Toronto, Italia
di Alan Patarga
Ideazione di luglio-agosto 2006

«È il 6 aprile. Denunciare prima di oggi il comportamento scorretto di compagni di cordata avrebbe probabilmente offerto il fianco a strumentalizzazioni non opportune. Un rischio da non correre quando c’è in ballo anche e soprattutto la questione nazionale. Adesso è arrivato il momento di dire la verità. Denunciare il comportamento scorretto di un candidato inopportunamente inserito nella lista dell’Unione, Giovanni Rapanà, in quota Margherita è atto dovuto e atto di giustizia, nei confronti della collettività italiana, di ciò in cui crediamo e nei confronti della serietà e coerenza del lavoro e dei valori ai quali si ispira la coalizione dell’Unione».
Comincia così, a urne appena chiuse, lo psicodramma del centrosinistra nordamericano, vincente soltanto per un errore di tattica elettorale della cdl, troppo sicura – forse – di fare comunque man bassa di consensi, e fisiologicamente incapace, per i troppi personalismi, di fare causa comune per agguantare un en plein che era davvero a portata di mano. Il comunicato, diffuso a tutte le testate giornalistiche in lingua italiana del Nordamerica, porta la firma dei candidati canadesi dell’Unione, Rocco Di Trolio della Rosa nel Pugno e Gino Bucchino dei Ds, oltre che quelle dei referenti politici dei partiti del centrosinistra. Bucchino, qualche giorno più tardi, risulterà eletto. Rapanà no. E così l’Unione ha potuto “normalizzare” una delle tante anomalie che hanno caratterizzato la prima campagna elettorale per il voto degli italiani all’estero. La prima e, chissà, forse anche l’ultima.
Non c’è molto da sperare, per gli italiani nel mondo, d’altro canto. Perché con la sconfitta di misura della Casa delle Libertà nella Circoscrizione estero, che ha consentito il ribaltone in favore del centrosinistra al Senato, la loro speranza di un ruolo politico duraturo nella politica italiana è decisamente al lumicino. Era stato proprio il centrodestra, con l’ostinazione dell’ormai ex ministro Mirko Tremaglia, a volerlo concedere, questo diritto di voto agli emigrati. L’ex ragazzo di Salò, che di questa battaglia s’era nutrito e sulla quale aveva costruito un’intera carriera politica, adesso è diventato la beffarda icona di chi esulta per la sconfitta di Silvio Berlusconi e del centrodestra alle politiche del 9 e 10 aprile. “Tremaglia santo subito”, era uno degli striscioni più azzeccati (e meno offensivi) che i giovani dei centri sociali milanesi hanno esposto durante il corteo del 25 aprile, quello dei fischi alla Moratti. Uno sfottò per quello che è considerato choram populo uno dei principali autogol della cdl (l’altro è la legge elettorale proporzionale dell’ultima ora, il “Calderolum”). E che si sia trattato di un autogol c’è poco da dire: è vero.

Voto all’estero: i numeri e la propaganda
Non sono vere, però, le analisi di chi – a sinistra – ha gridato al miracolo, millantando una svolta a sinistra degli elettori all’estero che non c’è stata e che, a giudicare dalle cifre, difficilmente mai ci sarà. I numeri parlano chiaro: nella ripartizione nordamericana, che comprende Canada, Stati Uniti, Messico e paesi centroamericani, l’Unione non ha sfondato quasi da nessuna parte quota 40 per cento. E le stesse cifre, con variazioni minime, si sono registrate pressoché ovunque anche nelle altre ripartizioni della Circoscrizione estero: dall’Europa all’Oceania, all’America meridionale. Dappertutto, il centrosinistra ha dimostrato di essere minoranza strutturale, a fronte di un centrodestra che mediamente ha mietuto tra il 60 e il 70 per cento dei consensi, ma che lo ha fatto in ordine sparso, con tre, quattro o addirittura cinque liste a spartirsi un bottino che – ipoteticamente ricchissimo – si è ridotto a ben poca cosa. Perché la scelta di Tremaglia di presentare una lista col suo nome anziché quello di Berlusconi ha portato i vari partiti della coalizione a sentirsi autorizzati ad andare per proprio conto: Forza Italia, udc, Lega Nord hanno presentato ciascuna i loro candidati, e Alleanza nazionale – per rimediare al passo falso del suo ministro – ha dovuto far buon viso a cattivo gioco e non presentare il suo simbolo, per far sopravvivere la Lista Tremaglia.
