Tra globalizzazione e "via nazionale"
forum con Alessandro Carpinella, Jean Pierre Darnis, Philippe de Nouel, Ubaldo Livolsi, Domenico Mennitti
Ideazione di luglio-agosto 2006

Lo scorso anno intorno alla questione bancaria si è consumato un vero e proprio scontro, in cui si sono incrociate due questioni tra loro un po’ diverse: da una parte una fortissima lotta di potere, e dall’altra una battaglia di idee che ha riguardato la questione dell’internazionalizzazione del sistema bancario, il tema dell’integrazione, del rapporto tra nazionalità del sistema e globalizzazione. Un esempio per introdurre il tema nello specifico: ciò che più colpisce nel dibattito più recente sulla questione Autostrade-Abertis è il favore che riscuote la cosiddetta soluzione nazionale da parte di quelle stesse persone che sulla vicenda bancaria si erano invece schierate a sostegno della necessità dell’integrazione dei mercati e di non tenere conto del fattore nazionale o della necessità di proteggere le frontiere.

Da qui il primo argomento di discussione: a vostro avviso che cosa è effettivamente successo l’anno scorso?

Philippe de Nouel
– L’Europa continentale è un mosaico di paesi diversi. Questa conformazione ha inevitabilmente un impatto sul mondo bancario. In Europa, infatti, esso è il frutto della storia economica dei diversi paesi che la compongono e i sistemi di finanziamento sono diversi da un paese all’altro. Fino agli anni Ottanta, tutte le banche erano più o meno nelle mani dei governi, erano banche nazionalizzate, pubbliche, senza una logica di mercato. Se guardiamo la storia di tutto il Ventesimo secolo, ci accorgiamo che questa logica di mercato è arrivata in Europa molto di recente. Dunque ogni paese deve tener conto della sua propria storia economica, finanziaria e anche sociale – una dimensione, quest’ultima, niente affatto trascurabile dal momento che il mondo bancario coinvolge una fascia di popolazione compresa tra il 2 e il 4 per cento. Insomma, l’atteggiamento italiano è perfettamente comprensibile anche dal punto di vista di un francese che, come me, lavora in Italia. Ed è comprensibile perché questo atteggiamento è lo stesso della Francia e di altri paesi europei. Con l’eccezione del mondo anglosassone, dell’Inghilterra.
Ciò che, invece, mi riesce difficile capire è l’atteggiamento europeo, che si trincera dietro al principio secondo cui si devono rispettare le regole del libero mercato: stiamo costruendo l’Europa, quindi dobbiamo agire, andare avanti e aprire le frontiere e i confini anche nel mondo bancario. Questo principio si è rivelato nei fatti una dichiarazione di intenti, poiché concretamente, non si è raggiunto alcun risultato. Sono convinto, invece, che a dare qualche orientamento specifico dovesse essere la Commissione europea, al limite il Consiglio europeo. Le autorità di vigilanza nazionale hanno addirittura difficoltà a dialogare fra di loro: la Banca d’Italia ha difficoltà a dialogare con la Banca di Francia, la Banca d’Inghilterra con le autorità dei Paesi Bassi.
Quindi, poiché la storia di ciascun paese è diversa e poiché non esistono delle regole a livello europeo, la situazione italiana va gestita soltanto con l’approccio italiano. Poi è ovvio che si debba costruire una strada comune.

