«È
il 6 aprile. Denunciare prima di oggi il comportamento scorretto di compagni
di cordata avrebbe probabilmente offerto il fianco a strumentalizzazioni
non opportune. Un rischio da non correre quando c’è in ballo
anche e soprattutto la questione nazionale. Adesso è arrivato il
momento di dire la verità. Denunciare il comportamento scorretto
di un candidato inopportunamente inserito nella lista dell’Unione,
Giovanni Rapanà, in quota Margherita è atto dovuto e atto
di giustizia, nei confronti della collettività italiana, di ciò
in cui crediamo e nei confronti della serietà e coerenza del lavoro
e dei valori ai quali si ispira la coalizione dell’Unione».
Comincia così, a urne appena chiuse, lo psicodramma del centrosinistra
nordamericano, vincente soltanto per un errore di tattica elettorale della
cdl, troppo sicura – forse – di fare comunque man bassa di consensi,
e fisiologicamente incapace, per i troppi personalismi, di fare causa comune
per agguantare un en plein che era davvero a portata di mano. Il comunicato,
diffuso a tutte le testate giornalistiche in lingua italiana del Nordamerica,
porta la firma dei candidati canadesi dell’Unione, Rocco Di Trolio
della Rosa nel Pugno e Gino Bucchino dei Ds, oltre che quelle dei referenti
politici dei partiti del centrosinistra. Bucchino, qualche giorno più
tardi, risulterà eletto. Rapanà no. E così l’Unione
ha potuto “normalizzare” una delle tante anomalie che hanno
caratterizzato la prima campagna elettorale per il voto degli italiani all’estero.
La prima e, chissà, forse anche l’ultima.
Non c’è molto da sperare, per gli italiani nel mondo, d’altro
canto. Perché con la sconfitta di misura della Casa delle Libertà
nella Circoscrizione estero, che ha consentito il ribaltone in favore del
centrosinistra al Senato, la loro speranza di un ruolo politico duraturo
nella politica italiana è decisamente al lumicino. Era stato proprio
il centrodestra, con l’ostinazione dell’ormai ex ministro Mirko
Tremaglia, a volerlo concedere, questo diritto di voto agli emigrati. L’ex
ragazzo di Salò, che di questa battaglia s’era nutrito e sulla
quale aveva costruito un’intera carriera politica, adesso è
diventato la beffarda icona di chi esulta per la sconfitta di Silvio Berlusconi
e del centrodestra alle politiche del 9 e 10 aprile. “Tremaglia santo
subito”, era uno degli striscioni più azzeccati (e meno offensivi)
che i giovani dei centri sociali milanesi hanno esposto durante il corteo
del 25 aprile, quello dei fischi alla Moratti. Uno sfottò per quello
che è considerato choram populo uno dei principali autogol della
cdl (l’altro è la legge elettorale proporzionale dell’ultima
ora, il “Calderolum”). E che si sia trattato di un autogol c’è
poco da dire: è vero.
Voto all’estero: i numeri e la propaganda
Non sono
vere, però, le analisi di chi – a sinistra – ha gridato
al miracolo, millantando una svolta a sinistra degli elettori all’estero
che non c’è stata e che, a giudicare dalle cifre, difficilmente
mai ci sarà. I numeri parlano chiaro: nella ripartizione nordamericana,
che comprende Canada, Stati Uniti, Messico e paesi centroamericani, l’Unione
non ha sfondato quasi da nessuna parte quota 40 per cento. E le stesse cifre,
con variazioni minime, si sono registrate pressoché ovunque anche
nelle altre ripartizioni della Circoscrizione estero: dall’Europa
all’Oceania, all’America meridionale. Dappertutto, il centrosinistra
ha dimostrato di essere minoranza strutturale, a fronte di un centrodestra
che mediamente ha mietuto tra il 60 e il 70 per cento dei consensi, ma che
lo ha fatto in ordine sparso, con tre, quattro o addirittura cinque liste
a spartirsi un bottino che – ipoteticamente ricchissimo – si
è ridotto a ben poca cosa. Perché la scelta di Tremaglia di
presentare una lista col suo nome anziché quello di Berlusconi ha
portato i vari partiti della coalizione a sentirsi autorizzati ad andare
per proprio conto: Forza Italia, udc, Lega Nord hanno presentato ciascuna
i loro candidati, e Alleanza nazionale – per rimediare al passo falso
del suo ministro – ha dovuto far buon viso a cattivo gioco e non presentare
il suo simbolo, per far sopravvivere la Lista Tremaglia.
