Le ragioni della flat tax (anche per l'Italia)
di Andrea Gilli e Mauro Gilli
Ideazione di luglio-agosto 2006

Visto l’esito delle recenti riforme fiscali, una proposta radicale come quella della flat tax potrebbe apparire quasi provocatoria, in un paese come il nostro. In questo paper cercheremo pertanto di spiegare perché essa non solo non sia tale ma perché rappresenti addirittura una delle poche ricette in grado di ridare fiato alla competitività dell’Italia e ridurre le sperequazioni del paese.
In primo luogo metteremo in evidenza i benefici derivanti dall’intrinseca semplicità di un sistema fiscale contraddistinto da un’aliquota unica. Essa ridurrebbe l’incentivo ad evadere ed eludere il fisco, permettendo così, in secondo luogo, enormi risparmi sia per i contribuenti (che non sarebbero più obbligati a dedicare tempo e denaro per compilare la dichiarazione dei redditi) che per lo Stato, il quale potrebbe ridurre fortemente il budget e l’organico degli Uffici delle Entrate preposti all’accertamento fiscale. Inoltre, una maggiore semplicità permetterebbe ai contribuenti di avere un’immagine più nitida del sistema di tassazione e quindi di spesa, con evidenti benefici sul controllo democratico dell’operato del governo. Passeremo poi all’esame dell’obiezione assai diffusa contro la flat tax secondo la quale essa sarebbe non solo un “regalo ai ricchi” ma anche palesemente incostituzionale. Oltre a rispondere a tale obiezione, cercheremo di verificare se l’attuale sistema fiscale rispetti veramente, dal punto di vista sostanziale, i criteri di progressività sanciti dalla Costituzione.
Infine, per estendere l’orizzonte della nostra analisi guarderemo all’esperienza dei paesi che hanno già adottato l’aliquota unica. Poiché la realtà di molti di questi paesi è troppo diversa da quella italiana, abbiamo preso in considerazione anche i casi di alcuni paesi industrializzati che hanno ridotto sostanzialmente la loro tassazione. In entrambi i casi gli effetti sono stati analoghi: crescita economica e crescita degli introiti fiscali. Concluderemo quindi spiegando perché, a nostro modo di vedere, il nostro paese ha bisogno di una radicale rivoluzione fiscale, appunto l’introduzione della flat tax.

Semplicità
Il primo vantaggio della flat tax riguarda la sua intrinseca semplicità. Un’aliquota unica permette infatti ad ogni famiglia di calcolare l’imponibile, e quindi le imposte dovute, senza dover ricorrere a consulenze esterne e a pagine di moduli delle quali si ignorano i contenuti e il significato. L’argomento non è sicuramente di secondaria importanza visto che durante la campagna elettorale tedesca, Paul Kirchhof – indicato dal candidato Cancelliere Angela Merkel come ministro delle Finanze in caso di vittoria della cdu – ha individuato proprio nella semplicità della flat tax la ragione principale per la sua introduzione in Germania. Se poi guardiamo i costi di un sistema fiscale complesso le sorprese non mancano: Steve Forbes ha calcolato quanto costa redigere la propria dichiarazione dei redditi negli Stati Uniti; 6,6 miliardi di ore e 100 miliardi di dollari l’anno. Con una flat tax i contribuenti sarebbero alleggeriti da questo onere, e potrebbero compilare il loro Modello Unico su un foglio delle dimensioni di una cartolina1. E quindi si potrebbero riappropriare di quella quota di reddito che attualmente finisce nelle tasche di commercialisti, centri di assistenza fiscale e delle agenzie dello Stato preposte all’accertamento fiscale; e in secondo luogo del loro tempo libero. È infatti paradossale che si spenda tempo e denaro per saldare i propri debiti nei confronti dell’erario.

Progressività dell’aliquota unica
La prima obiezione che generalmente viene mossa contro la flat tax riguarda il mancato rispetto del principio di progressività2. Come ha spiegato Antonio Martino, questa accusa risulta però infondata. Essa non considera infatti la possibilità che insieme alla flat tax venga istituita una no-tax area, ossia una soglia minima al di sotto della quale il reddito non è tassato3.
È sufficiente riprendere l’esempio di Martino per cancellare ogni dubbio: dati due contribuenti A e B con reddito di 20.000 e 100.000 euro rispettivamente; e considerando una no-tax area di 10.000 euro e una aliquota unica del 20 per cento, A dovrà pagare al fisco 2.000 euro (il 20 per cento di 20.000-10.000), mentre B 18.000 euro (il 20 per cento di 100.000-10.000). Calcolando l’aliquota media pagata dai due contribuenti (il rapporto tra le imposte pagate e il reddito totale) si può vedere come la flat tax risulti assolutamente conforme al principio di progressività: il contribuente B (quello più ricco) paga infatti un’aliquota (18 per cento) superiore a quella di A (10 per cento). È chiaro, del resto, che il dettato costituzionale non si riferisce specificamente alle aliquote, ma alla struttura del sistema fiscale presa nel suo insieme. Come ha ricordato l’economista dei Democratici di Sinistra Nicola Rossi, «il principio di progressività affermato dalla Costituzione non lo si ritrova solo nelle aliquote ma nell’intero complesso delle entrate e delle uscite del bilancio dello Stato»4. Pertanto, non solo le imposte ma anche le spese dovrebbero attenersi a questo principio, e favorire dunque le classi meno abbienti.
Il modello di Meltzer e Richard assume come semplificazione che la ridistribuzione del reddito avvenga in modo diretto (attraverso l’elargizione di un sussidio a coloro che percepiscono un reddito inferiore ad un determinato livello) e non in modo mediato (attraverso la fornitura di un servizio ai più poveri). Ciò significa che all’interno di uno Stato, i percettori di un reddito superiore ad un determinato livello dovrebbero pagare un’imposta positiva, che lo Stato a sua volta dovrebbe trasferire sotto forma di sussidio ai percettori di un reddito inferiore a quello stesso livello5. Nella maggior parte dei sistemi occidentali questo trasferimento di risorse avviene però attraverso la fornitura di servizi pubblici: l’istruzione, la sanità, il sistema pensionistico, eccetera. Il problema è che la capacità di questi servizi di ridistribuire il reddito a favore delle fasce più povere della popolazione è andata diminuendo nel corso degli anni, e la spesa pubblica si è così trasformata in uno strumento per soddisfare le richieste delle varie lobby, corporazioni e costituency politiche del paese.

