
 
      Mario Draghi ha dedicato una parte importante delle considerazioni finali 
      della sua prima relazione annuale alla situazione del sistema bancario. 
      Nell’impianto generale della relazione la ripresa della crescita economica 
      in Italia è affidata, per la parte di contesto, alla finanza pubblica 
      che deve concorrere nell’obiettivo di ritrovare la stabilità. 
      Ma questo ruolo, per certi versi passivo, della pubblica amministrazione 
      si contrappone ad un ruolo attivo che devono svolgere i mercati e gli intermediari 
      finanziari.
      Lo stile della relazione è sobrio, le opinioni di Draghi sono molto 
      nette e si esprimono attraverso la giustapposizione di due soli capitoli. 
      Tornare alla crescita: l’obiettivo; una finanza per lo sviluppo: la 
      strada e gli strumenti da utilizzare. Nessuna concessione alla retorica 
      del rigorismo fiscale e alla profezia della crisi imminente: «La stabilità 
      finanziaria è condizione necessaria per lo sviluppo economico ma 
      in Italia questo è a sua volta un requisito per la stabilità 
      finanziaria. Occorre, preservando l’una, riavviare l’altro. 
      Alla lunga solo il progresso della produttività genera benessere 
      economico». I punti di riferimento sono le regole del grande mercato 
      mondiale e la morfologia americana delle istituzioni, che di quel mercato 
      globale consentono il funzionamento. Anche per battere i nostri vizi genetici: 
      l’autarchia tendenziale e la protezione del settore pubblico sulle 
      imprese nazionali che non sanno o non vogliono sfidare il regime della competizione 
      che regola il mercato globale. 
      «La concorrenza costituisce il miglior agente di giustizia sociale 
      in un’economia, in una società, come quella italiana, nella 
      cui storia è ricorrente il privilegio di pochi fondato sulla protezione 
      dello Stato». La deriva protezionistica ed assistenziale della politica 
      giolittiana, che irrompe sulla scena per mettere fuori gioco la destra storica 
      e la cultura liberale, conseguendo il proprio obiettivo in termini radicali, 
      non merita rimpianti – come il protezionismo – e viene in primo 
      piano «l’ottimismo dell’iniziativa». Si capisce 
      che Mario Draghi preferisce il rischio del rimorso rispetto alla malinconia 
      del rimpianto. Anche la ricetta di politica economica è assolutamente 
      americana perché affonda le radici nel valore della competizione 
      e nella fiducia verso i mercati. Ed i mercati funzionano se le regole sono 
      poche e chiare e se le persone, e le organizzazioni, agiscono nel rispetto 
      della deontologia e si prendono la responsabilità delle proprie azioni. 
      
      La spesa pubblica si deve ridurre e se ne deve modificare la composizione. 
      I punti caldi sono: il regime previdenziale ed il mancato federalismo fiscale, 
      l’aver trasferito a Regioni ed Enti locali il potere di spendere senza 
      trasferire la responsabilità delle coperture e senza fissare paletti 
      alla loro capacità di indebitarsi. Ma spendere, indebitandosi in 
      assenza di cambiamenti, prepara il collasso finale delle organizzazioni 
      pubbliche. 
      La chiave di volta della ricetta necessaria per tornare a crescere sta, 
      quindi, nei mercati finanziari. Governance e compliance, non solo vigilanza; 
      separazione tra banche e non banche e nascita di una vera industria finanziaria, 
      fondata sulle proprie economie di scala e non sulle economie di scopo (tra 
      rendite e bassi rendimenti) dei grandi conglomerati bancari; privatizzazione 
      del regime della previdenza, superando il modello fordista del rapporto 
      permanente tra impresa e lavoratori, che si risolve nel finanziamento della 
      propria azienda attraverso il fondo di trattamento di fine rapporto. 
      Ritrovare l’equilibrio tra presente e futuro grazie agli intermediari 
      finanziari, insomma. Questa è una chiara eco della lezione di James 
      Tobin: imparare ad usare i mercati finanziari ben oltre le frontiere che 
      ne segnavano il perimetro negli anni Ottanta. Sono passati oltre vent’anni 
      dai lavori pionieristici di Tobin ed il mondo è cambiato in meglio: 
      cerchiamo di catturare i vantaggi di questa nuova situazione. Certo, dovremo 
      gestire il rischio di creare e governare meglio banche ed intermediari, 
      ma esistono strumenti e conoscenze per convivere con questo rischio e trarre 
      benefici da esso. 
      Questa agenda americana di Draghi, che esalta la novità dei cambiamenti 
      intervenuti, legge i ritardi della società italiana e sprona all’ottimismo 
      per aprire una stagione di radicale modernizzazione, è veramente 
      salutare. Ma vediamo in dettaglio anche tre questioni che Draghi propone 
      e che meritano un futuro ed ulteriore sviluppo della discussione.
      