Ubaldo Livolsi – La premessa è molto interessante, d’altro canto la domanda è talmente complessa che è difficile dare una risposta in tempi brevi. Ci proverò anche perché involontariamente ho vissuto dal di dentro queste vicende, rispetto alle quali, premetto, non c’è una posizione italiana univoca. Come si è visto, vi è stata una divisione fortissima riguardo la possibilità di intervento su banche cosiddette “prede”, che potevano essere in qualche modo acquisibili.
Sbaglieremmo se non facessimo un piccolo passo indietro per cercare di capire da quando è nato il problema della concentrazione degli istituti bancari e soprattutto il problema del cambiamento del ruolo fino a quel momento esclusivo della Banca d’Italia. E stiamo parlando del fallimento di aggregazioni importanti, come quella fra UniCredit e la Banca commerciale italiana, concentrazioni che erano state promosse dalla Banca d’Italia, la quale non solo si poneva in qualche modo il problema di costruire un forte sistema bancario italiano ma decideva anche chi fare aggregare, arrogandosi di fatto un potere, ma un potere “diverso”.
In quel momento la particolarità del sistema economico italiano aveva fatto nascere quella che noi consideriamo la banca universale all’italiana: alcune grandi banche che invece di dare delle risposte che potessero favorire lo sviluppo avevano in sé germi di pesantissima distruzione del settore economico italiano. I casi Cirio e Parmalat hanno dimostrato come la funzionalità del sistema della banca universale all’italiana avesse agito in maniera negativa. Il trasferimento dei debiti bancari verso il sistema degli azionisti, quindi verso un largo pubblico (senza entrare nel merito degli aspetti giudiziari di queste vicende) ha, infatti, in qualche modo alterato il sistema: di fronte al debito bancario, invece di favorire lo sviluppo di aggregazione di alcune industrie si è diminuito l’indebitamento ricorrendo al risparmio pubblico degli investitori. È in questo scenario che nasce la necessità di fare aggregazioni: si tenga presente che il mercato italiano è reputato estremamente interessante da parte di grandi gruppi internazionali. E contemporaneamente, nasce l’esigenza di rintracciare modelli che potevano essere “italiani”, senza ricorrere alle aggregazioni.
E qui a mio avviso si sconta ancora una volta il ruolo del sistema bancario in Italia. Non vi è dubbio che entrambi i concetti siano condivisibili. Da un lato, quello dell’intervento del grande gruppo internazionale in Italia, che però vede necessariamente la banca italiana nell’ottica della strategia globale del proprio gruppo (immagino che la Abn Amro, nell’acquisizione di Antonveneta, abbia badato soprattutto all’acquisizione di un mercato importante, ad esempio, nel settore del risparmio gestito, dei depositi e cosi via, e meno alla necessità di finanziare la piccola media impresa che invece era uno dei punti di forza dell’Antonveneta). Dall’altro, il progetto della Popolare di Lodi, o Popolare italiana che dir si voglia, mirato a formare con Antonveneta un grande gruppo in qualche modo fortemente concentrato nel nord d’Italia. Il progetto di creare una forte banca su base regionale, che avesse come obbiettivo di rafforzare la presenza sul territorio, poteva anche essere visto positivamente: e questo al di là delle altre vicende collegate.
Mi chiedo: nell’ambito di una strategia di centralizzazione e riduzione dei costi (in nome della quale la Abn Amro sta spostando tutti i call center in India), quanto è plausibile che Antonveneta possa diventare la banca di grande supporto all’imprenditoria del Nord-Est? La bnl è leggermente diversa, perché non è una banca retail, era già una banca corporate. A mio avviso, non si può dare una risposta univoca: purtroppo, vedo in azione in Italia una logica più di potere che di vero interesse per lo sviluppo della banca come motore dell’economia di un paese.

Domenico Mennitti – Fra i molti libri pubblicati in questo periodo ce n’è uno di Vittorio Borelli – un giornalista che ha lavorato a lungo in Unicredit – dal titolo Banca padrona. Nel suo libro Borelli sostiene la tesi di come in effetti a fare da padrona nell’economia italiana sia stata in tutti questi anni proprio la banca e di come essa sia stata in una prima fase utilizzata molto dalla politica. Basti pensare alle banche che facevano, di fatto, capo allo Stato. Successivamente, anche sulla base del cattivo andamento degli istituti controllati dalla politica, vi è stata un’inversione di tendenza, e le banche sono diventate così forti da condizionare l’economia.
Nella sua analisi Borelli si spinge oltre e sostiene una tesi che è veramente importante per spiegare i fatti dello scorso anno: il vero padrone dell’economia italiana è stata la Banca d’Italia. In effetti, tutta l’operazione delle concentrazioni in Italia è stata condotta dalla Banca d’Italia, senza lasciarsi molto condizionare dalle regole del mercato: persino le visite ispettive commissionate erano decise per tracciare il cammino delle concentrazioni. In realtà la Banca d’Italia, invece di corrispondere alle regole del mercato, viveva una vita propria, decideva deliberatamente di salvare o di affossare le aziende – come è accaduto per il Banco di Roma e per il Banco di Sardegna. Questa prassi rispondeva ad una mentalità secondo la quale una banca non può mai fallire, semmai quella più grande assorbe quella più piccola e si carica dei debiti. La questione di chi dovesse pagare questi debiti era un’altra storia.
Questa prassi consentiva alle banche di avere un potere di vita o di morte sulle imprese, a prescindere dalla loro resa sul mercato, creando una specificità che è tutta italiana: attraverso questa lunga operazione di concentrazione abbiamo rafforzato le banche sul piano interno indebolendole sul piano internazionale. Questa anomalia così forte e incisiva si è poi riflessa anche nelle scalate, ambito nel quale è difficile capire quando un’operazione rientra nelle regole e quando no. Esse infatti si svolgono con grande discrezionalità e sono regolate da un potere, prevalentemente nelle mani di Banca d’Italia, che stabilisce chi può fare e chi non può fare le scalate. Del resto, è difficile che accada che un uomo si presenti sulla scena del mondo finanziario e si affermi grazie alle sue capacità: questa non è l’America, è l’Italia. Ricapitolando, esiste un reticolo di partenza che viene deciso da due grandi poteri: uno è quello della banca e uno è quello della giustizia; questi due poteri combinano il proprio intervento, determinano lo sviluppo o la crisi di operazioni finanziarie. È chiaro come in questo stato di cose la finanza in Italia abbia difficoltà a realizzarsi, perché se la libertà rappresenta uno degli elementi fondamentali per la concorrenza, laddove viene meno è tutto il sistema che viene inficiato.
Tutto quello che è accaduto nell’estate scorsa altro non è se non la lotta tra due poteri, ognuno dei quali cercava di guadagnare terreno sull’altro, e, come sempre accade quando nessuna delle due forze in campo riesce ad imporsi sull’altro, è intervenuto il conflitto. In questo conflitto c’era anche una marcata presenza politica, risolta dalla magistratura che – soprattutto quando si tratta di reati penali – ha la capacità di risolvere velocemente i problemi. Ma apro un altro fronte, quello del rapporto con il potere forte della magistratura.