La regressività della spesa e l’equità della flat tax
Dietro alla bandiera della “spesa per i più deboli” si celano infatti interessi nascosti che con la tutela dei più deboli hanno davvero poco a che fare, e purtroppo l’Italia non è stato un paese estraneo a questa evoluzione6. Come ha sottolineato Giorgio Brosio, nel secondo dopoguerra, «l’espansione della spesa italiana [...] è stata [...] la più dinamica fra tutti i paesi industrializzati», tanto che «il livello di spesa sul prodotto nazionale è ormai pari a quello delle ‘democrazie del benessere’, cioè dei paesi del Nord Europa caratterizzati da un generoso sistema di protezione sociale». Sfortunatamente per i contribuenti italiani la qualità delle prestazioni offerte dallo Stato italiano non ha seguito la stessa dinamica della spesa ma si è mantenuta ad un livello «in molti casi scadente e addirittura inferiore a quello di Paesi con reddito assai inferiore al nostro»7. Oltre alla scarsa efficienza di molti servizi pubblici, si deve registrare anche la loro limitata efficacia nella ridistribuzione del reddito. All’inizio del 2002 – ossia prima delle recenti riduzioni delle aliquote fiscali – Chiara Saraceno parlava dell’Italia che non vorremmo vedere, un paese che, insieme all’Inghilterra, «presenta il più alto tasso di povertà minorile» in Europa. Oltre a questo dato sconcertante, Saraceno segnalava anche l’incapacità del sistema assistenziale italiano di correggere questa situazione, sottolineando come gli strumenti di sostegno al reddito delle famiglie povere avessero il «paradossale esito di lasciare fuori per lo più proprio i più poveri»8. Esito che risulta ancora più surreale se si considera la provocazione di Martino il quale ha sottolineato come «se i 447.698 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 2001 fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera popolazione [...] [quei miliardi] avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di oltre 31 milioni [di lire] all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani “poveri”»9.
Da quanto scritto emerge dunque un dato sconfortante: a fronte di un’alta tassazione, l’Italia non riesce a garantire uno Stato sociale che protegga le fasce più deboli della sua popolazione. È allora opportuno, per avere uno spaccato più chiaro della capacità ridistributiva della spesa pubblica italiana, analizzare brevemente la dinamica delle più importanti voci di spesa “sociale” del nostro paese: pensioni, sanità e istruzione, alle quali abbiamo accostato i sussidi alle imprese.

La spesa pensionistica
I più attenti studiosi sottolineano ormai da anni la necessità di ridurre la spesa pensionistica italiana in modo da dirottare maggiori risorse verso sistemi di protezione sociale attiva. In modo più o meno esplicito, questi studiosi hanno evidenziato come attualmente, al di là dell’iniquità intergenerazionale del nostro sistema pensionistico, alcune fasce della popolazione risultino essere particolarmente tutelate (i pensionati) a discapito di altre (i lavoratori attivi). In altre parole, invece di proteggere i più deboli (coloro che perdono il posto di lavoro, ad esempio), buona parte della spesa pubblica viene dirottata per mantenere i privilegi delle categorie protette. Ciò significa che tutti i lavoratori, anche quelli meno abbienti, pagano le pensioni a chi, grazie ad un sistema pensionistico squilibrato e a norme di tipo chiaramente clientelare, ha spesso lavorato per un periodo particolarmente limitato e ha pagato contributi che poco rispecchiano il valore dei trasferimenti pensionistici attualmente ricevuti (pensiamo alla legge Mosca, o alla possibilità concessa per anni ai dipendenti pubblici di andare in pensione dopo appena 15 anni di contributi versati, eccetera). Lo stesso attuale viceministro Vincenzo Visco non ha potuto fare a meno di sottolineare come il bilancio dello Stato sia «gravato [...] da una spesa per il welfare fortemente squilibrata verso le pensioni»,10 che da sola assorbe circa 13 per cento del pil, ovvero un quarto della spesa pubblica totale.

La spesa sanitaria
Un discorso analogo vale per la spesa sanitaria che, nel corso degli anni, più che i malati, sembra aver favorito gli interessi dei vari operatori del settore. È emblematico il fatto che il 50 per cento della spesa sanitaria provenga da tre sole regioni (Campania, Lazio e Sicilia) nelle quali però non vive certo metà della popolazione italiana!11
Martino è stato particolarmente efficace nello spiegare il funzionamento del sistema sanitario nazionale: «[i]l criterio di elargizione universale [...] si è sostanziato nel conferimento di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai ricchi con una ridistribuzione regressiva».12 Quindi: «I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private all’inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l’assistenza sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il costo delle prestazioni private o dell’assicurazione»13.

