Se n’è parlato e scritto tanto, prima e dopo la campagna elettorale,
dentro e fuori la “storia infinita” della discussione sul partito
unico. Eppure il tema resta straordinariamente attuale: quali sono le iniziative
di politica culturale (o di cultura politica?) che la coalizione di centrodestra
non può permettersi di non affrontare nei prossimi mesi? Abbiamo
chiesto a sei tra intellettuali e giornalisti d’area di intervenire
sull’argomento, identificando le priorità più urgenti,
per iniziare a mettere sul piatto una serie di obiettivi concreti e realizzabili
in grado di diventare la base per una piattaforma di discussione operativa.
Inutile dire che le idee proposte sono molte, spesso suggestive e ancora
più spesso condivisibili da chi ha a cuore la sorte, non solo della
Casa delle Libertà, ma di quella variopinta galassia politica e culturale
che si candida a diventare la Right Nation del futuro. Ma andiamo con ordine
(rigorosamente alfabetico).
Angelo Crespi, il direttore del settimanale il Domenicale, sostiene da tempo
la necessità che il centrodestra abbracci una linea d’azione
da lui definita «gramscismo liberale», per «sacrificare
la libertà nella fase progettuale e nella scelta degli uomini perché
essa sia poi esaltata nei risultati». Questa applicazione –
paradossale ma non troppo – della teoria del potere elaborata da un
pensatore comunista incontra, nell’intervento di Crespi, la necessità
da parte del centrodestra di affrontare tre priorità concrete: la
formazione, per invertire il segno dell’egemonia culturale della sinistra;
l’informazione, per ripensare e razionalizzare le schegge di pluralismo
che si oppongono al sistema dei mainstream media; l’aggregazione,
per permettere alle forze culturali che si richiamano ai valori sostenuti
dalla cdl di “fare rete” per moltiplicare «l’incidenza
sul reale del pensiero liberale».
Flavio Felice, presidente
vicario dell’Istituto Acton di Roma, dopo aver analizzato le cause
del distacco di una parte dell’elettorato di centrodestra dalle élite
politiche e culturali che dovrebbero rappresentarlo, affronta il problema
facendo un parallelo con la riscossa della destra statunitense iniziata
nella metà degli anni Sessanta. Dalla deriva della naked public square
all’attacco contro la libertà religiosa, dal secolarismo esasperato
di Hollywood alla rivolta contro l’egemonia delle élite liberal,
Felice dipinge un quadro che – se non può essere ricalcato
nella sua interezza al di qua dell’Atlantico – può però
essere preso come modello per escogitare metodi di opposizione ad una sinistra
in cui riescono (per il momento) a convivere «istanze vetero e neo-comuniste»
e spinte profondamente conservatrici, come quelle che si oppongono a qualsiasi
tentativo di riforma costituzionale. Anche per il presidente dell’Istituto
Acton, le iniziative da «mettere immediatamente in campo» sono
tre: favorire la nascita di una rete di think-tank indipendenti dai partiti
e dal finanziamento pubblico (il concetto del network torna ad emergere
prepotentemente nella discussione); iniziare una collaborazione (competitiva)
tra le riviste che si riconoscono nell’area liberale-moderata; potenziare
le case editrici che in questi anni hanno diffuso le ragioni del libero
mercato e della società libera.
Paola Liberace, direttore generale della Fondazione Ideazione (di fresca
nomina), dedica la prima parte del suo intervento ad una necessaria distinzione
metodologica tra i termini politica culturale e cultura politica, sottolineando
come il centrodestra, nella sua esperienza di governo, abbia fallito soprattutto
nel coltivare la seconda, rinunciando troppo presto a «nutrire un
sostrato condiviso» sul quale fosse possibile innestare «un’azione
politica destinata a portare frutti persistenti». Eppure, senza un
serio tentativo di diffondere cultura, le proposte politiche restano mero
esercizio di ricerca o gestione del potere. La prima priorità, dunque,
è quella di «individuare i significati condivisi» che
stanno dietro all’appartenenza e all’identità politica,
per farli entrare in circolazione nel dibattito pubblico. Questa attività,
compito di «quotidiani, riviste, fondazioni, case editrici, associazioni,
istituti, ma anche portali, siti web e blog», non è però
sufficiente se chi fa cultura nel centrodestra non riesce anche ad esercitare
una funzione di mediazione tra “rivoluzione e conservazione, tradizione
e avanguardia”; se non riesce, insomma, a modellare una concezione
diversa di modernità, che guarda al futuro senza dimenticare le proprie
radici.
