No, non sembra una roccaforte. È una città che va in pianura,
le strade sono raggi di cerchi concentrici, mirano verso il centro. Sotto
la cappa del cielo fa caldo in questi mesi. La mattina ci sono questi tipi
in camicia e cravatta, la giacca sul manubrio, che pedalano e sudano tra
i binari del tram e le lastre di pavé. Vanno al lavoro, correndo
contro il tempo, come le mamme con i bimbi incastrati sul sellino posteriore,
con la pedalata del passista che ripete la sua cronometro quotidiana, sprintando
ai semafori, in una gara che più che con gli altri è con se
stessi. Dicono che Milano sia la roccaforte della destra, l’anima
del Nord e del berlusconismo. Dicono che quando anche Milano cadrà,
l’avventura politica dell’uomo che ha “cambiato”
l’Italia sarà solo il ricordo di una stagione. È qui,
riflettono tra loro, che è morto l’altro. Piazzale Loreto è
un brutto posto, una piazza con un buco nero al centro, dove qualcosa è
accaduto, ma non c’è nulla da ricordare: lui con la divisa
troppo larga e la pelata a testa in giù, lei con la gonna che le
copre la testa e le scopre le gambe e gli altri come comparse macabre nel
retrobottega del macellaio. Forse è vero che se parli di roccaforte
ti viene in mente Piazzale Loreto. Ma questo capita se non conosci Milano.
Milano non è mai stata dell’uomo nero e non è mai stata
berlusconiana. Non è mai stata neppure di Craxi. Milano veniva prima.
Prima delle fabbriche e di Bava Beccaris. Prima che il Novecento decidesse
di mettersi qui a pensare la modernità.
Milano è oggi, qui, a destra, perché sulla sua carta d’identità
c’è lo statuto che rese liberi i comuni medioevali, quelle
porte aperte a chiunque abbia un mestiere e voglia di fare. Milano è
oggi, qui, a destra perché nel suo cuore c’è una punta
di anarchia, che resta lì a ricordare a tutti che lo Stato è
comunque figlio del Leviatano. È una anarchia senza disordine, fatta
di autodisciplina, di un legame con la tradizione che ti aiuta a distinguere
l’umano dal post-umano, da quel modo di compiacersi che hanno i milanesi
di mettere lì qualche parola in dialetto, una di quelle espressioni
che li fa sentire radicati a qualcosa, ma senza esagerare, senza arrivare
a quelle manifestazioni d’orgoglio campanilistico che fa credere ai
romani, ai toscani, napoletani o siciliani di essere lingua e non dialetto.
Milano è un grigio che t’inganna. La sua bellezza sta tutta
dentro, privata, personale, nascosta. Sta nei cortili dei palazzi quando
i portoni restano aperti quasi per caso, per una sbadataggine e lasciano
apparire, quasi si fosse aperto all’improvviso un varco spazio-temporale,
incanti di altri tempi e altri emisferi, angoli di orizzonte lussureggianti,
antiche architetture, chiostri di una pace spirituale perduta, cieli rubati
tra quelle mura di un azzurro mai visto all’esterno, nella città.
Il bello di Milano sta tutto dentro. Devi entrare dentro per vedere il Cenacolo
di Leonardo. Stessa cosa per il Cristo Morto del Mantegna. Anche La Scala
da fuori sembra poco più di un teatro parrocchiale. L’arte
di Milano è circondata da mura. C’è qui quasi un pudore
a parlare troppo di arte, di creatività, di talento, come se fossero
tesori dietro l’angolo, al negozio di fronte, alla Esselunga o all’Ikea.
Sono beni preziosi e rari e non è il caso d’inflazionarli con
facili imitazioni. L’Occidente alternativo qui non funziona, neppure
se passeggia per Brera o lungo i Navigli. Non basta svegliarsi a mezzogiorno
per essere un genio. Non basta indossare una kefia o sventolare una bandiera
arcobaleno per sapere il significato della parola pace.
Anche Milano sogna un avvenire diverso e in certi giorni si guarda allo
specchio e si sente Bevagna, una piccola e remota città d’arte,
sonnacchiosa, dai ritmi lenti, immersa in un altro medioevo, rifugio ideale
di tutte le passioni ambientaliste, post-moderniste, veltroniane, neo-girotondiste.