La spesa per l’istruzione
In un’economia fondata sulla conoscenza, il ruolo dell’istruzione è determinante per garantire il miglioramento delle condizioni di vita dei singoli individui, specie i più deboli. In modo assolutamente analogo alla sanità pubblica, l’istruzione ha visto e vede ancora però un sostanziale drenaggio di risorse dai più deboli ai più benestanti14.
La conoscenza della lingua inglese rappresenta un caso emblematico. Le scuole superiori – e in molti casi anche le università – non garantiscono agli studenti italiani un livello adeguato di conoscenza dell’inglese. Mentre gli studenti più benestanti si possono però permettere lunghe vacanze studio in Inghilterra se non addirittura negli Stati Uniti per sanare questa carenza, quelli più poveri continuano invece a trovare nella lingua franca dei nostri tempi uno dei maggiori ostacoli alla loro crescita intellettuale e professionale – e in alcuni casi, addirittura alla conclusione del loro percorso di studi universitario15. Eppure la Costituzione italiana è chiara: l’articolo 3 afferma infatti che «[è] compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese», mentre l’articolo 34 sancisce che «[i] capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ancora più paradossale, come ha ricordato Nicola Rossi, è il caso dell’università:16 essa viene finanziata dalla fiscalità generale (ossia viene pagata da tutti) e dalle tasse universitarie ma offre un servizio al quale spesso le classi meno abbienti non accedono – per il semplice motivo che non si possono permettere il “non lavoro”. In questo modo i più poveri contribuiscono a pagare un servizio di cui beneficiano solo i più abbienti. Inoltre, tra gli stessi studenti universitari le sperequazioni risultano quasi imbarazzanti: sono infatti gli studenti lavoratori, quelli cioè che non si possono permettere di frequentare i corsi senza lavorare, che con la loro assenza rendono agibili molti locali universitari.

I trasferimenti alle aziende
Quello dei trasferimenti alle imprese ci sembra infine un caso palese di “Robin Hood al contrario”. Sussidiando le aziende private (soprattutto quelle grandi, o i cosiddetti campioni nazionali) il nostro paese usa i soldi dei contribuenti (anche di quelli più poveri) per aiutare i ricchi. Senza contare gli effetti nefasti che questa prassi ha determinato sullo stato della nostra economia, è evidente il carattere regressivo di questa voce di spesa. In alcuni casi si è arrivati persino ai limiti della decenza: esemplare è il caso della crisi fiat dell’autunno 2002, nel quale, mentre il management responsabile della crisi si vide accordare una riguardevole buonuscita, agli operai dell’azienda veniva riservata una assai più modesta cig17. Ovviamente ogni scelta aziendale è assolutamente legittima e deve essere indipendente dalle pressioni popolari. Ma poiché nei soli anni Novanta l’azienda torinese ha ricevuto dallo Stato italiano più di 5 miliardi di euro, quella buonuscita è stata di fatto pagata dai contribuenti italiani, e quindi anche dagli stessi operai che proprio per colpa di questi manager furono messi in cassa integrazione.18 Oltre il danno, dunque, la beffa.
Tutti sanno quanto drammatica sia la cassa integrazione e proprio per questo motivo le proposte per riformarla sono numerose. Su tutte spicca la creazione di un sistema di protezione sociale attivo che secondo Boeri costerebbe allo Stato italiano circa 3 miliardi di euro. Ma questo sistema, come ci ricorda lo stesso Boeri, non è mai stato creato perché «troppo caro per lo Stato italiano»19. Sicuramente 3 miliardi di euro non sono pochi, ma se si pensa che nel solo 2003 i sussidi alle imprese sono ammontati a circa 30-50 miliardi di euro i dubbi sulla veridicità di quelle affermazioni sono più che leciti20.

L’iniquità del nostro sistema fiscale
Come precedentemente ricordato, il principio di progressività a cui deve attenersi il nostro sistema fiscale è da considerarsi per «[...] l’intero complesso delle entrate e delle uscite del bilancio dello Stato». Per quanto riguarda le entrate, formalmente il nostro attuale sistema fiscale rispetta alla lettera questo principio. Ma per quanto riguarda le uscite, le certezze si sgretolano velocemente.
Nei paragrafi precedenti abbiamo ricordato come la spesa pensionistica, quella sanitaria e quella per l’istruzione non rappresentino un trasferimento di fondi dai contribuenti ricchi a quelli poveri, ma piuttosto il contrario. Queste tre voci insieme rappresentano circa il 50 per cento della spesa pubblica (25 per cento, 10 per cento e 10 per cento rispettivamente): ciò significa che metà della spesa pubblica italiana è difficilmente classificabile come progressiva. Certamente essa aiuta anche i poveri, ma poiché sembra favorire anche e soprattutto le fasce più benestanti della popolazione, pare più opportuno parlare di spesa pubblica regressiva. Se infatti i “ricchi” pagano aliquote fiscali superiori ai poveri, ma ricevono in cambio servizi maggiori per numero, qualità e valore (quando non addirittura dei sussidi – quelli alle imprese), la progressività del sistema fiscale italiano diventa assai dubbia21.
E i dubbi crescono ulteriormente se ci limitiamo a considerare la spesa della sola pubblica amministrazione (ottenibile escludendo dalla spesa totale il servizio del debito), e se da quest’ultima sottraiamo ancora l’ammontare delle spese non “sociali” per antonomasia (amministrazione, ordine pubblico, eccetera), di cui godono tutti i cittadini in modo “uguale”. Infatti, anche assumendo che il sistema delle entrate fiscali sia effettivamente progressivo (fingendo che non esistano né l’elusione né l’evasione fiscale), la progressività del sistema nel suo complesso viene duramente limitata dai molti aspetti regressivi della nostra spesa pubblica.