Alessandro Carpinella – Per quanto riguarda lo scontro di poteri cui accennava Marco Ferrante inizialmente, quello che ha detto Domenico Mennitti mi sembra largamente condivisibile. Più interessante mi pare indagare l’altro aspetto: lo scontro di visioni, ossia gli argomenti che sono stati utilizzati per sostenere l’una o l’altra delle due parti.
È curioso come gli argomenti siano spesso reversibili. Quelli che all’epoca ci apparvero come sostenitori di un’apertura senza confini, quasi senza regole, del mercato bancario (lo ha ricordato Ferrante inizialmente) li ritroviamo oggi in buona misura sul fronte opposto della cautela, che si pongono il problema della tenuta di grandi sistemi imprenditoriali – come quello delle infrastrutture autostradali. Prima di confinare simili argomenti nel terreno delle retoriche, il che non sarebbe completamente corretto, credo si possa provare a interrogarsi sul senso industriale che l’apertura o al contrario la chiusura al mercato internazionale può vantare, in ciascun settore.
Qui credo che i banchieri possano e debbano rivendicare, più di quanto non abbiano fatto finora, le specificità del loro settore: ad esempio, rispetto a quello delle infrastrutture, o a quello energetico. Il punto è chiedersi se il sistema bancario sia o meno un settore globale: ossia un settore nel quale i vantaggi per il consumatore – le cosiddette frontiere dell’efficienza – si perseguono attraverso grandi integrazioni internazionali.
Per fare un esempio: il settore della produzione degli aeromobili è concentrato su tre-quattro grandi operatori. Evidentemente, in un settore in cui le economie di scala sono così decisive, gli operatori non riescono a competere senza fare leva su queste – salvo che in nicchie particolari. Lo stesso principio vale, in misura minore, per l’industria automobilistica, e per vari altri settori nei quali sembra calzante la definizione di globali: nei quali è essenziale per restare in gioco fare leva su economie di scala, forti investimenti in ricerca e sviluppo, in tecnologie abilitanti e anche nel brand, nel marchio come elemento di prevedibilità delle esperienze di consumo. Da quest’ultimo punto di vista, anche Mc Donald’s è un tentativo di costruire un’impresa globale: per dare al consumatore che entra in un ristorante della catena in Thailandia la stessa previsione dell’esperienza di consumo del consumatore in un ristorante di Torino.
Ora, chi conosca anche sommariamente il bilancio di qualunque banca, sa che per le banche non è così. Per il settore bancario, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono pressoché nulli, com’è razionale che sia; ci sono naturalmente investimenti nell’informatica, ma sono forse paragonabili a quelli profusi da aziende come Fiat per il software di gestione del magazzino, che non hanno a che fare con la ricerca e sviluppo. Ancora: l’ingegnerizzazione di un prodotto bancario è un processo che dura dai venti ai trenta giorni lavorativi, mentre per portare in produzione un’automobile credo occorrano tre anni, per un aeroplano immagino dai sette ai dieci. Insomma, anche per le banche le economie di scala sono importanti, ma i dati che emergono dal sistema italiano dimostrano che si riesce a perseguirle piuttosto facilmente: come dimostra il modello delle banche di credito cooperativo, costituito da oltre quattrocento banche autonome sul territorio che hanno un proprio consiglio di amministrazione, una loro politica creditizia e commerciale, ma che condividono in una struttura centrale elementi come l’informatica, il risk management. Certo, non si può pensare di esportarlo all’estero, ma è un modello che funziona, e dimostra che si può creare efficienza anche attraverso meccanismi soft di condivisione, invece che con integrazioni proprietarie. Va ricordato che il rapporto cost/income delle banche piccole è in Italia strutturalmente inferiore rispetto al cost/income delle banche medie, che è a sua volta inferiore al cost/income delle grandi banche: questo sembrerebbe dimostrare che le aggregazioni di per sé non portano efficienza.
Uno degli argomenti fondamentali usati quest’estate per giustificare la necessità dell’apertura, ossia quello dei vantaggi per il consumatore, che sarebbero assicurati da una competizione tra grandi “produttori” inaccessibile alle piccole banche, mi sembra abbastanza fallace. Resta da verificare un altro argomento – cui accennava prima Livolsi – che riguarda la capacità di mantenere su un determinato territorio il denaro raccolto in quello stesso territorio, secondo il modello della banca locale. Questo mi pare un argomento più solido. Esiste un grande dibattito sul problema se la banca locale riesca a garantire un ampio accesso al credito per le imprese del suo territorio. Senza entrarci, vale la pena di ricordare un buon esempio: nel distretto di Prato, il primo ad essere stato studiato, i problemi della banca locale si sono riflessi sul distretto stesso; e nuovi problemi per il distretto hanno significato nuovi problemi per la banca, e così via, fino a ritrovarsi con la banca venduta e il distretto industriale praticamente finito. Mi sembra un buon suggerimento di ricerca, a sostegno dell’argomento secondo cui la banca non è un settore globale, in cui le grandi integrazioni generano automaticamente vantaggi; rischiano semmai di generare oligopolio. Il che non vuol dire di per sé prendere una posizione pro o contro l’apertura al mercato in assoluto, ma solo riflettere limitatamente al settore bancario, in base a quello che conosciamo.

