Un'agenda americana per risolvere i problemi
di Massimo Lo Cicero
Ideazione di luglio-agosto 2006

Mario Draghi ha dedicato una parte importante delle considerazioni finali della sua prima relazione annuale alla situazione del sistema bancario. Nell’impianto generale della relazione la ripresa della crescita economica in Italia è affidata, per la parte di contesto, alla finanza pubblica che deve concorrere nell’obiettivo di ritrovare la stabilità. Ma questo ruolo, per certi versi passivo, della pubblica amministrazione si contrappone ad un ruolo attivo che devono svolgere i mercati e gli intermediari finanziari.
Lo stile della relazione è sobrio, le opinioni di Draghi sono molto nette e si esprimono attraverso la giustapposizione di due soli capitoli. Tornare alla crescita: l’obiettivo; una finanza per lo sviluppo: la strada e gli strumenti da utilizzare. Nessuna concessione alla retorica del rigorismo fiscale e alla profezia della crisi imminente: «La stabilità finanziaria è condizione necessaria per lo sviluppo economico ma in Italia questo è a sua volta un requisito per la stabilità finanziaria. Occorre, preservando l’una, riavviare l’altro. Alla lunga solo il progresso della produttività genera benessere economico». I punti di riferimento sono le regole del grande mercato mondiale e la morfologia americana delle istituzioni, che di quel mercato globale consentono il funzionamento. Anche per battere i nostri vizi genetici: l’autarchia tendenziale e la protezione del settore pubblico sulle imprese nazionali che non sanno o non vogliono sfidare il regime della competizione che regola il mercato globale.
«La concorrenza costituisce il miglior agente di giustizia sociale in un’economia, in una società, come quella italiana, nella cui storia è ricorrente il privilegio di pochi fondato sulla protezione dello Stato». La deriva protezionistica ed assistenziale della politica giolittiana, che irrompe sulla scena per mettere fuori gioco la destra storica e la cultura liberale, conseguendo il proprio obiettivo in termini radicali, non merita rimpianti – come il protezionismo – e viene in primo piano «l’ottimismo dell’iniziativa». Si capisce che Mario Draghi preferisce il rischio del rimorso rispetto alla malinconia del rimpianto. Anche la ricetta di politica economica è assolutamente americana perché affonda le radici nel valore della competizione e nella fiducia verso i mercati. Ed i mercati funzionano se le regole sono poche e chiare e se le persone, e le organizzazioni, agiscono nel rispetto della deontologia e si prendono la responsabilità delle proprie azioni.
La spesa pubblica si deve ridurre e se ne deve modificare la composizione. I punti caldi sono: il regime previdenziale ed il mancato federalismo fiscale, l’aver trasferito a Regioni ed Enti locali il potere di spendere senza trasferire la responsabilità delle coperture e senza fissare paletti alla loro capacità di indebitarsi. Ma spendere, indebitandosi in assenza di cambiamenti, prepara il collasso finale delle organizzazioni pubbliche.
La chiave di volta della ricetta necessaria per tornare a crescere sta, quindi, nei mercati finanziari. Governance e compliance, non solo vigilanza; separazione tra banche e non banche e nascita di una vera industria finanziaria, fondata sulle proprie economie di scala e non sulle economie di scopo (tra rendite e bassi rendimenti) dei grandi conglomerati bancari; privatizzazione del regime della previdenza, superando il modello fordista del rapporto permanente tra impresa e lavoratori, che si risolve nel finanziamento della propria azienda attraverso il fondo di trattamento di fine rapporto.
Ritrovare l’equilibrio tra presente e futuro grazie agli intermediari finanziari, insomma. Questa è una chiara eco della lezione di James Tobin: imparare ad usare i mercati finanziari ben oltre le frontiere che ne segnavano il perimetro negli anni Ottanta. Sono passati oltre vent’anni dai lavori pionieristici di Tobin ed il mondo è cambiato in meglio: cerchiamo di catturare i vantaggi di questa nuova situazione. Certo, dovremo gestire il rischio di creare e governare meglio banche ed intermediari, ma esistono strumenti e conoscenze per convivere con questo rischio e trarre benefici da esso.