L’equità della flat tax
Un’aliquota unica ridurrebbe l’onore fiscale per tutti i cittadini, specie per i più deboli che, come abbiamo dimostrato, partecipano attivamente al finanziamento del nostro iniquo sistema pensionistico, alla fornitura di quei servizi dei quali non possono beneficiare e al sostegno delle aziende italiane. Pertanto il primo modo per aiutare i più deboli non può che consistere nel restituire ad essi parte della loro ricchezza. Non è un caso che una delle recenti e più importanti riforme fiscali implementate in Europa vada proprio in questa direzione: secondo i calcoli del ministero delle Finanze austriaco con il recente abbattimento delle aliquote «i redditi medio bassi in particolare [...] saranno i principali beneficiari [...] Su 5,9 milioni di occupati, 2,55 non pagheranno più alcune tassa sul reddito»22. E lo ricordiamo per non lasciare spazio ai dubbi: l’Austria ha ridotto, non aumentato, le proprie aliquote fiscali.
Se si guarda inoltre all’evidenza empirica, si vede chiaramente come i tagli delle imposte abbiamo storicamente trasferito l’onere fiscale sui più ricchi: prima della riforma fiscale di Ronald Reagan, nel 1981 l’1 per cento dei contribuenti americani più ricchi garantiva il 18 per cento del gettito fiscale delle imposte sul reddito. Nel 1989 ne garantiva il 24 per cento. Nel 1980 il 5 per cento dei contribuenti più ricchi pagava il 35 per cento degli introiti derivanti dalle imposte sul reddito. Nel 1990 ne pagava il 49 per cento. Infine, se nel 1981 il 10 per cento più ricco versava il 44 per cento delle imposte totali sul reddito, nel 1989 la sua quota era passata al 55 per cento23. E lo stesso era già accaduto negli anni Sessanta, in seguito alla riforma fiscale di Kennedy, come ha dimostrato Daniel Mitchell24.
Anche alla luce di questi dati non può sfuggire un dato fondamentale: se lo Stato vuole veramente aiutare i più poveri, più che concentrarsi sulla ridistribuzione del reddito, dovrebbe operare in modo da favorire la crescita economica. Infatti, più è alto il reddito nazionale, più è elevato il livello di vita di tutti cittadini. È utile a questo proposito richiamare un lavoro di Olaf Gersemann il quale ha ipotizzato tre diversi scenari di crescita economica per il nostro paese relativamente al periodo compreso tra il 1982 e il 2002: nello scenario peggiore, il reddito medio annuo pro-capite degli italiani nel 2002 sarebbe stato (in parità di potere d’acquisto) di 1.933 $ superiore a quello che hanno realmente percepito, mentre se si fosse realizzata l’ipotesi intermedia il loro reddito sarebbe stato più elevato addirittura di 5.549 $ ppp (a parità di potere d’acquisto).25
È dunque evidente che la crescita economica rappresenta la migliore soluzione per accrescere le condizioni di vita dei cittadini, specie dei più poveri: pensiamo infatti a quante famiglie italiane baratterebbero volentieri il “nostro sistema fiscale progressivo” per quei 1.933 $ ppp di reddito medio pro-capite in più all’anno. Non parliamo poi di quei 5.549 $ ppp. Trattandosi di reddito medio pro-capite questo aumento potrebbe però essere il risultato di un forte arricchimento delle fasce più benestanti, e non di quelle più povere. Questa obiezione è certamente corretta, ma poiché i calcoli di Gersemann sono basati su una comparazione con la crescita economica registrata negli Stati Uniti, è interessante osservare come «negli anni 1981-89, il reddito del quintile più basso della stratificazione sociale americana crebbe del 7 per cento, dell’8 per cento quello del successivo quintile e del 12 per cento quello mediano»26. In altre parole, il reddito delle fasce più povere della popolazione è cresciuto sensibilmente.
Inoltre, il beneficio marginale tratto dai meno abbienti dalla crescita del loro reddito è superiore a quello degli individui a reddito superiore:27 quindi possiamo tranquillamente affermare che il beneficio per i poveri è superiore e quindi che la flat tax può fornire un contributo fondamentale al miglioramento del benessere dei cittadini a reddito più basso.

La crescita economica
Fino a questo punto ci siamo concentrati sull’equità e sulla progressività di un sistema fiscale basato sulla flat tax. Un argomento non meno importante è quello relativo alla crescita economica: laddove sono stati adottati, i sistemi fiscali ad aliquota unica sembrano infatti aver contribuito in modo determinante alla crescita del prodotto interno. Nei paragrafi successivi cercheremo di riassumere brevemente queste esperienze (vedere Grafico 1.1).

Il vento dell’Est
La flat tax è stata adottata da numerosi paesi dell’Est europeo: il caso più emblematico è quello di Estonia, Lettonia e Lituania, i primi paesi a seguire la lezione di Rabushka. Per fortuna, quel vento non si è arrestato sul Baltico, e anzi si è esteso, tanto che la concorrenza fiscale degli altri paesi baltici ha spinto Tallin a ridurre ulteriormente la pressione fiscale, innescando un circolo virtuoso per la crescita della regione. E non è un caso che la flat tax sia poi stata adottata da altri paesi dell’Est e recentemente la sua introduzione sia stata discussa anche in Polonia e soprattutto in Germania.
Come dimostra il grafico 1.1, il pil dell’Estonia è cresciuto quasi dell’80 per cento nei dieci anni successivi all’introduzione alla flat tax, mentre quello di Lettonia e Lituania è cresciuto di oltre il 70 per cento. Una performance economica non altrettanto straordinaria ma certamente positiva è stata registrata da Serbia e Ucraina.
La Serbia, rispetto ad un tasso di crescita del 3,3 per cento e dell’1,5 per cento registrato nei due anni che hanno preceduto l’introduzione della flat tax (2003), è passata all’8,5 per cento nell’anno successivo (vedere Grafico 1.2).
In modo analogo in Ucraina da un tasso di crescita di poco superiore al 4 per cento si è passati ad una crescita del 7 per cento, nonostante le turbolenze politiche che hanno afflitto il paese in quell’anno (vedere Grafico 1.3).
Lo stesso è avvenuto poi in Russia, come ha notato Arthur Laffer, dove, da un tasso medio di crescita dell’1,1 per cento nei cinque anni che hanno preceduto questa riforma, l’economia è passata a ad un tasso medio di crescita del 4,7 per cento negli anni successivi28.