Jean Pierre Darnis – Tornando all’industria aeronautica, di cui si è parlato, mi sembra un piccolo esempio di “globalizzazione nazionale”. L’industria aeronautica, o per meglio dire l’industria aerospaziale, presenta una forte componente di protezione del fatturato dei prodotti: tutta una serie di vincoli nazionali nella produzione, nel mantenimento e nella clientela. Ma stiamo attenti: il mercato aerospaziale non è affatto un puro esempio di mercato globale, poiché presenta questo doppio aspetto, nazionale e internazionale, che a mio avviso si ritrova anche nel settore bancario.
Ho studiato per tanti anni la politica italiana. Un giorno ho capito che non ne avrei capito niente se non mi fossi interessato un po’ alle banche, perché si tratta di una sfera che richiede almeno di sapere “chi controlla cosa”, in un gioco tra fondazione e radicamento sul territorio che è una chiave di lettura, una sociologia politica che ha una sua relativa specificità. Non è che non si ritrovi anche in Francia: semplicemente non nello stesso modo.
Si potrebbe lanciare un paragone tra Italia e Francia in merito alle privatizzazioni degli anni Ottanta e Novanta, poiché si possono rintracciare una serie di aspetti strutturali che si assomigliano. Primo, il ruolo di alcune strutture bancarie radicate sul territorio. In Italia – è gia stato ribadito – questo ruolo è svolto da alcune banche piccole e medie, nonchè dalle fondazioni che che, tra l’altro svolgono anche un ruolo sociale. In Francia vi corrispondono le “mutue”, le banche cosiddette mutualiste. Due modelli abbastanza paragonabili, rispetto ai quali è possibile rintracciare una specie di dialettica tra il radicamento – alcune delle banche francesi così come alcune delle casse italiane hanno un modello di direzione locale – e l’assalto ai mercati europei o mondiali, adoperando una retorica che è appunto quella della globalizzazione, dell’efficienza dei costi, della razionalizzazione, della crescita.
C’è un altro elemento nel dibattito francese che però mi sembra non sia possibile ravvisare in Italia e su questo lancio l’interrogativo ai relatori italiani: in Francia c’è l’esigenza di crescere per evitare di farsi mangiare dalla concorrenza americana o giapponese. La Francia, che è un paese nazionalista, usa un po’ di “cautela” nei confronti degli Stati Uniti. La crescita ci è imposta per poter resistere, anche a livello continentale, a un’ondata superiore della stessa globalizzazione, nella quale rischiamo di perdere la nostra caratterizzazione più europea. È una questione molto dibattuta nel settore bancario francese e giustifica, al di là della razionalizzazione del mercato, una serie di operazioni in corso che andranno avanti.

Quasi tutti voi avete sollevato il problema della territorialità. La questione successiva potrebbe riguardare l’esigenza forte di mantenere il rapporto con il territorio, che significa tenere legato il sistema di impresa e la sua necessità di finanziarsi attraverso un sistema bancario che sia in qualche modo culturalmente e politicamente affine al sistema d’impresa stesso. La territorialità giustifica, insomma, l’esistenza di nazionalismi economici, ma qual è il modo equilibrato per mettere in relazione territorialità e nazionalismo economico?