Una passione che dura due giorni, un salto da Roma per il week-end, magnifico
qui, senti che pace, guarda il tempo perduto, guarda le pietre, guarda i
viottoli, senza un discount, un centro commerciale, un multisala, senza
parabole, traffico, plebe, folla, periferia. E poi si torna a casa, convinti
di aver toccato l’altro Occidente. Orgogliosi di una passione da una
botta e via. Milano vorrebbe essere Bevagna, ma non può permetterselo.
Sarebbe solo una truffa, da mostrare a sé e agli altri come ricetta
contro tutti i mali. E se ancora non l’avete capito è per questo
che questa città, metropoli mignon, Milano, resta disillusa, guardandosi
intorno dall’una e dall’altra parte, la roccaforte della destra.
Milano, crocefissa dalle tangenti, non sa barare.
La
libertà degli antichi e dei moderni
La distinzione di Benjamin Constant la conosciamo. Ma quando si parla di
politica quotidiana finiamo per considerarla solo una vecchia massima. Ed
è un peccato. I due modelli culturali di libertà sono ancora
lì a dividere gli uni dagli altri. Il modo di risolvere alcune questioni
risente di questo approccio. È il destino dell’Italia che vogliamo
che torna in gioco. La libertà degli antichi è il diritto
a partecipare alla vita pubblica, ma si porta con sé anche uno Stato
che decide, nel bene o nel male, la sorte del singolo individuo. L’idea
che lo Stato siamo noi dovrebbe responsabilizzare il cittadino, ma il più
delle volte serve solo a giustificare un “furto” nei confronti
del cittadino o a spingere costui a pretendere che lo Stato lo assista.
La libertà dei moderni è, invece, il diritto a non subire
interferenze da parte della pubblica autorità nella vita privata.
Tu occupati del tuo che al mio ci penso io. Libertà nello Stato nel
primo caso. Libertà dallo Stato nel secondo. Il testo di Constant
fu quasi un manifesto del liberalismo. Milano tende a riflettersi nella
seconda opzione. Chi la governa deve fare i conti con questo carattere.
Non è una città che ama farsi toccare. Non sopporta le intrusioni.
Se qualcuno gli chiede un sacrificio deve poi dimostrare che ne valeva la
pena. Non è solo il mito della città laboriosa, che lavora,
lavora, e si mette i soldi in tasca e guai a chi glieli tocca. È
una questione diversa. È la difficoltà a pensare che il tuo
destino possa essere nelle mani degli altri. In questo Milano si sente davvero
la capitale del Nord, la parte più ruvida della questione settentrionale
in fondo è tutta qui. È dubitare che qualcosa di grande e
indefinito possa sedersi in tavola a casa tua e decidere il menù.
Ma se questa è la parte più rozza del problema Nord, c’è
poi il timore per l’occasione perduta. C’è la paura di
restare tagliati fuori dal mondo che conta perché i governanti non
garantiscono né stabilità né coraggio. C’è
qualcosa che davvero questa città non si sa perdonare: ed è
l’immobilismo. Se Berlusconi qui è riuscito a vincere è
perché, malgrado tutto, ancora assicura l’azione, la fiducia,
l’ottimismo. Il non rassegnarsi alla malattia. È una questione
magari solo psicologica, ma è più rassicurante dell’indicare
i mali, qualche volta lasciando credere che il male sia un solo, unico,
grande male, senza indicare una soluzione. E forse ha ragione Luca Doninelli
quando, nel Crollo delle aspettative (Garzanti, pagg. 180, euro 11), racconta
alcuni tratti caratteriali della milanesità: «È più
facile, qui da noi, perdonare chi ha giocato sporco in un gioco di potere,
chi si è dimostrato facile alla corruzione, perché da noi
si sa che il potere non è tutto, che la visibilità non è
tutto, si sa che la corruzione non definisce la persona. Impiccarli sì,
magari: ma ai rami degli alberi, non al nostro giudizio. Noi fatichiamo
di più a perdonare chi non lavora, chi abbandona l’impresa
a metà, chi non sta al proprio posto, chi lascia. Fatichiamo a perdonare
l’uomo malato che si getta nella disperazione a causa della propria
malattia, l’uomo infermo che commisera la propria infermità,
l’uomo sfortunato che dice “poverino” a se stesso. Il
milanese detesta i ladri e gli imbroglioni, però meglio ladri e imbroglioni
che poverini, meglio farabutti che rassegnati. Noi siamo, come dice sempre
un amico, gli eroi del lunedì, gli eroi della settimana che ricomincia,
gli eroi dell’alzarsi presto, del fare quel che ci tocca, bello o
brutto che sia. L’uomo lombardo esercita questa virtù. Il milanese,
oltre che esercitarla, può insegnarla al mondo».