È stato in quel momento – quando cioè le forze della cdl non hanno saputo o voluto trovare una sintesi – che il centrodestra ha determinato da sé la propria sconfitta all’estero. E ciononostante le performance di Forza Italia in molti casi (come per Sal Ferrigno, eletto deputato negli Stati Uniti con migliaia di preferenze personali) sono state tali da insidiare il primato dell’Unione, con gli azzurri che raccoglievano in tante città il 30 o il 35 per cento da soli e il centrosinistra, dall’udeur a Rifondazione, il 37 o il 38.
Fatta eccezione per uno o due indipendenti in Sud America (come quel senatore Luigi Pallaro che ha cercato in più occasioni di far pesare il suo ruolo di probabile ago della bilancia a Palazzo Madama), se unito il centrodestra avrebbe potuto pertanto facilmente conquistare almeno 11 dei 12 seggi messi in palio alla Camera per gli emigrati, e 5 dei 6 al Senato.
Le cose sono andate diversamente, e per l’ex ministro per gli Italiani nel mondo adesso s’è aperto un processo di canonizzazione per direttissima fortemente voluto da quelli che, fino a ieri, erano i suoi avversari politici.
La svolta a sinistra, quindi, non c’è stata. Proprio perché – come in patria e anche di più – il centrodestra è maggioranza naturale tra gli italiani all’estero. Ma lo è per ragioni diverse da quelle che pensano i “Tremaglia boys”, che spesso e volentieri amano ritrarre gli italiani nel mondo come un folcloristico gruppo di mangiaspaghetti col tricolore steso in cucina a fare da sfondo a salsicce e trecce d’aglio. Su questo, politici e analisti dell’area del centrosinistra hanno ragione: gli ex emigrati sono tutta un’altra cosa. C’è, è vero, una porzione di italiani residenti all’estero, specie tra i più anziani, tuttora legata ai miti di un’Italia che vive al di sopra le proprie possibilità (e che al di sopra delle proprie possibilità individua i suoi obiettivi) che tanta parte hanno avuto nell’immaginario collettivo dell’epoca fascista. Ma si tratta per l’appunto di una minoranza di anziani che – per quanto riguarda il Canada e, in misura minore, gli Stati Uniti – spesso e volentieri non hanno più nemmeno il passaporto italiano. Quelli che Tremaglia vagheggia e che i soloni di sinistra alla Zucconi stigmatizzano, insomma, non sono nemmeno elettori. Gli italiani residenti all’estero, e nella fattispecie in Nordamerica, che il diritto di voto ce l’hanno, sono spesso di tutt’altra pasta. Generalizzare è difficile e sbagliato, e c’è da dire che almeno una città, New York, costituisce un caso a parte: sono troppi, infatti, gli italiani che vivono nella Grande Mela solo per qualche anno, di passaggio o poco più, per fare affari, per respirare anche solo l’aria di Wall Street. Considerarli alla stregua di chi vive a Toronto o nel Midwest con la prospettiva di restare, di piantare radici e cambiare vita e mentalità, non sarebbe giusto e risulterebbe fuorviante. E lo è stato, perché sono quelli gli Italians di cui hanno parlato perlopiù i corrispondenti dei giornali italiani nelle scorse settimane. Erano loro i giovani del business, dei dottorati di ricerca, del «speriamo che vinca Prodi e la modernizzazione del paese». Roba che con gli italiani all’estero c’entra e non c’entra. Gente che, in Nordamerica, ci soggiorna per il tempo di un master o di uno stage. Turisti dell’istruzione a caro prezzo, non emigrati.