Jean Pierre Darnis
– Bisogna essere un po’ cauti sul nazionalismo economico, anche quando si parla della Francia, perché è vero che il nazionalismo economico francese è abbastanza lineare, in quanto in Francia le banche non hanno lo stesso livello di potere politico che hanno in Italia: sono per certi versi uno strumento più che un luogo del potere. È anche vero che le banche francesi vengono da una storia che assomiglia molto a quella italiana – le privatizzazioni sono abbastanza recenti, risalgono agli ultimi vent’anni – ma le banche francesi esprimono un concetto di amministrazione centrale ben definito. Al punto che si era diffusa l’opinione che l’Europa andava costruita come se fosse una super Francia. L’élite fa compattezza di sistema all’interno del territorio nazionale e vede l’Unione Europea come un ulteriore prolungamento di questa compattezza.
Questa era una visione politica fino a un anno fa molto chiara nel discorso del presidente della repubblica francese: l’Europe puissante, l’Europa potente poi è sparita, perché è stato chiaro come fosse incompatibile con la concezione che dell’Europa hanno gli europei (lo dimostra lo stesso esito negativo del voto francese al referendum). Dunque, da questo punto di vista prenderei con grande cautela il concetto di nazionalismo economico.
In Francia poi c’è un altro settore di cui si è parlato molto negli ultimi mesi, è quello della protezione delle cosiddette “attività sensibili”, delle tecnologie sensibili. In questo momento nel mio paese c’è una forte volontà di allargare il concetto di investimenti strategici, fino a oggi esclusivamente legato alla difesa, anche ad altri settori correlati. Vi faccio un esempio: se un’azienda vuole acquisire un’altra azienda che realizza un prodotto strategico (pensiamo ad una centrale di guida per missili nucleari) non può farlo, poiché è vincolata da una serie di meccanismi di controllo attivati dal ministero della Difesa e dal ministero dell’Economia.
C’è in Francia una lobby, spero minoritaria e tuttavia molto forte, che vuole allargare il concetto di nazionalismo economico in modo che il governo e l’amministrazione possano mettere paletti a tutta una serie di operazioni che non sono più limitate a quelle della sicurezza e della difesa. Così il concetto di sicurezza diventa molto labile.
Questo è un atteggiamento certamente pericoloso nel contesto dell’Unione Europea, seppure rimanga essenziale non sacrificare i sistemi locali virtuosi: insomma il fatto che una banca abbia delle strutture capitalistiche modellate sulla dimensione locale le fa rendere un servizio migliore nel suo bacino di utenza. E queste sono cose molto importanti.
Non so se in questo caso la Francia possa essere un esempio: se le visioni nazionalistiche possono anche rovinare l’insieme del gioco, bisogna fare attenzione anche al contrario. Ciò che è certo è che si debba proseguire sulla strada del dialogo, perché su questo terreno, tra Italia e Francia, vi sono una serie di elementi simili che aprono spiragli per contrattazioni aziendalistico-territoriali, forme di aggregazioni ancora da inventare, anche rapporti transfrontalieri, soluzioni non ancora pensate a parte qualche progetto per infrastrutture che non è andato a buon fine, ma che può comunque dare un insieme di risposte rilevanti per creare semmai dei distretti futuri.

Alessandro Carpinella – A proposito di distretti, vorrei aprire una riflessione sul concetto della territorialità, perché ho l’impressione che si faccia presto a confinarlo nel terreno delle retoriche. Il problema che tutti ci poniamo, anche e proprio a livello empirico, è: qual è l’unità di misura del localismo? Le banche provinciali sostengono che evidentemente sia la provincia; le banche regionali dicono la regione, e quelle nazionali la nazione.
Credo che anche qui la risposta si possa trovare, come diceva prima Darnis, guardando al mestiere delle diverse banche. Definirei la dimensione territoriale come la dimensione all’interno della quale si crea un’opinione qualificata sulla banca: ci sono banche per le quali questa dimensione non può che essere quella strettamente comunale o provinciale, come nel caso delle piccole banche popolari e delle banche di credito cooperativo. Per banche come queste, la cui operatività sostanzialmente consiste in conti correnti, scoperti, mutuo all’impresa, questo tipo di dimensione assicura una visibilità non solo formale (legata ai bilanci), ma sostanziale sull’operato della banca. Se nei settori globali – tornando a quel che dicevo prima – contano le economie di scala, nel caso delle banche ad essere decisivo è un meccanismo reputazionale, relazionale, di personalizzazione del servizio: di conseguenza è importante che ci sia un bacino di reputazione qualificata. Per altri tipi di operatività si richiede un bacino di opinione più ampia: tornando a quest’estate, del caso si è ragionato a livello di paese, attraverso mezzi di comunicazione che hanno una copertura – e una capacità di formare opinione – nazionale.
Nulla vieta di pensare che vi sia anche un territorialismo più ampio, europeo, occidentale o ancora più vasto. Anche qui, occorre concentrarsi sul lavoro che le diverse banche sono chiamate a fare; da un lato, un’attività di base di assistenza alle famiglie e alle imprese, che opera in una dimensione strettamente locale, dall’altro una banca che potrà mettere se stessa, il proprio marchio, al vaglio di un bacino reputazionale più ampio.
Strettamente connesso al tema del territorio e della nazionalità è quello della proprietà, come fattore qualificante per la dimensione della banca. Anche qui è stata spesa molta retorica dagli attori in campo, per sostenere o negare che nulla sarebbe cambiato se i proprietari, ad esempio, fossero stati in Olanda anziché in Italia. Il problema qui è più serio: ricordiamo che per l’esperienza del fare banca in Italia, dove è importante riuscire a creare un bacino di opinione, è stata decisiva la collocazione del “quartier generale”. La Banca popolare italiana non sarebbe più tale se non fosse più a Lodi, dove una buona parte della popolazione direttamente o indirettamente lavora sull’indotto della banca stessa; e credo che la stessa cosa si possa dire per il Monte dei Paschi, ma anche in tante altre situazioni. Tanto suggerirebbe di riflettere prima di interrompere un nesso con il territorio che è particolarmente forte, determinato in fondo più dalla presenza dell’headquarter che non dall’assetto proprietario. Certo, in altri casi la connessione tra i due elementi è molto forte: non per Antonveneta, che era già l’evoluzione di una banca popolare, ma per le popolari “pure”, anche più piccole. In simili casi, se si intende mantenere il legame con il territorio, è necessario probabilmente anche mantenere l’assetto proprietario, perché con un assetto diverso il grado di governo della banca esercitato nella tale area non sarebbe più garantito. Per sintetizzare: è ipotizzabile un’evoluzione che veda infine dalle duecento alle trecento banche di matrice provinciale o sub-provinciale caratterizzate da un’attività peculiare, una quarantina di banche locali di matrice più o meno regionale, con una governance prettamente popolare, che sostengano fortemente i distretti – elemento caratterizzante del paese, nonostante le loro difficoltà – e infine due o tre grandi gruppi nazionali, legati a un bacino di reputazione nazionale se non internazionale.