      
 Esiste 
      una questione bancaria mondiale
      Il governatore 
      formula un giudizio ottimistico sullo stato dei mercati finanziari nel Mezzogiorno 
      d’Italia ed esprime una chiara preferenza verso uno sviluppo locale 
      che si fondi sugli intermediari piuttosto che sugli incentivi. La ostilità 
      al regime degli incentivi ed alla possibile “collusione operativa” 
      tra banche e pubblica amministrazione nella loro gestione è assolutamente 
      condivisibile. Meglio un regime di fiscalità di vantaggio per tutte 
      le imprese, ma occorre cautela. Così come occorre cautela nel ridimensionamento 
      del cuneo fiscale, per evitare alcuni possibili inconvenienti. È 
      evidente che ridurre lo scarto tra il costo del lavoro sopportato dall’impresa 
      ed il reddito disponibile per il lavoratore è una meritoria aspirazione. 
      La prima accuserebbe un vantaggio nella sua struttura competitiva se si 
      riducesse il costo – e se parallelamente aumentasse la produttività 
      del lavoro sarebbe anche meglio – mentre i secondi sosterrebbero la 
      domanda aggregata con una più ampia disponibilità ad aumentare 
      i propri consumi. Ne guadagnerebbe sia la struttura dell’offerta che 
      la dimensione della domanda aggregata. Ma attenzione ad un uso selettivo 
      di questa operazione ed attenzione a non trasformarla in una sorta di succedaneo 
      delle vecchie svalutazioni competitive: una frustata congiunturale che, 
      alla lunga, si risolverebbe in un incremento delle importazioni ed in una 
      effimera e momentanea euforia. Anche il giudizio ottimistico sullo stato 
      degli intermediari meridionali deve essere accettato con qualche cautela. 
      Cannari e Panetta sono essi stessi due economisti che lavorano nella Banca 
      d’Italia ed hanno presentato, come ricercatori e dunque senza impegnare 
      la propria istituzione di appartenenza, una interessante rassegna di studi 
      sullo stato degli intermediari nel Mezzogiorno. Il volume descrive una radicale 
      differenza di sistema tra l’economia reale del Mezzogiorno e quella 
      del resto del paese ed imputa a questo divario strutturale le origini della 
      crisi bancaria esplosa negli anni Novanta. Ma esisteva anche una intrinseca 
      fragilità, del sistema bancario locale, che ne ha determinato la 
      crisi irreversibile, in presenza del doppio trauma degli anni Novanta (la 
      brusca interruzione dell’intervento straordinario e lo shock esogeno 
      del 1992). 
      Le modalità con cui le banche meridionali, e le relazioni finanziarie 
      tra famiglie ed imprese, riemergono dalla crisi vengono lette nei saggi 
      ospitati dal volume curato da Panetta e Cannari in parallelo con gli effetti 
      delle politiche che hanno sostituito l’intervento straordinario. 
      Ne emergono molti problemi, ancora aperti, sui modi ed i tempi necessari 
      per un superamento della divaricazione tra Nord e Sud che aveva determinato 
      la crisi bancaria. «Il principale elemento di debolezza delle imprese 
      meridionali è costituito dalla scarsa efficienza nella combinazione 
      dei fattori produttivi. Nonostante l’elevata dotazione di capitale 
      fisico, le aziende del sud e delle Isole sono caratterizzate da una basso 
      valore aggiunto in rapporto sia al numero dei dipendenti sia alle immobilizzazioni 
      tecniche. L’entità degli squilibri segnalati dalle bilance 
      dei pagamenti, e la loro persistenza, sono indice della fragilità 
      di un modello di integrazione che non riesce ad utilizzare appieno le risorse 
      del paese».
      Non era, e non è ancora oggi efficiente, il sistema delle imprese 
      mentre l’incrocio di sussidi ed importazioni nette, nei conti tra 
      le due Italie, dimostra l’incompiuta integrazione ed il mancato reciproco 
      vantaggio delle relazioni tra due economie troppo diverse tra loro. Ne segue 
      che, negli anni Novanta, le banche meridionali collassano di fronte alla 
      recessione, alle proprie debolezze organizzative – legate anche alla 
      loro natura pubblica – ed all’aumento della concorrenza nei 
      mercati finanziari. Apparati industriali incapaci di competere, una elevata 
      concentrazione settoriale dipendente dai trasferimenti pubblici e la mancata 
      diversificazione, che ne deriva, dei portafogli bancari avevano creato una 
      vulnerabilità esiziale. Nonostante fossero state ricapitalizzate 
      negli anni Ottanta, le banche del Sud non reggono la crisi e vengono rilevate 
      da quelle del Nord, che ne modificano radicalmente la struttura ed il funzionamento. 
      