Questa agenda americana di Draghi, che esalta la novità dei cambiamenti intervenuti, legge i ritardi della società italiana e sprona all’ottimismo per aprire una stagione di radicale modernizzazione, è veramente salutare. Ma vediamo in dettaglio anche tre questioni che Draghi propone e che meritano un futuro ed ulteriore sviluppo della discussione.

Esiste una questione bancaria mondiale
Il governatore formula un giudizio ottimistico sullo stato dei mercati finanziari nel Mezzogiorno d’Italia ed esprime una chiara preferenza verso uno sviluppo locale che si fondi sugli intermediari piuttosto che sugli incentivi. La ostilità al regime degli incentivi ed alla possibile “collusione operativa” tra banche e pubblica amministrazione nella loro gestione è assolutamente condivisibile. Meglio un regime di fiscalità di vantaggio per tutte le imprese, ma occorre cautela. Così come occorre cautela nel ridimensionamento del cuneo fiscale, per evitare alcuni possibili inconvenienti. È evidente che ridurre lo scarto tra il costo del lavoro sopportato dall’impresa ed il reddito disponibile per il lavoratore è una meritoria aspirazione. La prima accuserebbe un vantaggio nella sua struttura competitiva se si riducesse il costo – e se parallelamente aumentasse la produttività del lavoro sarebbe anche meglio – mentre i secondi sosterrebbero la domanda aggregata con una più ampia disponibilità ad aumentare i propri consumi. Ne guadagnerebbe sia la struttura dell’offerta che la dimensione della domanda aggregata. Ma attenzione ad un uso selettivo di questa operazione ed attenzione a non trasformarla in una sorta di succedaneo delle vecchie svalutazioni competitive: una frustata congiunturale che, alla lunga, si risolverebbe in un incremento delle importazioni ed in una effimera e momentanea euforia. Anche il giudizio ottimistico sullo stato degli intermediari meridionali deve essere accettato con qualche cautela. Cannari e Panetta sono essi stessi due economisti che lavorano nella Banca d’Italia ed hanno presentato, come ricercatori e dunque senza impegnare la propria istituzione di appartenenza, una interessante rassegna di studi sullo stato degli intermediari nel Mezzogiorno. Il volume descrive una radicale differenza di sistema tra l’economia reale del Mezzogiorno e quella del resto del paese ed imputa a questo divario strutturale le origini della crisi bancaria esplosa negli anni Novanta. Ma esisteva anche una intrinseca fragilità, del sistema bancario locale, che ne ha determinato la crisi irreversibile, in presenza del doppio trauma degli anni Novanta (la brusca interruzione dell’intervento straordinario e lo shock esogeno del 1992).
Le modalità con cui le banche meridionali, e le relazioni finanziarie tra famiglie ed imprese, riemergono dalla crisi vengono lette nei saggi ospitati dal volume curato da Panetta e Cannari in parallelo con gli effetti delle politiche che hanno sostituito l’intervento straordinario.
Ne emergono molti problemi, ancora aperti, sui modi ed i tempi necessari per un superamento della divaricazione tra Nord e Sud che aveva determinato la crisi bancaria. «Il principale elemento di debolezza delle imprese meridionali è costituito dalla scarsa efficienza nella combinazione dei fattori produttivi. Nonostante l’elevata dotazione di capitale fisico, le aziende del sud e delle Isole sono caratterizzate da una basso valore aggiunto in rapporto sia al numero dei dipendenti sia alle immobilizzazioni tecniche. L’entità degli squilibri segnalati dalle bilance dei pagamenti, e la loro persistenza, sono indice della fragilità di un modello di integrazione che non riesce ad utilizzare appieno le risorse del paese».