Domenico Mennitti – Nella mia esperienza di parlamentare europeo, il termine “nazionalismo economico” era bandito. Al contrario del termine “interesse nazionale” che era affermato con forza. Tanto che una delle contestazioni che veniva sollevata all’Italia era proprio quella di non aver saputo difendere il proprio interesse nazionale nella partecipazione europea. Abbiamo fatto fatica a recuperare questo concetto, ancor più vittima di demagogie europeiste, secondo le quali per essere europei ci si doveva consegnare con le mani e le gambe legate all’Europa. Oggi sappiamo che per difendere e tutelare l’interesse nazionale in Europa lo si deve fare prima di tutto sul territorio nazionale, dove il sostegno alle banche diventa fondamentale. Da qui la necessità di riaffermare la validità del rapporto con il territorio, che non è, come qualcuno ha temuto per molto tempo, un atto di provincialismo al cospetto della globalizzazione. L’esercizio del credito risente di due elementi: uno è la proprietà, l’altro è il luogo dove si decidono gli investimenti. Il primo elemento, la proprietà, testimonia una sensibilità particolare rispetto al ruolo che la banca deve svolgere, il secondo, il luogo, incide sulla capacità di comprendere quali sono le iniziative da intraprendere, i soggetti che meritano la fiducia e quelli che non la meritano. Io partecipo a questa tavola rotonda come sindaco di una città del Mezzogiorno. Rispetto all’ipotesi, sostenuta dall’ex ministro Giulio Tremonti, di ricostruire una banca del Sud si è levato un muro di opposizione, nel cui merito non intendo entrare, perché le preoccupazioni potrebbero essere legittime se si guarda a quanto le banche del sud hanno prodotto negli anni passati. Tuttavia, un dato è fondamentale: la concentrazione bancaria ha prosciugato le banche meridionali private. Oggi in tutto il territorio del Mezzogiorno vi è ormai una presenza limitatissima di banche – mi vengono in mente la Banca popolare di Bari, la Banca delle Murge, forse qualche altra di minor entità – e sappiamo quanto sia difficile puntare sullo sviluppo senza poter utilizzare intermediari finanziari efficaci.
Per cui il problema non è quello di mettersi a discettare se il San Paolo che acquista il Banco di Napoli sappia fare meglio il suo lavoro ma di chiedersi se la strategia generale del San Paolo abbia qualcosa a che fare con quella che fu del Banco di Napoli.
Oggi in Italia attraverso il sistema delle concentrazioni bancarie diretto dalla Banca d’Italia abbiamo depauperato completamente il territorio della presenza di banche locali, le quali assolvono il compito che è stato prima presentato e sono strumenti attraverso cui si costruisce l’interesse nazionale. Oggi le banche è vero che devono misurarsi con il mercato globale, ma se non si misurano in primo luogo con la dimensione locale, se non partono da chi le conosce, da chi ne condivide il progetto e lo finanzia, diventa difficile poter realizzare una presenza forte sul territorio. Ciò è ancora più valido soprattutto nel settore delle piccole e medie imprese, rispetto alle quali l’atteggiamento è sempre stato equivoco, perché i dati – soprattutto all’epoca del sistema delle partecipazioni statali – rendevano lo Stato garante esclusivamente dei grandi gruppi. Il risparmio era nella disponibilità dei grandi gruppi così come l’indebitamento riguardava gli stessi grandi gruppi. Al contrario si era attenti, rigorosi, talvolta fin troppo, nei confronti delle piccole e medie imprese. Insomma, pur ammettendo e ripetendo che i soldi non hanno confini, il punto di partenza è fondamentale; c’è un elemento che permane, un elemento di territorialità che mi sembra molto forte.

