrina della cinematografia italiana che questa rete sponsorizza. Se – oltre a questi – si espongono a Cannes e a Venezia film modesti di paesi cinematograficamente minori, è per barattare l’importazione di film francesi e italiani in quei paesi. Rispetto a Cannes, inoltre, il cinema italiano manca di potere contrattuale perché ormai il nostro pubblico riserva solo il 4 per cento degli incassi ai film francesi. Il discorso sarebbe reciproco con Venezia per il cinema francese, che invece è ancora ben rappresentato proprio per il sostegno politico di cui gode.

Discorso analogo comincia a valere per il Festival di Berlino: nel 1999 non c’è stato nessun film italiano in concorso; nel 2000 uno, ma solo come gesto di buona volontà, perché, per la sua pochezza, sarebbe stato da escludere. Non si sottovaluti Berlino. Mentre i veneziani detestano la Mostra e chi la frequenta, mentre l’Italia non riesce a costruire al Lido un nuovo palazzo del cinema, la capitale tedesca ha capito che formidabile biglietto da visita sia una rassegna cinematografica mondiale e ormai contende a Cannes il primato festivaliero, necessario volàno per riportare agli antichi livelli una cinematografia grande ai tempi dell’Ufa di Hugenberg e che, nel dopoguerra, ha lanciato Herzog e Fassbinder, Schlöndorff e Wenders, la Schneider e Kinski, Brandauer e Ganz.

Non è tutto. Tagliata fuori dall’asse franco-tedesco, l’Italia di Cinecittà si prepara a uscire – stando ai sondaggi elettorali – anche dalla sfera d’influenza della sinistra e a correre in aiuto del vincitore. Ma la destra ha una politica cinematografica? Se ce l’ha, la nasconde bene. Non si intende per politica cinematografica il candidare questo o quel regista al Parlamento, o peggio arruolare questo o quell’attore di second’ordine per una “convention” forzitaliana o una sagra aennesca, ma l’avere un’idea che l’industria dell’immaginario è generosa solo con chi ci sa fare: si pensi alla perfezione raggiunta da Hollywood, il ministero della Propaganda di Washington: induce non solo gli americani, ma gli europei (gli asiatici, gli africani, eccetera) a pagare il biglietto per farsi indottrinare sul migliore dei mondi possibili, l’american way of life. Ha poi la destra una critica cinematografica che non riduca l’estetica all’economia (“è bello il film che incassa”)? O che non si limiti a esaltare la “censura del mercato”, cioè il principio che è giusto il silenzio sui film non di alto intrattenimento? Non c’è industria che possa abbassare all’infinito la qualità del prodotto senza alla fine rimetterci. Cinecittà ha perso l’egemonia di cui godeva negli anni Sessanta e Settanta sul mercato italiano dello spettacolo proprio come la Fiat ha perso quella di quella di cui godeva nello stesso periodo sul mercato italiano dell’automobile.

Gli interessi dell’Italia non sono necessariamente quelli di Cinecittà, come non sono quelli della Fiat. Ma è difficile disgiungerli.

 

 

Maurizio Cabona, critico cinematografico del Giornale.

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