Non era, e non è ancora oggi efficiente, il sistema delle imprese mentre l’incrocio di sussidi ed importazioni nette, nei conti tra le due Italie, dimostra l’incompiuta integrazione ed il mancato reciproco vantaggio delle relazioni tra due economie troppo diverse tra loro. Ne segue che, negli anni Novanta, le banche meridionali collassano di fronte alla recessione, alle proprie debolezze organizzative – legate anche alla loro natura pubblica – ed all’aumento della concorrenza nei mercati finanziari. Apparati industriali incapaci di competere, una elevata concentrazione settoriale dipendente dai trasferimenti pubblici e la mancata diversificazione, che ne deriva, dei portafogli bancari avevano creato una vulnerabilità esiziale. Nonostante fossero state ricapitalizzate negli anni Ottanta, le banche del Sud non reggono la crisi e vengono rilevate da quelle del Nord, che ne modificano radicalmente la struttura ed il funzionamento.
Oggi il sistema presenta una proprietà concentrata nel Nord ed una rete operativa più efficiente nel Mezzogiorno. Ma non è detto che queste condizioni definiscano un contesto capace di garantire la ripresa della crescita e la chiusura dei divari reali. Esse sono necessarie per il conseguimento di questo traguardo ma non certo sufficienti. I trasferimenti pubblici dal Nord alimentano reddito e consumi delle famiglie e riducono i fabbisogni delle imprese. I sussidi generano, in parte, lo squilibrio tra ricchezza finanziaria delle famiglie e domanda di credito ed un permanente incentivo al sovradimensionamento del capitale investito, che è la radice della inefficienza allocativa all’origine reale della crisi bancaria appena superata. La mancata tutela dei diritti di credito, effetto del mediocre regime della giustizia civile, ed il clima diffuso di illegalità, contiguo alla diffusione di una economia informale e sommersa, rappresentano una strozzatura nel regime dei mercati che impedisce la nascita di una relazione virtuosa tra banche ed imprese, capace di alimentare la ripresa della crescita.
Di fronte a queste patologie, e nonostante la migliorata efficienza interna delle banche, cresce la insofferenza delle imprese meridionali e fioriscono comitati per la creazione di nuove banche: una effervescenza promozionale che, al di là dei contenuti di merito delle varie ipotesi in campo, rappresenta la testimonianza di un bisogno e la speranza che quelle nuove banche possano rimuovere le vecchie patologie del rapporto tra banche ed imprese e tra imprese ed ambiente esterno. Ma le nuove strategie, che hanno preso il posto dell’intervento straordinario, appesantite dalla incoerenza interna alle dinamiche organizzative e finanziarie del settore pubblico, hanno scontato un attenuamento degli effetti positivi che la loro razionalità avrebbe dovuto determinare. Il tempo necessario per uscire dalle patologie si allunga mentre gli effetti distorsivi degli incentivi finanziari suggeriscono la loro radicale trasformazione in un regime di fiscalità di vantaggio – premiando la crescita dimensionale delle imprese e non la crescita del numero delle imprese – che Bruxelles potrebbe rifiutare. Paradossalmente, la fine della vecchia politica ha determinato una ripresa lenta della crescita ed un aumento dell’emigrazione. Due forze che chiuderebbero, nel tempo, il divario di reddito pro capite.
Le ricerche offerte da Panetta e Cannari, ma anche i molti riferimenti riportati in una accurata bibliografia, rappresentano un memorandum dei problemi che dovrebbero essere affrontati per dare, successivamente al loro superamento, un convinto giudizio ottimista sullo stato della intermediazione finanziaria di mercato nel Mezzogiorno.

Dimensione e internazionalizzazione nelle banche italiane
La questione del divario meridionale, tuttavia, è solo una vicenda regionale ed endogena alla natura della nostra economia nazionale. L’agenda delle riforme necessarie al sistema bancario è molto più larga e Draghi non risparmia suggerimenti in questa direzione. In primo luogo enfatizzando l’esigenza di creare un’ampia cultura dell’azionariato diffuso e della riorganizzazione della struttura finanziaria nelle imprese italiane.