La comunità italiana di Toronto
Per capire qualcosa, insomma, bisogna tener presente che New York c’è, ma va dimenticata in un angolo per guardare altrove. Toronto, che come numero di aventi diritto al voto si piazza subito dietro la Grande Mela, è sicuramente un campione più rappresentativo. Cominciamo dai numeri: con una comunità di quasi settecentomila persone con cognome italiano, gli iscritti all’Aire, l’anagrafe per gli italiani residenti all’estero, sono appena settantamila. Il che vuol dire che soltanto un italocanadese su dieci è ancora cittadino italiano e, pertanto, elettore. Proporzioni che più o meno si ripetono quasi dappertutto, con qualche eccezione in America Latina, dove di solito la percentuale di chi ha ancora il passaporto italiano è un po’ più elevata. È in questo dieci per cento di italiani con le carte in regola che i partiti vanno a pescare: si tratta spesso di connazionali che risiedono all’estero soltanto da qualche anno, e che inevitabilmente hanno la testa ancora rivolta alla terra d’origine, non ancora del tutto integrati, nonostante siano spesso “cervelli in fuga”.
Ma ci sono anche gli emigrati di lungo corso, quelli che – dagli anni Ottanta e Novanta, quando negli Usa e in Canada sono cambiate le normative sulla cittadinanza – hanno fatto le file davanti ai consolati per poter riacquistare, dopo avervi rinunciato anni prima, la cittadinanza italiana. Il loro essere prevalentemente di centrodestra, in un caso e nell’altro, ha poco o nulla a che vedere con l’orgoglio patriottico: per quello basta la nazionale di calcio, il passaporto è secondario. C’entra, invece, specie per quelli del Nordamerica, una visione del mondo ormai irreversibilmente diversa da quella dei connazionali rimasti in patria, specie quelli di sinistra. Statalismo, assistenzialismo, lavorare-meno-lavorare-tutti, teorie e tecniche dello sciopero come arma politica sono arnesi vecchi dei quali questa gente non vuol nemmeno sentir parlare. In questo gli italoamericani e gli italocanadesi sono, più o meno, tutti uguali. Abituati a lavorar sodo, a risparmiare su tutto a costo di essere oggetto dello scherno dei wasp («d’estate si nascondono nel basement per settimane fingendo d’essere andati in vacanza», dicevano i canadesi degli italiani, non più tardi di una quindicina d’anni fa), ad avere una casa di proprietà e, possibilmente, a lavorare in proprio, gli italiani d’America sono forse la comunità meno “di sinistra” del variegato panorama multietnico dei due Stati a sud e a nord del 49° parallelo. Il welfare, tra gli italiani di Toronto, è una parolaccia, un disonore che si lascia – a volte con una punta di malcelato razzismo, specie tra i più anziani – alle persone di colore. Gli italiani sono, di solito, quelli che più in fretta degli altri raggiungono l’indipendenza e il successo economico, e che – diventati “padroni” – sognano soltanto di poter pagare un po’ meno tasse e di continuare a pregare i loro santi, nella loro lingua. Il ritratto di un elettore medio del centrodestra, verrebbe da dire. Un’immagine che pare ricalcare i tratti di quel popolo delle partite Iva che nemmeno in quest’ultima tornata elettorale ha voluto saperne di abbandonare il Cavaliere.
Facile immaginare come queste partite Iva d’Oltreoceano non abbiano nemmeno capito cosa potesse essere quella “felicità organizzata” promessa con fare messianico da Romano Prodi nel suo appello al voto trasmesso, da queste parti, da Rai International.