The evidence of History
A questo punto è d’obbligo farsi una domanda: esiste una relazione tra taglio delle imposte e crescita economica?
Un richiamo agli illuminanti lavori di Arthur Laffer proprio su questo tema ci permette di affermare senza esitazione che questa relazione esiste ed è evidente. La riduzione delle imposte favorisce infatti la crescita dell’offerta di lavoro che a sua volta si ripercuote immediatamente sul prodotto del paese. Probabilmente neppure Laffer potrebbe essere in grado di convincere certi avversari della riforma fiscale, che più che argomenti affastellano pregiudizio. Eppure è proprio un uomo politico insospettabile di liberismo come Vincenzo Visco a riconoscere che «l’eccesso di progressività può determinare un disincentivo al lavoro, in quanto di fronte alla prospettiva di dover pagare percentuali elevate e crescenti del proprio reddito gli individui potrebbero preferire lavorare di meno e produrre di meno»29. In realtà l’ex ministro non dice nulla di nuovo: molti economisti hanno già approfondito questo tema, non ultimo il premio Nobel Edward Prescott.30 Osservando quanto è accaduto laddove la tassazione è stata ridotta drasticamente e in maniera permanente,31 i risultati sono eclatanti: partiamo dall’Austria che, dopo la poderosa rivoluzione fiscale avviata nel 2004, ha visto la propria economia crescere del 2,4 e del 2,1 per cento contro tassi molto più europei nei due anni precedenti32. Lo stesso è avvenuto negli Stati Uniti che, dopo lo stimolo fiscale di George W. Bush, hanno superato velocemente la recessione del 2001, e successivamente hanno archiviato tassi di crescita di primo livello: 2,2 per cento nel 2002, 3,1 per cento nel 2003 e poi 4,4 per cento nel 200433.
Se guardiamo all’esperienza dei tagli fiscali di Kennedy e Reagan si vede come nel periodo immediatamente successivo alla loro introduzione i tassi di crescita del paese sono letteralmente rimbalzati: gli Stati Uniti crebbero infatti del 5 per cento medio annuo tra il 1961 e il 1968, mentre per quanto riguarda gli anni Ottanta di Reagan ci sembra sufficiente ricordare quei novantadue mesi di crescita ininterrotta senza precedenti nella storia americana.
Ciò ovviamente non significa che la riduzione della aliquote sia il silver bullet per garantire la crescita economica: e certamente esistono dei casi (per esempio quando il livello della pressione fiscale è già particolarmente basso) in cui una riduzione delle aliquote può avere effetti limitati se non nulli. Ma questo non sembra essere il caso del nostro paese che non brilla certo per ridotta imposizione fiscale né per eccesso di offerta di lavoro (vedere Grafico 1.4).

Crescita degli introiti fiscali ed emersione del nero
I benefici della flat tax non si fermano però alla sola crescita economica: un taglio delle imposte non solo stimola l’attività lavorativa, ma incentiva anche l’emersione del sommerso ed elimina o riduce drasticamente le scappatoie del sistema fiscale che permettono ai contribuenti di eludere il fisco. Infatti, come ha affermato Visco: «[...] l’evasione e l’elusione fiscale sono fortemente influenzate [...] dalla “ripidità” della curva delle aliquote»34. In altre parole: un’elevata tassazione marginale del reddito (elevata progressività) incentiva fortemente l’evasione e l’elusione fiscale. La crescita registrata nel valore delle imposte pagate dai contribuenti americani più ricchi in seguito ai tagli fiscali di Ronald Reagan e di John Kennedy di cui si è parlato in precedenza fornisce un valido esempio di come, a fronte di un minore livello di tassazione, diminuisca l’incentivo ad evadere il fisco: altrimenti non si spiegherebbe la crescita delle imposte pagate dalle fasce a reddito più elevato.
Il grafico 1.435 mostra l’andamento delle recenti variazioni annue delle entrate federali degli usa: da esso si deduce chiaramente come, una volta entrati a pieno regime, i tagli fiscali introdotti nel 2001 dalla neo-eletta amministrazione Bush abbiano prodotto i loro effetti, proprio come già era accaduto con i tagli effettuati da Reagan e da Kennedy36. Il taglio delle aliquote ha dunque prodotto una crescita degli introiti e uno spostamento dell’onore fiscale sui più ricchi. Fenomeno al quale si è potuto assistere anche in Russia,37 in Lettonia,38 in Ucraina e in Estonia. A proposito dell’evasione però, ci pare comunque ragionevole seguire un approccio prevalentemente teorico: quello empirico presenta dei forti limiti per lo studio di un fenomeno che per antonomasia non può essere analizzato empiricamente. La teoria (per inciso: i modelli della rational choice), confermata comunque dalla pratica, ci dice che una riduzione delle aliquote può spingere gli evasori ad emergere: quando si riduce il differenziale tra il costo dell’evasione (sia in termini economici, sia in termini di reputazione) e il suo beneficio, l’incentivo a evadere cala. Nel caso della flat tax ci sarebbe poi un altro beneficio: l’elusione fiscale (cioè quei metodi – legali ma costosi – oggi adottati per ridurre il carico fiscale grazie alle infinite pieghe di un sistema intricato) verrebbe sostanzialmente ridotta in quanto, abolendo il complicato sistema di deduzioni, non sarebbe più conveniente andare alla ricerca dei suoi vari loopholes per ridurre il proprio debito verso l’erario.
Nelle pagine precedenti abbiamo ricordato come in Italia la maggior parte della spesa pubblica “sociale” vada in realtà a favorire in modo più o meno diretto anche (quando non soprattutto) le fasce più abbienti della popolazione (quelle cioè che sono capaci di organizzarsi per difendere i propri interessi: dai dipendenti pubblici ai pensionati, dalle aziende ai professionisti). L’elargizione universale dei servizi rende difficile calcolare il reale trasferimento di risorse, ma dall’analisi che abbiamo compiuto sui tre principali capitoli di spesa “sociale” (pensioni, sanità e istruzione), emerge come questo trasferimento tenda a favorire i più benestanti.