È stato in quel momento – quando cioè le forze della
cdl non hanno saputo o voluto trovare una sintesi – che il centrodestra
ha determinato da sé la propria sconfitta all’estero. E ciononostante
le performance di Forza Italia in molti casi (come per Sal Ferrigno, eletto
deputato negli Stati Uniti con migliaia di preferenze personali) sono state
tali da insidiare il primato dell’Unione, con gli azzurri che raccoglievano
in tante città il 30 o il 35 per cento da soli e il centrosinistra,
dall’udeur a Rifondazione, il 37 o il 38.
Fatta eccezione per uno o due indipendenti in Sud America (come quel senatore
Luigi Pallaro che ha cercato in più occasioni di far pesare il suo
ruolo di probabile ago della bilancia a Palazzo Madama), se unito il centrodestra
avrebbe potuto pertanto facilmente conquistare almeno 11 dei 12 seggi messi
in palio alla Camera per gli emigrati, e 5 dei 6 al Senato.
Le cose sono andate diversamente, e per l’ex ministro per gli Italiani
nel mondo adesso s’è aperto un processo di canonizzazione per
direttissima fortemente voluto da quelli che, fino a ieri, erano i suoi
avversari politici.
La svolta a sinistra, quindi, non c’è stata. Proprio perché
– come in patria e anche di più – il centrodestra è
maggioranza naturale tra gli italiani all’estero. Ma lo è per
ragioni diverse da quelle che pensano i “Tremaglia boys”, che
spesso e volentieri amano ritrarre gli italiani nel mondo come un folcloristico
gruppo di mangiaspaghetti col tricolore steso in cucina a fare da sfondo
a salsicce e trecce d’aglio. Su questo, politici e analisti dell’area
del centrosinistra hanno ragione: gli ex emigrati sono tutta un’altra
cosa. C’è, è vero, una porzione di italiani residenti
all’estero, specie tra i più anziani, tuttora legata ai miti
di un’Italia che vive al di sopra le proprie possibilità (e
che al di sopra delle proprie possibilità individua i suoi obiettivi)
che tanta parte hanno avuto nell’immaginario collettivo dell’epoca
fascista. Ma si tratta per l’appunto di una minoranza di anziani che
– per quanto riguarda il Canada e, in misura minore, gli Stati Uniti
– spesso e volentieri non hanno più nemmeno il passaporto italiano.
Quelli che Tremaglia vagheggia e che i soloni di sinistra alla Zucconi stigmatizzano,
insomma, non sono nemmeno elettori. Gli italiani residenti all’estero,
e nella fattispecie in Nordamerica, che il diritto di voto ce l’hanno,
sono spesso di tutt’altra pasta. Generalizzare è difficile
e sbagliato, e c’è da dire che almeno una città, New
York, costituisce un caso a parte: sono troppi, infatti, gli italiani che
vivono nella Grande Mela solo per qualche anno, di passaggio o poco più,
per fare affari, per respirare anche solo l’aria di Wall Street. Considerarli
alla stregua di chi vive a Toronto o nel Midwest con la prospettiva di restare,
di piantare radici e cambiare vita e mentalità, non sarebbe giusto
e risulterebbe fuorviante. E lo è stato, perché sono quelli
gli Italians di cui hanno parlato perlopiù i corrispondenti dei giornali
italiani nelle scorse settimane. Erano loro i giovani del business, dei
dottorati di ricerca, del «speriamo che vinca Prodi e la modernizzazione
del paese». Roba che con gli italiani all’estero c’entra
e non c’entra. Gente che, in Nordamerica, ci soggiorna per il tempo
di un master o di uno stage. Turisti dell’istruzione a caro prezzo,
non emigrati.