      Oggi il sistema presenta una proprietà concentrata nel Nord ed una 
      rete operativa più efficiente nel Mezzogiorno. Ma non è detto 
      che queste condizioni definiscano un contesto capace di garantire la ripresa 
      della crescita e la chiusura dei divari reali. Esse sono necessarie per 
      il conseguimento di questo traguardo ma non certo sufficienti. I trasferimenti 
      pubblici dal Nord alimentano reddito e consumi delle famiglie e riducono 
      i fabbisogni delle imprese. I sussidi generano, in parte, lo squilibrio 
      tra ricchezza finanziaria delle famiglie e domanda di credito ed un permanente 
      incentivo al sovradimensionamento del capitale investito, che è la 
      radice della inefficienza allocativa all’origine reale della crisi 
      bancaria appena superata. La mancata tutela dei diritti di credito, effetto 
      del mediocre regime della giustizia civile, ed il clima diffuso di illegalità, 
      contiguo alla diffusione di una economia informale e sommersa, rappresentano 
      una strozzatura nel regime dei mercati che impedisce la nascita di una relazione 
      virtuosa tra banche ed imprese, capace di alimentare la ripresa della crescita.
      Di fronte a queste patologie, e nonostante la migliorata efficienza interna 
      delle banche, cresce la insofferenza delle imprese meridionali e fioriscono 
      comitati per la creazione di nuove banche: una effervescenza promozionale 
      che, al di là dei contenuti di merito delle varie ipotesi in campo, 
      rappresenta la testimonianza di un bisogno e la speranza che quelle nuove 
      banche possano rimuovere le vecchie patologie del rapporto tra banche ed 
      imprese e tra imprese ed ambiente esterno. Ma le nuove strategie, che hanno 
      preso il posto dell’intervento straordinario, appesantite dalla incoerenza 
      interna alle dinamiche organizzative e finanziarie del settore pubblico, 
      hanno scontato un attenuamento degli effetti positivi che la loro razionalità 
      avrebbe dovuto determinare. Il tempo necessario per uscire dalle patologie 
      si allunga mentre gli effetti distorsivi degli incentivi finanziari suggeriscono 
      la loro radicale trasformazione in un regime di fiscalità di vantaggio 
      – premiando la crescita dimensionale delle imprese e non la crescita 
      del numero delle imprese – che Bruxelles potrebbe rifiutare. Paradossalmente, 
      la fine della vecchia politica ha determinato una ripresa lenta della crescita 
      ed un aumento dell’emigrazione. Due forze che chiuderebbero, nel tempo, 
      il divario di reddito pro capite. 
      Le ricerche offerte da Panetta e Cannari, ma anche i molti riferimenti riportati 
      in una accurata bibliografia, rappresentano un memorandum dei problemi che 
      dovrebbero essere affrontati per dare, successivamente al loro superamento, 
      un convinto giudizio ottimista sullo stato della intermediazione finanziaria 
      di mercato nel Mezzogiorno. 
 