Equità e semplicità
Sulla base di quanto detto, un’eventuale riduzione della spesa dovuta all’introduzione della flat tax non comporterebbe alcun dramma sociale: l’attuale livello di spesa pubblica ha infatti poco a che fare con la difesa dei più deboli – i recenti casi di malasanità (considerando anche il fatto che negli ultimi anni la spesa sanitaria è costantemente aumentata) e l’inadeguatezza dell’istruzione pubblica forniscono solo alcune delle innumerevoli conferme possibili. Perché l’Italia possa essere un paese più “equo”, e quindi perché il sistema fiscale sia realmente «informato a criteri di progressività» come chiede la nostra Costituzione è dunque necessario porre fine a questa situazione oltraggiosa, e abbandonare un sistema fiscale vecchio, iniquo e non più adatto a fronteggiare le esigenze di un’economia globale. Ciò significa ridurre fortemente il peso dello Stato nell’economia e limitare i trasferimenti solo a favore di chi ne ha veramente bisogno. La flat tax potrebbe contribuire al raggiungimento di questo obiettivo in quanto, semplificando il sistema fiscale, permetterebbe ai cittadini di avere un quadro molto preciso di quanto lo Stato chiede loro e di quanto offre in cambio. E ciò potrebbe portare molti contribuenti ad interrogarsi sulla vera utilità di mantenere un livello di spesa in cui i benefici vanno ad una ristretta minoranza della popolazione, innestando così un circolo virtuoso che sicuramente non nuocerebbe alla salute di questo paese. La flat tax contribuirebbe a rendere più equo il nostro paese non solo riducendo l’onere fiscale sui più deboli, ma anche spostandolo sui più abbienti – riducendo gli incentivi all’evasione e all’elusione. «Non è un caso – ha sottolineato recentemente Martino – che in tutte le riforme fiscali dell’ultimo mezzo secolo (quella di Kennedy all’inizio dei Sessanta, di Reagan all’inizio degli Ottanta, quelle in Irlanda, ecc.) la riduzione delle aliquote ha determinato [...] un aumento della percentuale del gettito pagata dai contribuenti più ricchi con conseguente diminuzione di quella pagata dai contribuenti più poveri»39.

La crescita economica e l’aumento degli introiti fiscali
Abbiamo poi ricordato i meriti della flat tax in merito alla crescita economica e delle entrate fiscali. Ciò significa che, dato l’alto livello delle nostre aliquote fiscali, una loro riduzione potrebbe avere effetti analoghi a quanto osservato laddove l’aliquota unica è stata introdotta. Inoltre, in Italia la tassazione sul reddito garantisce solamente il 14 per cento degli introiti totali dello Stato: un livello che potrebbe essere garantito da una flat tax del 14 per cento se non si prevedono esenzioni, o da un’aliquota del 25 per cento con una no-tax area, come ha suggerito Alvin Rabushka40. A ciò si aggiunga che una riduzione delle imposte avrebbe un effetto positivo soprattutto su uno dei nostri punti più deboli: l’offerta. Infatti solo rendendo più conveniente il lavoro al margine si può incentivare una crescita della sua offerta complessiva. Certo, in questo caso anche l’ingessatura del mercato del lavoro sembra giocare un ruolo determinante, ma rimane difficile immaginare che gli italiani possano decidere di lavorare di più se il sistema fiscale penalizza il motivo principale di questa loro scelta, la crescita del reddito. Va poi tenuto in considerazione il fatto che l’attuale complessità del sistema fiscale rende più conveniente l’investimento (di tempo e denaro) nella ricerca di efficaci metodi di elusione ed evasione piuttosto che nell’economia reale: finché il tasso marginale di rendimento dell’evasione e dell’elusione sarà nettamente superiore al tasso di remunerazione del capitale o del lavoro, sarà infatti difficile contrastare efficacemente questi due fenomeni.

L’unica alternativa rimasta
Detto tutto ciò, bisogna riconoscere che la flat tax non è la soluzione a tutti i nostri problemi: non sostituisce le riforme che bisogna comunque portare a termine, non aumenterà la produttività del settore pubblico e di quello privato, e non liberalizzerà i settori protetti.
È pura illusione credere che una sola misura possa avere degli effetti magici: per questo motivo lasciamo volentieri ad altri questo genere di illusioni. Pertanto, ci sembra quanto mai necessario essere chiari: la flat tax non è un silver bullet. Nel caso dell’Italia sembra però essere l’ultimate bullet. Anche per questo motivo bisogna riconoscere le enormi differenze tra i paesi che hanno introdotto la flat tax e l’Italia. Tra i quali vi sono però anche due importanti analogie: innanzitutto l’Italia, proprio come questi paesi alla vigilia delle loro riforme fiscali, ha un’enorme economia sommersa e, in secondo luogo, “vanta” una pesante eredità del suo passato. Come ha scritto Laura Pennacchi (deputato dei ds), i paesi che hanno adottato la flat tax erano «caratterizzati da amministrazioni fiscali così dissestate da non essere in grado di esigere nemmeno parte del gettito dovuto»,41 e l’Italia, con un’economia sommersa del 30 per cento, non può certo essere esclusa da questa categoria (come sembra invece fare Pennacchi). Inoltre con l’introduzione della flat tax questi paesi hanno voluto compiere una drastica svolta rispetto al loro passato. Negli ultimi dieci anni il nostro paese ha invece preferito procedere a piccoli passi, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Anche l’Italia ha dunque bisogno di una svolta, e questa deve innanzitutto mirare a ristabilire la fiducia dei cittadini. Ma sembra difficile che ciò possa avvenire se lo stesso Stato ha poca fiducia nei cittadini medesimi, pretendendo di conoscere meglio di loro come spendere le risorse del paese. In secondo luogo è necessario ristabilire la fiducia degli investitori internazionali creando un clima business-friendly, caratterizzato non solo da un “adeguato” livello di tassazione ma anche da una limitata burocrazia, risultato raggiunto solo dopo l’introduzione della flat tax dai paesi di cui abbiamo parlato in precedenza. Poiché la sua capacità di generare introiti è direttamente collegata alla crescita del reddito nazionale, l’aliquota unica sembra avere un effetto de-burocratizzante ben superiore agli atri sistemi fiscali. Questi due aspetti (limitata imposizione fiscale e de-burocratizzazione) hanno un ruolo decisivo nel determinare le scelte degli investitori internazionali: e l’Italia mai come in questo momento ha bisogno di capitali internazionali sia per poter modernizzare la sua industria che per far crescere la produttività dei suoi servizi.

