Una modernità liberale sintesi di radici e futuro
di Paola Liberace
Ideazione di luglio-agosto 2006

Esistono vari modi di mettere in relazione due termini come cultura e politica. Il più semplice è collegarli con una congiunzione: ma questa scelta nasconde già una precisa tesi. Politica e cultura si appartengono: come motivare in maniera qualificante un’affermazione del genere, che vanta illustri precedenti? Proviamo a contraddire la tesi, sostituendo alla congiunzione una disgiunzione: l’esperienza di governo del centrodestra appena conclusa mostra che per questa via si giunge a una separazione infelice. Il governo Berlusconi ha in qualche modo preferito la politica alla cultura, attirando due generi di critiche. Da un lato, l’accusa di aver trascurato la necessità delle risorse per lo sviluppo culturale (tentando, al contrario, di trasformare il patrimonio storico e architettonico del paese in un valore commerciabile per ripianare i conti dello Stato). Dall’altro, il giudizio deluso di chi – anche nello stesso centrodestra – sperava in un consistente investimento nella formazione di un’opinione pubblica liberale e di una nuova classe dirigente.
In cosa ha sbagliato il centrodestra? Per rispondere, torniamo brevemente alla congiunzione tra cultura e politica, e complichiamo ancora il gioco. Trasformando a turno ciascuno dei due termini nell’attributo dell’altro, si ottengono due espressioni – politica culturale, cultura politica – facili da scambiare, ma notevolmente diverse. Contro la politica culturale di Berlusconi ha puntato il dito chi lamenta la scarsità dei mezzi destinati alla cultura. La seconda specie di detrattori prende invece di mira l’incapacità di focalizzare la cultura politica del centrodestra. La differenza è sostanziale: nel secondo caso, cultura non rappresenta soltanto un complesso pregevole di beni materiali e intellettuali, ma un paradigma di significati condivisi che si fa valore morale e prassi civile e sociale. La politica culturale è anzitutto una politica, e con il metro della politica va giudicata: valutando la capacità di mirare al bene comune, di gestire la complessa negoziazione tra gli interessi in gioco a vantaggio del maggiore numero possibile di attori coinvolti. Da questo punto di vista, persino i critici più acerrimi hanno concesso l’onore delle armi all’operato di Urbani, biasimando semmai la subordinazione delle sue istanze rispetto a quelle del ministero dell’Economia. D’altro canto, gli stessi critici hanno a suo tempo riconosciuto nei limiti dei ministri della Casa delle Libertà la traccia di errori già compiuti dai predecessori di centrosinistra. In ambiti di così difficile gestione, come in generale nell’esercizio politico, l’abilità di raccogliere in una sintesi più alta esigenze trasversali rispetto agli schieramenti può diventare un fattore critico di successo.

Nell’espressione cultura politica è invece la cultura a guidare. Qui, come dice l’etimologia stessa, conta la capacità di nutrire e coltivare un sostrato condiviso, sul quale si innesta un’azione politica destinata a portare frutti persistenti. Da questo punto di vista, lo sforzo del governo Berlusconi è stato trascurabile: inferiore non solo alle attese dei suoi sostenitori, ma alla stessa leggenda sventolata come uno spauracchio dagli oppositori. Dov’è l’esercito prezzolato per difendere la causa del Cavaliere? Dov’è l’omologazione massiva al liberismo, al garantismo, alla deregulation, al riformismo istituzionale, in una parola al liberalismo? Dov’è l’occupazione militare delle posizioni chiave dell’opinion-leading? Più di un appello, nei passati cinque anni di governo, è stato levato verso la dirigenza della Casa delle Libertà perché almeno una di queste sciagurate profezie avesse modo di avverarsi: i cinque anni sono terminati, ed è forte il dubbio che almeno in parte sia dovuto agli appelli caduti – tranne poche isolate iniziative – sostanzialmente nel vuoto.
Eppure, è ancora da qui che occorre ripartire. Affermare la necessità di una cultura che genera la politica non significa tornare ai re filosofi, difendendo una concezione elitaria e intellettualista dell’impegno pubblico: vuol dire invece risalire alle origini del politico, alla costruzione del consenso. Ancora una volta, non si parla di un’operazione orwelliana, ma della progettazione e del consolidamento di una base su cui stringere il patto tra governanti e governati. Il cemento di questa costruzione sono i significati condivisi – le conoscenze, i valori, le credenze, le norme, gli atteggiamenti pubblici e privati – di cui la cultura è fatta: che in democrazia non si improvvisano, né si impongono, ma si propongono alla libera scelta degli elettori. Senza essere innervata da un tentativo serio e meditato di diffondere una cultura, la proposta politica resta lettera morta, esercizio di potere o propaganda che all’apparir del vero, misera, cade.

Individuare i significati condivisi che caratterizzano la proposta liberale, metterli in circolazione, avanzarli all’attenzione del dibattito politico, è il compito delle organizzazioni culturali che fanno riferimento all’area di centrodestra. Quotidiani, riviste, fondazioni, case editrici, associazioni, istituti, ma anche portali, siti web, blog e altre entità che abitano l’universo on line svolgono una delicata azione bifronte: in un verso rivolti alla diffusione culturale, nell’altro all’agenda setting, mediando tra la società civile e i suoi amministratori. Ma chi fa cultura politica nell’area liberale opera da mediatore anche in un altro senso, sposando rivoluzione e conservazione, tradizione e avanguardia. Alla cultura politica di centrodestra non può bastare la ricerca dell’eccezione: riconoscere, stimolare, provocare l’emergenza di un nuovo sentire, che sposta in qua o in là le mura della “città dei liberi” e ne disegna una mappa sempre più precisa. Occorre anche definire la regola: scoprire – o riscoprire – i confini in qualche maniera già tracciati del comune vocabolario politico, dove mediazione vuol dire traditio, trasmissione, consegna, salvaguardia. Qui il metodo è il messaggio: il dibattito sorto nel nostro paese sulla crisi dell’Occidente, animato da contributi decisivi (basti citare quelli del Foglio e della Fondazione Magna Carta), ha mostrato con chiarezza che non si tratta di indulgere a un falso progressismo, di liberarsi di valori “obsoleti” in nome di una modernità coincidente con lo snaturamento.
Esiste invece una modernità diversa, che senza dimenticare le radici guarda al futuro. Ne è protagonista un individuo libero, nel pieno dei suoi diritti, ma non isolato: è attraverso le relazioni fondamentali – la famiglia, la proprietà, il mercato – che egli costruisce la società civile. Procedere verso la modernità vuol dire sostenere lo sviluppo: impossibile senza rinnovare un patto produttivo, anziché scellerato, tra finanza e impresa, nell’ottica di un liberismo ben temperato. Ancora, modernità resta una parola vuota senza democrazia; occorre perciò all’interno appoggiare le riforme istituzionali, e all’estero promuovere l’evoluzione democratica, unica garanzia di stabilità internazionale e progresso. Infine, icona affascinante e temibile della modernità sono i mezzi di comunicazione di massa: la consapevolezza del loro potere non può far dimenticare che rappresentano un’opportunità di crescita e di libertà. Così intesa, modernità spicca tra le parole chiave da diffondere e proporre all’area moderata e liberale.


Paola Liberace, giornalista, è direttore generale della Fondazione Ideazione.

(c) Ideazione.com (2006)
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