La comunità italiana di Toronto
Per
capire qualcosa, insomma, bisogna tener presente che New York c’è,
ma va dimenticata in un angolo per guardare altrove. Toronto, che come numero
di aventi diritto al voto si piazza subito dietro la Grande Mela, è
sicuramente un campione più rappresentativo. Cominciamo dai numeri:
con una comunità di quasi settecentomila persone con cognome italiano,
gli iscritti all’Aire, l’anagrafe per gli italiani residenti
all’estero, sono appena settantamila. Il che vuol dire che soltanto
un italocanadese su dieci è ancora cittadino italiano e, pertanto,
elettore. Proporzioni che più o meno si ripetono quasi dappertutto,
con qualche eccezione in America Latina, dove di solito la percentuale di
chi ha ancora il passaporto italiano è un po’ più elevata.
È in questo dieci per cento di italiani con le carte in regola che
i partiti vanno a pescare: si tratta spesso di connazionali che risiedono
all’estero soltanto da qualche anno, e che inevitabilmente hanno la
testa ancora rivolta alla terra d’origine, non ancora del tutto integrati,
nonostante siano spesso “cervelli in fuga”.
Ma ci sono anche gli emigrati di lungo corso, quelli che – dagli anni
Ottanta e Novanta, quando negli Usa e in Canada sono cambiate le normative
sulla cittadinanza – hanno fatto le file davanti ai consolati per
poter riacquistare, dopo avervi rinunciato anni prima, la cittadinanza italiana.
Il loro essere prevalentemente di centrodestra, in un caso e nell’altro,
ha poco o nulla a che vedere con l’orgoglio patriottico: per quello
basta la nazionale di calcio, il passaporto è secondario. C’entra,
invece, specie per quelli del Nordamerica, una visione del mondo ormai irreversibilmente
diversa da quella dei connazionali rimasti in patria, specie quelli di sinistra.
Statalismo, assistenzialismo, lavorare-meno-lavorare-tutti, teorie e tecniche
dello sciopero come arma politica sono arnesi vecchi dei quali questa gente
non vuol nemmeno sentir parlare. In questo gli italoamericani e gli italocanadesi
sono, più o meno, tutti uguali. Abituati a lavorar sodo, a risparmiare
su tutto a costo di essere oggetto dello scherno dei wasp («d’estate
si nascondono nel basement per settimane fingendo d’essere andati
in vacanza», dicevano i canadesi degli italiani, non più tardi
di una quindicina d’anni fa), ad avere una casa di proprietà
e, possibilmente, a lavorare in proprio, gli italiani d’America sono
forse la comunità meno “di sinistra” del variegato panorama
multietnico dei due Stati a sud e a nord del 49° parallelo. Il welfare,
tra gli italiani di Toronto, è una parolaccia, un disonore che si
lascia – a volte con una punta di malcelato razzismo, specie tra i
più anziani – alle persone di colore. Gli italiani sono, di
solito, quelli che più in fretta degli altri raggiungono l’indipendenza
e il successo economico, e che – diventati “padroni” –
sognano soltanto di poter pagare un po’ meno tasse e di continuare
a pregare i loro santi, nella loro lingua. Il ritratto di un elettore medio
del centrodestra, verrebbe da dire. Un’immagine che pare ricalcare
i tratti di quel popolo delle partite Iva che nemmeno in quest’ultima
tornata elettorale ha voluto saperne di abbandonare il Cavaliere.
Facile immaginare come queste partite Iva d’Oltreoceano non abbiano
nemmeno capito cosa potesse essere quella “felicità organizzata”
promessa con fare messianico da Romano Prodi nel suo appello al voto trasmesso,
da queste parti, da Rai International.