Milano si è vergognata per Tangentopoli, ma sapeva che lì,
come è successo nel calcio, il mondo si era dato regole non scritte
che tutti fingevano di ignorare. Il marcio c’era e lo sapevano tutti.
Puliamo, ma senza gridolini di sorpresa e indignazione. Berlusconi, per
Milano, è un caso diverso. La campagna giustizialista contro di lui
non funziona. Non funziona perché dopo anni e anni di setaccio non
è emerso nulla di davvero convincente. Il conflitto d’interessi
non interessa nessuno. Gli scandali finanziari non l’hanno toccato.
E alla fine ad essere toccati dai dubbi, e mostrare qualche imbarazzo cooperativo,
sono stati più gli altri. Contro Berlusconi sono rimaste solo le
parole e le parole, qui, non bastano. Non basta neppure a gran parte del
Nord. Non è un caso che Cacciari abbia invitato i suoi colleghi di
schieramento a non impostare la campagna elettorale sull’anti-berlusconismo
e sull’ossessione giudiziaria. Un problema della sinistra, anche dopo
la vittoria dei seggi, resta la difficoltà di definire un progetto
politico che vada al di là della questione Berlusconi.
Come difendere la roccaforte
Milano, però, si può anche perdere. La destra non ci pensa
abbastanza. Non se ne preoccupa. Berlusconi, da solo, non basta. Milano
si perde se non riconosce il proprio futuro. È una città che
per definire la propria identità ha bisogno di guardare avanti. E
in questo è davvero l’antitesi a Roma. Milano è la città
dove tutto comincia. È qui che la nostra storia trova le sue risposte.
È qui che l’illuminismo che arrivava da oltralpe ha trovato
casa. È qui che le idee del Risorgimento si sono incontrate. È
qui che il movimento operaio si è dato appuntamento. È qui
che ci si è interrogati sull’ingresso delle masse nella società
e nella politica. È qui che il fascismo è stato battezzato.
Qui è scoppiato il ’68. Qui si sono incontrati Curcio e Moretti.
Qui il potere giudiziario ha cancellato la prima repubblica. Milano ha bisogno
di resistere, morire e rinascere. Ha bisogno di produrre cultura. È
il suo destino. È qui che la destra, se vuole avere un futuro, deve
riflettere su ciò che è. Qui deve scegliere se stare con la
libertà dei moderni o con quella degli antichi e, quindi, definire
senza resistenze stataliste quelle riforme economiche che non ha potuto
o saputo fare durante i cinque anni di governo.
Questo significa che an e udc hanno bisogno di un bagno di milanesità.
È qui che bisogna fare i conti con l’era del lavoro precario,
che non è un regalo da offrire alle imprese, ma una rivoluzione esistenziale.
Non si può andare avanti con due repubbliche del lavoro, da una parte
chi è ipergarantito, dall’altra chi è abbandonato a
se stesso. Forse bisogna rendersi conto che chi sceglie il rischio ha diritto
ha un maggiore profitto salariale e chi sceglie la sicurezza, la garanzia
del contratto a tempo indeterminato, paga qualcosa in termini economici.
È qui che la cultura liberale e quella cristiana, i due pilastri
dell’Occidente, devono siglare un patto nel nome di un “neo-umanesimo”.
È qui che la destra deve tagliare i ponti con il notabilato di provincia
dei vecchi democristiani, rinunciare ai suoi abiti aziendalisti, mettere
da parte quei volti da notaio o da commercialista, che sembrano fotografie
in bianco e nero di una classe media in putrefazione, e cominciare a non
aver più paura della parola intellettuale.
«La Milano dei nostri giorni – scrive ancora Doninelli –
ha forti dubbi sulla possibilità di tornare in carreggiata. Sente
che la storia ha preso altre vie, alle quali dovrà adattarsi con
ristoranti, boutiques, moda, shopping, locali gay, bisex, trisex, ice bar,
e allora fa quello che ha sempre fatto. Lavora. Si adatta a diventare una
città del consumo, una città dove il denaro viene speso, dove
la ricchezza arriva per fermarsi. Ma non è protagonista. Ci vuole
l’insurrezione. Perché Milano è protagonista nell’insorgere,
nell’insurrezione: “Dagli atri muscosi, dai fori cadenti…”».
La destra, per conservare la propria roccaforte, deve farla insorgere.
Vittorio Macioce, caposervizio de il Giornale.
(c)
Ideazione.com (2006)
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