Perché la flat tax in Italia
A questo punto è doveroso spiegare perché, a nostro modo di vedere, è essenziale introdurre una sola aliquota. Innanzitutto, più aliquote indebolirebbero proprio gli effetti prodotti dalla flat tax, che sono anche quelli di cui l’Italia ha maggiormente bisogno: crescita economica, stimolo all’offerta di lavoro, disincentivo all’evasione e all’elusione. In secondo luogo solo la flat tax avrebbe un chiaro effetto positivo sul sentiment tanto degli operatori stranieri che di quelli nazionali. Inoltre, con un’aliquota tra il 20 e il 25 per cento l’Italia potrebbe garantire gli stessi introiti fiscali che si ottengono attualmente ma contemporaneamente mantenere anche un sistema progressivo (attraverso una no-tax area) e stimolare tanto l’attività economica quanto l’emersione dell’economia sommersa.
Esistono poi alcune interessanti alternative che il nostro paese potrebbe considerare: in Grecia per esempio la no-tax area varia in relazione allo status dei cittadini (lavoratori attivi o pensionati)42. In Italia si potrebbe pensare di collegare la no-tax area al numero dei membri del nucleo familiare in modo favorire la natalità. Ma queste sono in fondo questioni tecniche (anche se pur sempre politiche) che potranno essere esaminate in un secondo momento. Il primo passo da compiere rimane sempre un altro: attaccare la spina, e passare il ferro da stiro così da appiattire aliquote fiscali, iniquità e ostacoli alla crescita economica43.

 