In questo scenario, fatte le debite eccezioni, spesso i candidati esteri
a queste elezioni politiche sono stati l’espressione di appendici
dimenticate di un’Italia – questa sì – burocratica
e assistenzialista, a cominciare dai rappresentanti dei patronati sindacali
finanziati con denaro pubblico, trasformati in comitati elettorali di vario
colore all’approssimarsi del voto. Le eccezioni di manager e imprenditori
affermati in Nordamerica (come il senatore di Chicago dell’Unione,
Ron Turano, re dei panificatori degli Stati Uniti) sono state pochissime:
nella stragrande maggioranza dei casi, i candidati sono stati gli habitué
dei Comites e del Cgie, gli organismi (locali i primi, mondiale il secondo)
degli italiani all’estero, persone con la testa rivolta al passato,
all’Italia, non perché malate di nostalgia ma perché
pressoché sconosciute al di fuori delle comunità italiane,
mai emerse del tutto nei paesi che le hanno ospitate. Dice Odoardo Di Santo,
ex giornalista dell’Agi arrivato a Toronto negli anni Sessanta e da
allora diventato parlamentare e poi manager pubblico, oggi in pensione:
«Alcuni amici mi avevano proposto di candidarmi alle elezioni politiche
italiane. Potevo, perché ho la doppia cittadinanza, italiana e canadese.
Ci ho pensato per un po’, ma alla fine sono giunto alla conclusione
che il mio posto è a Toronto: è qui che ho fatto politica
per quarant’anni, che ho lavorato, che ho costruito una famiglia.
È qui, anche, che pago le tasse. In Italia ci torno se non tutti
gli anni, comunque spesso, ma un conto è conservare la nostalgia
del mio Abruzzo, e un conto volermi occupare di un paese che amo, ma nel
quale i miei figli non devono crescere: non mi pare giusto. Credo che chi
si candida lo faccia, più che altro, per rientrare “nel giro”,
per farsi riaccettare da un’Italia che ha dovuto abbandonare, ma che
forse non avrebbe mai voluto lasciare. Io le mie occasioni di tornare le
ho avute, e anche buone: ma la mia vita, ormai, era in Canada».
Se queste erano le premesse, non era difficile immaginare quali potessero
essere i risultati. Lungi dall’aver metabolizzato la batosta elettorale,
la cdl – che ne era la paladina – da un giorno all’altro
è diventata la più acerrima nemica del voto degli italiani
all’estero. A Porta a Porta è stato lo stesso Berlusconi a
stupirsi del fatto che chi non paga le tasse in Italia possa avere il diritto
di votare i propri rappresentanti al Parlamento. L’Unione, dal canto
suo, pur avendo approfittato dell’insperata (e, forse, irripetibile)
divisione del centrodestra, sa che difficilmente potrà bissare il
successo e mostra insofferenza per tutto ciò che riguarda gli “italiani
nel mondo”: per decidere chi dovesse prendere il posto che era di
Tremaglia al governo (trasformato in un viceministero degli Esteri) ci sono
volute due settimane in più di quanto non sia servito a formare tutto
il resto dell’esecutivo. E all’indicazione del senatore della
Margherita Franco Danieli (peraltro eletto in Italia e non all’estero)
si è arrivati dopo un gioco di veti incrociati, anche sul suo nome,
tra ds e centristi, col dipietrista Leoluca Orlando rimasto a fare il vaso
di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Il caso delle liti all’interno
del centrosinistra canadese, insomma, è emblematico e tutt’altro
che sporadico. Come emblematiche sono state le accuse che i vari candidati
more italico si sono scambiati circa presunti brogli elettorali, peraltro
facilmente immaginabili in un sistema di voto che prevede la spedizione
a casa della scheda elettorale e la possibilità che chiunque intercetti
il plico, apponga la croce che meglio crede e rispedisca il tutto indietro
anche all’insaputa dell’elettore vero. Negli Stati Uniti sono
stati alcuni esponenti dell’udc a sollevare il caso di presunte irregolarità.
In Canada è stato il controverso candidato della Margherita di Montréal,
Giovanni Rapanà: «Ci sono state gravi manipolazioni del voto,
molte buste con le schede in giro per giorni, cassette delle lettere manomesse
o spostate: valuterò se presentare nelle prossime ore una formale
denuncia su quanto è accaduto», aveva dichiarato all’indomani
del voto. Di quella denuncia, manco a dirlo, non si è più
sentito parlare.
Alan Patarga, giornalista parlamentare del Corriere Canadese, quotidiano
italiano di Toronto, è corrispondente dal Canada per Avvenire, Il
Foglio e Radio Vaticana.
(c)
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