Dall’alto della
sua esperienza a livello internazionale nel campo della filosofia e della
scienza politica, l’accademico dei Lincei Vittorio Mathieu, presidente
del comitato scientifico della Fondazione Ideazione, invita invece le fondazioni
culturali «classificabili (all’ingrosso) come di centrodestra»
a coordinarsi tra di loro e a specializzarsi, dividendosi i compiti a seconda
delle possibilità di ciascuno. La specializzazione, secondo Mathieu,
servirebbe anche a ridimensionare la cronica carenza di finanziamenti di
queste istituzioni e a raggiungere l’autorevolezza necessaria per
combattere ad armi pari la guerra culturale in corso. Dopo aver discusso
il ruolo fondamentale delle «minoranze creative», infine, Mathieu
affronta il problema delle possibili forme di coordinamento tra le fondazioni,
per abbracciare senza riserve la forma del network orizzontale, poco pianificato
e molto spontaneo, in contrapposizione ad un’ipotesi più verticistica
ed obsoleta.
Per Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea, direttore scientifico
della Fondazione Einaudi e componente del board della Fondazione Magna Carta,
la debolezza culturale del centrodestra non dipende dalla mancanza di idee,
ma dallo scarso spessore della sua classe dirigente. Si tratta, dunque,
di difficoltà politiche (e «soprattutto sociologiche»),
più che culturali. In sintesi: «le idee ci sono e funzionano»,
ma «i consiglieri del principe sono pochi, hanno poche risorse e sono
largamente inascoltati». Eppure, dopo l’11 settembre, il centrodestra
è riuscito ad elaborare un profilo ideologico abbastanza omogeneo,
riequilibrando il contributo delle sue due anime principali, quella liberale-anglosassone
e quella conservatrice-nazionale. A mancare, piuttosto, sono la «potenza
di fuoco culturale» e un «ceto politico capace di utilizzarla».
Secondo Orsina, questa “potenza di fuoco” è indispensabile
per la formazione di una rete culturale solida e di una classe dirigente
all’altezza della situazione, soprattutto a livello locale. Giornali
come Il Foglio e iniziative come la Summer School organizzata da Magna Carta
per il prossimo settembre sono un ottimo inizio, ma soltanto un inizio.
A scendere in campo, prima che sia troppo tardi, deve essere «una
volontà politica dotata di risorse politiche».
A concludere questa sezione di Ideazione dedicata alla politica culturale
del centrodestra è il vicedirettore de il Giornale, Mario Sechi,
con un intervento che invitiamo a leggere con estrema attenzione. Sechi
non fa «alcun appello alla volontà del Palazzo», anzi
invita tutti noi a «ricambiare con una consapevole e fiera indifferenza
all’ignorante indifferenza del centrodestra e dei suoi leader».
Questa reciproca indifferenza, però, non è certo una scusa
per abbandonare il tentativo di rovesciare l’egemonia culturale che
narcotizza l’Italia. E la prima strada identificata da Sechi per ribaltare
la situazione è Internet, con le sue potenzialità di impatto
sul sistema dei tradizionali mezzi di informazione. La prima priorità
di politica culturale del centrodestra, dunque, dovrebbe essere quella di
«liberalizzare il mercato delle telecomunicazioni, smantellare gli
oligopoli del cavo, introdurre la cultura digitale nelle scuole e nelle
università». Dopo questa appassionata presa di posizione in
favore della rivoluzione digitale, Sechi passa ad occuparsi di tre old media
(ma neppure troppo) su cui il centrodestra dovrebbe concentrare attenzione
e risorse: la radio, la televisione e il cinema.
Concludiamo qui questo
breve giro di orizzonte. Non rubiamo ai lettori il gusto di scoprire nel
dettaglio i sentieri tracciati dai nostri ospiti per uscire da quell’intricata
foresta di inferiorità culturale in cui, soprattutto per colpa nostra,
ci siamo cacciati. Ci preme soltanto sottolineare, sulla scia di Mario Sechi,
come i problemi di cultura politica del centrodestra non possano essere
circoscritti alla cosiddetta “cultura alta”. Perché è
proprio sul terreno della cultura popolare – particolarmente influente
nello sviluppo dell’identità politica delle nuove generazioni
– che la nostra area di riferimento è del tutto, tragicamente,
assente. Ci sarà modo e tempo per affrontare più compiutamente
la questione, ma approfittiamo di questo spazio per ricordare a tutti gli
operatori culturali (e a quel manipolo di esponenti della classe politica
interessati all’argomento) che a volte, tra le pieghe virtuali di
un aggregatore di blog come TocqueVille.it, tra i fotogrammi di un documentario
politico o di un “cartoon per adulti” come South Park, tra le
onde analogiche o digitali di una radio amatoriale, scorre più cultura
politica che tra gli scaffali polverosi di una biblioteca. è arrivato
il momento di rendersene conto.
Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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