Ubaldo Livolsi – Si stanno sviluppando tutta una serie di temi che necessitano poi un ulteriore approfondimento. Io sono completamente d’accordo su quello che si diceva prima riguardo alla struttura del sistema creditizio italiano. Ma dobbiamo necessariamente dividere l’attività creditizia – abbiamo visto negli ultimi tempi una riduzione dell’attività di prestito, la mancanza della specializzazione, come c’era in passato, dei finanziamenti a medio termine – dal fatto che oggi si veda effettivamente la mancanza di banche specializzate in questo settore. Infatti, gran parte delle aziende hanno finanziato a breve quello che invece doveva essere finanziato a medio termine, e questo, nell’economia dello sviluppo economico dell’impresa, è un grave errore, perché logica vorrebbe che le banche locali fossero attente al territorio. Inoltre in Italia vi è una grande presenza di piccole aziende che necessitano di aiuti in termini di finanziamento. Ma i finanziamenti devono essere finalizzati al salto di qualità, a far diventare più grandi le imprese stesse, affinché abbiano obiettivi diversi rispetto a quello della pura presenza all’esterno del proprio territorio. Ci sono poi le banche regionali che devono avere la capacità di offrire servizi migliori rispetto alle pure banche locali. Infine abbiamo i tre o quattro gruppi di grande importanza: i potenziali grandi gruppi che noi diciamo italiani, ma che in realtà di italiano non hanno nulla. L’aggregazione Banca Intesa-Capitalia, tanto per fare un esempio, se dovesse essere realizzata con un’operazione ostile, con un take over, quindi con la presenza di un’opa cash, vedrebbe necessariamente la presenza maggioritaria del Crédit Agricole, che è l’unica in grado di sostenere l’aumento capitale per fare un’operazione di questo genere. Quindi io penso che l’unica che possa realizzare l’aggregazione è la Abn Amro, non certamente le fondazioni che vi sono dietro, come ad esempio la Regione Sicilia che è azionista e che fa parte del patto sindacale di Capitalia. Stiamo parlando di una situazione azionaria anche dei grandi gruppi bancari che è debole rispetto all’italianità, alla presenza di italiani, ma che è indispensabile se vogliamo poter offrire servizi per medie e grandi imprese.
Allora, cosa si può fare rispetto a questo? Questa è la domanda che noi rivolgiamo alla politica. La banca universale in Italia sta ponendo dei grossi problemi che dobbiamo affrontare. Mi piacerebbe fare domande a chi è azionista per esempio di Banca Intesa piuttosto che di San Paolo, e che ha dovuto convertire il prestito Fiat a determinati valori mentre nel contempo c’era un’altra operazione che si realizzava. Insomma, molte importanti operazioni sono in qualche modo passate senza che ci si sia chiesti perché mai le banche debbano diventare azionisti di grandi gruppi, e perché mai – giusto ritornando alle polemiche dell’anno scorso – grandi gruppi che sono in difficoltà e che devono richiedere l’intervento delle grandi banche italiane in nome di un malposto problema di nazionalismo, debbano consentire a questi grandi gruppi di avere partecipazione in settori che non hanno nulla a che vedere con il loro settore specifico, il loro core business. Mi chiedo ad esempio perché la Fiat che ha la proprietà della Stampa, piuttosto che la partecipazione al Corriere della Sera, non ha venduto quando il titolo dell’Rcs era a più di 6 euro. Adesso è a 4, e c’è soddisfazione per averlo mantenuto visto che non è core business; forse allora conveniva vendere a 6 euro, e guadagnare, rispetto ad un investimento che è difficile poter definire strategico. Ho fatto questo esempio per spiegare la commistione, nella banca universale, tra il ruolo di finanziatore, azionista e arbitro non solo dei destini di carattere industriale ma di carattere generale. Sono nodi che devono essere affrontati in maniera molto più seria rispetto a come sono stati affrontati fino ad adesso. Anche pensando ai casi Cirio e Parmalat, si fa fatica a pensare che tra emissione di bond, debiti, presenza in qualche modo nei consigli di amministrazione delle varie banche e società, non ci fosse una commistione di ruoli. E invece oggi i ruoli necessitano di una separazione ben netta: la banca deve fare il suo mestiere – prestare i soldi, fare il trading di carattere immobiliare – ma bisogna stare attenti quando diventa azionista, collocatore di azioni, collocatore di fondi.