      Dimensione e internazionalizzazione nelle banche italiane
      La questione 
      del divario meridionale, tuttavia, è solo una vicenda regionale ed 
      endogena alla natura della nostra economia nazionale. L’agenda delle 
      riforme necessarie al sistema bancario è molto più larga e 
      Draghi non risparmia suggerimenti in questa direzione. In primo luogo enfatizzando 
      l’esigenza di creare un’ampia cultura dell’azionariato 
      diffuso e della riorganizzazione della struttura finanziaria nelle imprese 
      italiane. 
      Se si vogliono creare mercati mobiliari spessi ed efficienti si deve generare 
      un doppio movimento: l’offerta di titoli di varia natura da parte 
      delle imprese, il loro collocamento da parte degli intermediari. Una volta 
      create le condizioni per l’esistenza di una domanda e di una offerta 
      significative di titoli finanziari diventerebbe ancora più evidente 
      l’ulteriore problema denunciato da Draghi. Non è possibile 
      che questa trasformazione non investa l’ingresso massiccio sul mercato 
      di fondi previdenziali che sostituiscano l’attuale regime del trattamento 
      di fine rapporto e non è accettabile che l’industria della 
      gestione del risparmio si collochi nell’ambito di conglomerati bancari 
      tuttofare. Conglomerati che non si fondano sulle economie di scala che offre 
      la dilatazione industriale nella gestione dei portafogli ma solo sulle economie 
      di scopo che le banche tuttofare realizzano grazie alla convivenza dei ricavi 
      per prestazioni di servizi, a basso rischio, e ricavi da intermediazione, 
      ai quali si associa il rischio tipico dello screening e del monitoring della 
      propria clientela imprenditoriale. Senza contare le insidie che, su questo 
      terreno, nascono per al reputazione della banca in ragione dei conflitti 
      di interesse che possono sorgere tra la banca stessa ed il cliente nelle 
      modalità di amministrazione del patrimonio dei terzi. 
      L’ultimo punto dolente per il sistema degli intermediari è 
      rappresentato dalla dimensione unitaria delle banche italiane e dal loro 
      ridotto grado di internazionalizzazione. Le due circostanze si tengono reciprocamente 
      in una sorta di relazione di causa ed effetto. Se le banche sono poco europee 
      e troppo domestiche sono anche troppo piccole, visto che la dimensione di 
      un’impresa – e la banca è un’impresa, l’impresa 
      dei mercati finanziari – dipende dalla dimensione dei mercati. Se 
      si consulta l’ultimo studio di Mediobanca sulle banche internazionali 
      si nota che le prime tre banche italiane, una volta consolidate tra loro, 
      non raggiungerebbero le dimensioni di una media banca europea. Lo stesso 
      Draghi osserva, nella sua relazione, che una sola operazione di merging 
      tra una banca italiana ed alcune banche europee abbia spostato radicalmente 
      la dimensione dell’indice che misura il grado di apertura all’integrazione 
      internazionale del nostro sistema. Si deve procedere in questa direzione 
      e si deve capire meglio quali siano gli effetti sul sistema economico, e 
      la sua efficienza, dei take over che le banche europee realizzano sulle 
      medie banche italiane. Evidentemente il risparmio, che è una quota 
      del flusso di reddito, ma anche il notevole patrimonio finanziario delle 
      famiglie italiane, rappresentano un bersaglio interessante per le banche 
      del vecchio continente! 
      Draghi rinuncia all’impropria funzione di casellante e custode del 
      sistema bancario nazionale. Da oggi si può tentare di scalare una 
      banca italiana senza darne preventiva comunicazione alla banca centrale. 
      Una ulteriore conferma che Draghi accetta la regola generale che arbitri 
      della crescita siano i mercati finanziari e non le autorità statali. 
      Ma questa scelta comporta una crescente attenzione al regime delle regole 
      ed alle modalità di amministrazione della giustizia nel nostro paese. 
      
      I mercati funzionano se esistono poche regole e se la magistratura tutela 
      e rafforza, in tempo reale, i diritti degli attori – banche ed imprese 
      – che agiscono sui mercati stessi. Il Mezzogiorno dovrà liberarsi 
      delle sue tare amministrative e della invadenza dello Stato ma anche l’Italia 
      qualche passo avanti verso un libero regime della propria economia monetaria 
      di produzione dovrebbe essere in grado di farlo nei prossimi anni. 
      Riferimenti bibliografici
      Bongini 
      e Ferri, Il sistema bancario meridionale, Laterza Editore, Roma-Bari, 2005.
      Cannari e Panetta, a cura di, Il sistema finanziario e il Mezzogiorno, Squilibri 
      strutturali e divari finanziari, Cacucci Editore, Bari, 2006.
      Draghi, “Considerazioni finali”, Assemblea generale dei partecipanti, 
      Banca d’Italia, Roma, 2006.
      Mattesini e Messori, L’evoluzione del sistema bancario meridionale: 
      problemi aperti e possibili soluzioni, il Mulino, Bologna, 2004.
      Mediobanca, a cura di R&S, Dati cumulativi delle principali banche internazionali, 
      (edizione 2005), at www.mbres.it.
 
      Massimo Lo Cicero, professore di Economia della comunicazione ed Economia 
      dell’informazione e della conoscenza all’Università Tor 
      Vergata di Roma, è esperto di politiche del Mezzogiorno.![]()
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