In questo scenario, fatte le debite eccezioni, spesso i candidati esteri a queste elezioni politiche sono stati l’espressione di appendici dimenticate di un’Italia – questa sì – burocratica e assistenzialista, a cominciare dai rappresentanti dei patronati sindacali finanziati con denaro pubblico, trasformati in comitati elettorali di vario colore all’approssimarsi del voto. Le eccezioni di manager e imprenditori affermati in Nordamerica (come il senatore di Chicago dell’Unione, Ron Turano, re dei panificatori degli Stati Uniti) sono state pochissime: nella stragrande maggioranza dei casi, i candidati sono stati gli habitué dei Comites e del Cgie, gli organismi (locali i primi, mondiale il secondo) degli italiani all’estero, persone con la testa rivolta al passato, all’Italia, non perché malate di nostalgia ma perché pressoché sconosciute al di fuori delle comunità italiane, mai emerse del tutto nei paesi che le hanno ospitate. Dice Odoardo Di Santo, ex giornalista dell’Agi arrivato a Toronto negli anni Sessanta e da allora diventato parlamentare e poi manager pubblico, oggi in pensione: «Alcuni amici mi avevano proposto di candidarmi alle elezioni politiche italiane. Potevo, perché ho la doppia cittadinanza, italiana e canadese. Ci ho pensato per un po’, ma alla fine sono giunto alla conclusione che il mio posto è a Toronto: è qui che ho fatto politica per quarant’anni, che ho lavorato, che ho costruito una famiglia. È qui, anche, che pago le tasse. In Italia ci torno se non tutti gli anni, comunque spesso, ma un conto è conservare la nostalgia del mio Abruzzo, e un conto volermi occupare di un paese che amo, ma nel quale i miei figli non devono crescere: non mi pare giusto. Credo che chi si candida lo faccia, più che altro, per rientrare “nel giro”, per farsi riaccettare da un’Italia che ha dovuto abbandonare, ma che forse non avrebbe mai voluto lasciare. Io le mie occasioni di tornare le ho avute, e anche buone: ma la mia vita, ormai, era in Canada».
Se queste erano le premesse, non era difficile immaginare quali potessero essere i risultati. Lungi dall’aver metabolizzato la batosta elettorale, la cdl – che ne era la paladina – da un giorno all’altro è diventata la più acerrima nemica del voto degli italiani all’estero. A Porta a Porta è stato lo stesso Berlusconi a stupirsi del fatto che chi non paga le tasse in Italia possa avere il diritto di votare i propri rappresentanti al Parlamento. L’Unione, dal canto suo, pur avendo approfittato dell’insperata (e, forse, irripetibile) divisione del centrodestra, sa che difficilmente potrà bissare il successo e mostra insofferenza per tutto ciò che riguarda gli “italiani nel mondo”: per decidere chi dovesse prendere il posto che era di Tremaglia al governo (trasformato in un viceministero degli Esteri) ci sono volute due settimane in più di quanto non sia servito a formare tutto il resto dell’esecutivo. E all’indicazione del senatore della Margherita Franco Danieli (peraltro eletto in Italia e non all’estero) si è arrivati dopo un gioco di veti incrociati, anche sul suo nome, tra ds e centristi, col dipietrista Leoluca Orlando rimasto a fare il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Il caso delle liti all’interno del centrosinistra canadese, insomma, è emblematico e tutt’altro che sporadico. Come emblematiche sono state le accuse che i vari candidati more italico si sono scambiati circa presunti brogli elettorali, peraltro facilmente immaginabili in un sistema di voto che prevede la spedizione a casa della scheda elettorale e la possibilità che chiunque intercetti il plico, apponga la croce che meglio crede e rispedisca il tutto indietro anche all’insaputa dell’elettore vero. Negli Stati Uniti sono stati alcuni esponenti dell’udc a sollevare il caso di presunte irregolarità. In Canada è stato il controverso candidato della Margherita di Montréal, Giovanni Rapanà: «Ci sono state gravi manipolazioni del voto, molte buste con le schede in giro per giorni, cassette delle lettere manomesse o spostate: valuterò se presentare nelle prossime ore una formale denuncia su quanto è accaduto», aveva dichiarato all’indomani del voto. Di quella denuncia, manco a dirlo, non si è più sentito parlare.

 

Alan Patarga, giornalista parlamentare del Corriere Canadese, quotidiano italiano di Toronto, è corrispondente dal Canada per Avvenire, Il Foglio e Radio Vaticana.

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