Vorrei porle una domanda su una questione che non mi è del tutto chiara: qual è secondo lei la differenza tra la piccola banca, che agisce in termini di territorialità, e la grande banca che invece sostiene il principale gruppo del paese, e cioè in una vicenda territoriale che è solo di poco più larga?

Ubaldo Livolsi – Normalmente la piccola banca presta i soldi a fronte di un progetto di sviluppo industriale che può condividere e sa come i soldi vengono investiti. La grande banca che fa il finanziamento ad un grande gruppo, secondo me lo fa nell’ottica di garantire tutti i crediti che prima vantava, di poter condizionare politicamente una gran parte del territorio, di utilizzare, quando è necessario, parte di questi finanziamenti per far acquistare. Pensiamo ai casi classici del passato: ricordate le Cartiere Burgo che venivano finanziate dalla Comit perché prendessero le azioni Mediobanca? I signori delle Cartiere Burgo non sapevano neanche cosa fosse Mediobanca. Questi sono, estremizzando le cose che non vanno bene, aspetti di cui va tenuto conto. La necessità di equilibri politici e di carattere di controllo su istituzioni come Mediobanca, come Generali, come grandi gruppi che sono nel paese, non devono passare attraverso giochi di questo tipo, perché secondo me, la banca deve fare il suo mestiere: finanziare i grandi gruppi, e i grandi gruppi devono cercare di fare il loro mestiere: fare gli investimenti in quello che è il loro core business.

Philippe de Nouel – A questo punto vorrei porre la questione del legame tra territorialità e nazionalismo economico, e quella del rapporto tra difesa e interessi nazionali. A me sembra che quando si parla di territorialità è abbastanza ovvio che si debba difendere il nazionalismo economico, soprattuto in Europa, per un motivo semplice: quello culturale.
In Europa vediamo popolazioni con un livello di formazione finanziaria molto diverso. Prenderei un esempio: quello del settore del risparmio gestito nel quale ho lavorato molto tempo. Passando da un paese all’altro, si vede che l’appetito del cliente finale è molto diverso: in Francia è quasi impossibile vendere delle azioni ad un risparmiatore; in Inghilterra il risparmiatore non vuole sentire parlare di azioni; in Italia andiamo sui portafogli bilanciati. Si tratta di una difesa, la banca di finanza capisce esattamente il cliente e questo va a favore della difesa del modello nazionale.
La domanda successiva è: un’acquisizione di una banca in un altro paese europeo può andare incontro a queste esigenze di vicinanza? Prima si citava l’argomento dell’abbassamento dei prezzi, che è l’argomento in favore dei grandi gruppi. Condivido assolutamente l’analisi che non sia il prezzo a fare la distinzione tra una banca e l’altra: io sono pronto a pagare di più una banca che mi conosce, che conosce i miei bisogni perché mi darà un’assistenza migliore, un prodotto del risparmio gestito, delle performance migliori. Secondo me, lì, la territorialità non può giustificare le aggregazioni transnazionali in Europa. Invece quello che accenna nel senso delle aggregazioni al livello europeo, forse mondiale, è una strategia chiara, un condizionamento chiaro delle banche sulla loro strategia di internazionalizzazione. Se prendiamo gli esempi più recenti di banche che hanno avuto successo – io ne vedo due, ma forse ce ne sono stati altri: hsbc e Royal Bank of Scotland hanno avuto una strategia chiarissima, non mirata all’acquisizione di una banca per guadagnare una quota di mercato, ma all’introduzione di nuovi prodotti, alla conquista di un nuovo segmento di clientela nell’ottica di nuove dimensioni geografiche. Si possono fare acquisizioni chiare per assicurare guadagni sia al l’acquirente che alla banca che viene acquisita – e anche a vantaggio del cliente finale. Direi che in Europa le sinergie da questo punto di vista sono abbastanza difficili da raggiungere, prima di tutto a causa della diversità culturale, che si riflette nei quadri normativi e nelle leggi fiscali che sono molto diverse da un paese all’altro. Senza una strategia chiara della banca che oltrepassi la volontà di vicinanza, secondo me non c’è un argomento valido contro il nazionalismo economico.


La tavola rotonda “Banche, tra globalizzazione e via nazionale. Un confronto fra Italia e Francia”, di cui è qui riportato un ampio estratto, si è svolta a Roma agli inizi di maggio nella sede della Fondazione Ideazione. È stata condotta da Marco Ferrante, caporedattore economia de Il Foglio. Si tratta della prima iniziativa congiunta tra la Fondazione Ideazione e l’Institut Thomas More, che pubblicherà nelle prossime settimane gli estratti completi della tavola rotonda.


Alessandro Carpinella, senior manager kpmg Advisory SpA Financial Sector.

Jean Pierre Darnis, analista presso l’Istituto Affari Internazionali (iai).

Philippe de Nouel, membro dell’Istitut Thomas More.

Ubaldo Livolsi, presidente della banca d’affari Livolsi & Partners.

Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi, presidente della Fondazione Ideazione.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006