Se si vogliono creare mercati mobiliari spessi ed efficienti si deve generare un doppio movimento: l’offerta di titoli di varia natura da parte delle imprese, il loro collocamento da parte degli intermediari. Una volta create le condizioni per l’esistenza di una domanda e di una offerta significative di titoli finanziari diventerebbe ancora più evidente l’ulteriore problema denunciato da Draghi. Non è possibile che questa trasformazione non investa l’ingresso massiccio sul mercato di fondi previdenziali che sostituiscano l’attuale regime del trattamento di fine rapporto e non è accettabile che l’industria della gestione del risparmio si collochi nell’ambito di conglomerati bancari tuttofare. Conglomerati che non si fondano sulle economie di scala che offre la dilatazione industriale nella gestione dei portafogli ma solo sulle economie di scopo che le banche tuttofare realizzano grazie alla convivenza dei ricavi per prestazioni di servizi, a basso rischio, e ricavi da intermediazione, ai quali si associa il rischio tipico dello screening e del monitoring della propria clientela imprenditoriale. Senza contare le insidie che, su questo terreno, nascono per al reputazione della banca in ragione dei conflitti di interesse che possono sorgere tra la banca stessa ed il cliente nelle modalità di amministrazione del patrimonio dei terzi.
L’ultimo punto dolente per il sistema degli intermediari è rappresentato dalla dimensione unitaria delle banche italiane e dal loro ridotto grado di internazionalizzazione. Le due circostanze si tengono reciprocamente in una sorta di relazione di causa ed effetto. Se le banche sono poco europee e troppo domestiche sono anche troppo piccole, visto che la dimensione di un’impresa – e la banca è un’impresa, l’impresa dei mercati finanziari – dipende dalla dimensione dei mercati. Se si consulta l’ultimo studio di Mediobanca sulle banche internazionali si nota che le prime tre banche italiane, una volta consolidate tra loro, non raggiungerebbero le dimensioni di una media banca europea. Lo stesso Draghi osserva, nella sua relazione, che una sola operazione di merging tra una banca italiana ed alcune banche europee abbia spostato radicalmente la dimensione dell’indice che misura il grado di apertura all’integrazione internazionale del nostro sistema. Si deve procedere in questa direzione e si deve capire meglio quali siano gli effetti sul sistema economico, e la sua efficienza, dei take over che le banche europee realizzano sulle medie banche italiane. Evidentemente il risparmio, che è una quota del flusso di reddito, ma anche il notevole patrimonio finanziario delle famiglie italiane, rappresentano un bersaglio interessante per le banche del vecchio continente!
Draghi rinuncia all’impropria funzione di casellante e custode del sistema bancario nazionale. Da oggi si può tentare di scalare una banca italiana senza darne preventiva comunicazione alla banca centrale. Una ulteriore conferma che Draghi accetta la regola generale che arbitri della crescita siano i mercati finanziari e non le autorità statali. Ma questa scelta comporta una crescente attenzione al regime delle regole ed alle modalità di amministrazione della giustizia nel nostro paese.
I mercati funzionano se esistono poche regole e se la magistratura tutela e rafforza, in tempo reale, i diritti degli attori – banche ed imprese – che agiscono sui mercati stessi. Il Mezzogiorno dovrà liberarsi delle sue tare amministrative e della invadenza dello Stato ma anche l’Italia qualche passo avanti verso un libero regime della propria economia monetaria di produzione dovrebbe essere in grado di farlo nei prossimi anni.


Riferimenti bibliografici
Bongini e Ferri, Il sistema bancario meridionale, Laterza Editore, Roma-Bari, 2005.
Cannari e Panetta, a cura di, Il sistema finanziario e il Mezzogiorno, Squilibri strutturali e divari finanziari, Cacucci Editore, Bari, 2006.
Draghi, “Considerazioni finali”, Assemblea generale dei partecipanti, Banca d’Italia, Roma, 2006.
Mattesini e Messori, L’evoluzione del sistema bancario meridionale: problemi aperti e possibili soluzioni, il Mulino, Bologna, 2004.
Mediobanca, a cura di R&S, Dati cumulativi delle principali banche internazionali, (edizione 2005), at www.mbres.it.

 

Massimo Lo Cicero, professore di Economia della comunicazione ed Economia dell’informazione e della conoscenza all’Università Tor Vergata di Roma, è esperto di politiche del Mezzogiorno.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006