Note
1. Cfr. Steve Forbes, “One Single Rate”, Wall Street Journal, 15 agosto 2005. Il settimanale britannico The Economist ha ripreso l’idea della cartolina fiscale con una simpatica vignetta comparsa all’interno di una sua inchiesta sulla flat tax, nella quale sottolineava come, sulla base dell’esperienza maturata in Russia, «il principale vantaggio della flat tax è la sua semplicità», cfr. “Simplifying tax systems”, The Economist, 16 Aprile 2006.
2. Questa critica è riuscita a fare molti proseliti, tanto da essere accettata addirittura da acuti osservatori come Guido Gentili, “La sfida della flat tax per destra e sinistra”, Il Sole-24Ore, 13 settembre 2005.
3. Antonio Martino, Flat tax: il grano delle cose, e la paglia delle parole, Istituto Bruno Leoni, Torino, 2005.
4. Roberto Bagnoli, “Rossi: la flat tax? Un’idea per il programma dell’Unione”, Il Corriere della Sera, 22 settembre 2005.
5. Cfr. Allan H. Meltzer e Scott F. Richard, “A Rational Theory of the Size of Government”, in Journal of Political Economy, vol. 89, n. 5 (Oct., 1981), pp. 914-927.
6. Sono illuminanti a proposito le parole di Antonio Martino: «Se sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di Stato è aumentato al diminuire della povertà?». Cfr. Antonio Martino, Solidarietà o Statalismo [Prima parte], 25 aprile 2002, consultabile all’indirizzo www.ideazione.com/settimanale/3.economia/64-25-04-2002/martino.htm.
7. Cfr. Giorgio Brosio, Economia e Finanza Pubblica, Carocci, 2° edizione, 1998, p. 265.
8. Cfr. Chiara Saraceno, “Famiglie Povere con figli minori: l’Italia che non vorremmo (vedere)”, in Il Mulino, 399 (1), 2002, pp. 86- 89.
9. Antonio Martino, Semplicemente liberale, Liberilibri, Macerata, 2004, p.76.
10. Vincenzo Visco, “Spesa pubblica e procedure di bilancio”, in Il Mulino, 420(4), 2005, p. 498.
11. Cfr. www.farmindustria.it/Farmindustria/documenti/in200504.pdf.
12. Antonio Martino, Solidarietà o Statalismo [Prima parte], 25 aprile 2002.
13. Antonio Martino, Solidarietà o Statalismo [Seconda parte], 2 maggio 2002, consultabile all’indirizzo www.ideazione.com/settimanale/3.economia/65-10-05-2002/65martino.htm.
14. oecd, Education at a glance: oecd Indicators 2005, oecd, 2005. (www.oecd.org/document/34/0,2340,en_2649_34515_35289570_1_1_1_1,00.html).
15. Un esempio lo fornisce in questo caso il Politecnico di Torino, nel quale su 4335 studenti immatricolati nel 2001, solo 2254 avevano superato l’esame di inglese alla fine di giugno 2004. Cfr. www2.polito.it/strutture/cpd/conv/V4-07-06.htm.
16. Cfr. Roberto Bagnoli, “Rossi: la flat tax? Un’idea per il programma dell’Unione”, Il Corriere della Sera, 22 settembre 2005.
17. Boeri si riferisce alla liquidazione percepita dagli ex amministratori delegati Fiat Cesare Romiti e Paolo Cantarella. Cfr. Tito Boeri, Vizi privati e costi pubblici.
18. Cfr. Massimo Mucchetti, Licenziare i Padroni?, Feltrinelli, Milano 2003, p. 65.
19. Cfr. Tito Boeri, Vizi privati e costi pubblici.
20. Alberto Alesina, Il declino relativo della nostra economia, consultabile all’indirizzo http://www.indicod-ecr.it/tendenze/num_50/pdf/DECLINO_ECONOMIA.pdf.
21. Foerster e Pearson hanno evidenziato come in Italia i poveri percepiscano poco più del 20 per cento dei trasferimenti monetari netti contro il 34 per cento ricevuto dai ricchi e uno strabiliante 46 per cento ricevuto dalle classi medie. Non sembrano necessari ulteriori commenti a questi dati. Si veda a proposito Michael Foerster and Mark Pearson, “Income Distribution and Poverty in the oecd Area: Trends and Driving forces”, oecd Economic Studies, no. 34, p. 21,31.
22. Federal Ministry of Finance, Austria Tax Book 2005: Advice on Tax Assessment for Employees in 2004, p. 3; (english.bmf.gv.at/Service/pub/tax2005.pdf).
23. Cfr. Oscar Giannino, La questione fiscale, ibl Occasional Paper n. 13, 20 aprile 2005, p. 2, consultabile all’indirizzo brunoleoni.servingfreedom.net/OP/13_Giannino.pdf; e Antonio Martino, Ronald Reagan: L’ingenuo cowboy che salvò l’America, IBL Occasional Papers, p.3, (brunoleoni.servingfreedom.net/OP/5_Reagan.PDF).
24. Daniel Mitchell, The Correct Way to Measure the Revenue Impact of Changes in Tax Rates, (www.heritage.org/Research/Taxes/BG1544.cfm): si veda Chart 6: Rich Paid More Under 1960s Kennedy Tax Cuts (www.heritage.org/Research/Taxes/images/B_1544_chart-6.gif).
25. Olaf Gersemann, Cowboy Capitalism: European Miths, American Reality, Cato Institute, Washington, DC, 2004, pp. 11-15. A proposito dei tre scenari, dobbiamo ricordare di non aver preso in considerazione lo scenario migliore perchè, a detta dello stesso Gersemann, è palesemente irrealistica.
26. Cfr. Oscar Giannino, op. cit., p. 2.
27. Per essere più precisi, una crescita del reddito anche minima ha un valore assai superiore per i redditi più bassi anche qualora essa sia percentualmente inferiore a quella dei redditi più elevati. Seguendo gli insegnamenti della microeconomia: l’utilità marginale di un bene, nel nostro caso il reddito, è superiore quando la sua disponibilità è più limitata.
28. Arthur B. Laffer, The Laffer Curve: Past, Present and Future, 2004, Fig. 8: Average Annual GDP growth in Select Countries Before and After Flat Tax Implementation, p. 21. consultabile all’indirizzo www.eftr.org.
29. Cfr. Vincenzo Visco, “La flat tax italiana? È l’imposta regionale”, Il Sole-24Ore, 25 settembre 2005, p. 3.
30. Cfr. Edward C. Prescott e W.P. Charey Chair, “Why do Americans Work So Much More Than Europeans”, in Federal Riserve Bank of Minneapolis Quarterly Review, Vol. 28, No. 1, July 2004, pp.2-13, consultabile all’indirizzo woodrow.mpls.frb.fed.us/research/qr/qr2811.pdf; si veda anche Alberto Alesina, Edward Glasner and Bruce Sacerdote, “Work and Leisure in US and Europe: Why so different?”, March 2005, consultabile all’indirizzo post.economics.harvard.edu/faculty/alesina/papers/work_leisure.pdf.
31. Si ricordi la teoria dell’equivalenza ricardiana.
32. Cfr. w3.unece.org/pxweb/Dialog/statfile1_new.asp; per tassi europei di crescita economica intendiamo i famosi “zero virgola”. Infatti nel triennio precedente l’Austria è cresciuta rispettivamente dello 0,75 per cento, 1,25 per cento e 0,75 per cento.
33. Cfr. devdata.worldbank.org/data-query/.
34. Cfr. Vincenzo Visco, “La flat tax italiana? È l’imposta regionale”.
35. Il grafico è basato su una previsione confermata nella prima metà di giugno dall’Office of Management and Budget’s Mid-Session Review. Cfr. a proposito Brian Riedl and Rea S. Hederman Jr, The Tax Cuts Are Working, Yet Spending Challenges Remain, consultabile all’indirizzo www.heritage.org/Research/Budget/wm794.cfm.
36. Tra il 1961 e il 1968 gli introiti fiscali crebbero infatti del 62 per cento
37. Cfr. Ministry Of Finance, Republic of Latvia, Pocket Budget: The Central Government Budget for (1994-2005), consultabili sul sito del Ministero delle Finanze lettone www.fm.gov.lv/index.php?id=8.
38. Id., p. 22, Fig. 9: Russian Annual Tax Base.
39. Antonio Martino, Ancora sulla Flat Tax, (www.brunoleoni.com/nextpage.aspx?codice=0000000906).
40. Alvin Rabushka, Semplicità ed equità: le virtù della flat tax, 2005. Cfr. anche Riccardo Faini, Silvia Giannini, Daniel Gros, Fiorella Kostoris Padoa Schioppa e Giuseppe Pisauro, op. cit., Figura 3: Imposte dirette, imposte indirette (al lordo e al netto di Irap) e contributi sociali in per cento del pil; Italia 1995-2004, p. 18.
41. Cfr. Laura Pennacchi, “Ridurre le tasse? Non sempre fa bene al Pil”, Il Sole-24Ore, 6 ottobre 2005.
42. Hellenic Republic, Ministry of Economy and Finance, General Accounting Office, op. cit. , p. 2.
43. Abbiamo preso a prestito questa simpatica metafora dalla copertina del settimanale The Economist che trattando la diffusione della flat tax mise appunto in prima pagina un ferro da stiro.
* Oscar Giannino, op. cit.

 

Andrea Gilli, specializzando in International Relations presso la London School of Economics and Political Science.

Mauro Gilli, specializzando in International Relations presso la Sais Bologna Center della Johns Hopkins University.

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