Lo
scorso anno intorno alla questione bancaria si è consumato un vero
e proprio scontro, in cui si sono incrociate due questioni tra loro un po’
diverse: da una parte una fortissima lotta di potere, e dall’altra
una battaglia di idee che ha riguardato la questione dell’internazionalizzazione
del sistema bancario, il tema dell’integrazione, del rapporto tra
nazionalità del sistema e globalizzazione. Un esempio per introdurre
il tema nello specifico: ciò che più colpisce nel dibattito
più recente sulla questione Autostrade-Abertis è il favore
che riscuote la cosiddetta soluzione nazionale da parte di quelle stesse
persone che sulla vicenda bancaria si erano invece schierate a sostegno
della necessità dell’integrazione dei mercati e di non tenere
conto del fattore nazionale o della necessità di proteggere le frontiere.
Da
qui il primo argomento di discussione: a vostro avviso che cosa è
effettivamente successo l’anno scorso?
Philippe de Nouel
– L’Europa continentale è un mosaico di paesi diversi.
Questa conformazione ha inevitabilmente un impatto sul mondo bancario. In
Europa, infatti, esso è il frutto della storia economica dei diversi
paesi che la compongono e i sistemi di finanziamento sono diversi da un
paese all’altro. Fino agli anni Ottanta, tutte le banche erano più
o meno nelle mani dei governi, erano banche nazionalizzate, pubbliche, senza
una logica di mercato. Se guardiamo la storia di tutto il Ventesimo secolo,
ci accorgiamo che questa logica di mercato è arrivata in Europa molto
di recente. Dunque ogni paese deve tener conto della sua propria storia
economica, finanziaria e anche sociale – una dimensione, quest’ultima,
niente affatto trascurabile dal momento che il mondo bancario coinvolge
una fascia di popolazione compresa tra il 2 e il 4 per cento. Insomma, l’atteggiamento
italiano è perfettamente comprensibile anche dal punto di vista di
un francese che, come me, lavora in Italia. Ed è comprensibile perché
questo atteggiamento è lo stesso della Francia e di altri paesi europei.
Con l’eccezione del mondo anglosassone, dell’Inghilterra.
Ciò che, invece, mi riesce difficile capire è l’atteggiamento
europeo, che si trincera dietro al principio secondo cui si devono rispettare
le regole del libero mercato: stiamo costruendo l’Europa, quindi dobbiamo
agire, andare avanti e aprire le frontiere e i confini anche nel mondo bancario.
Questo principio si è rivelato nei fatti una dichiarazione di intenti,
poiché concretamente, non si è raggiunto alcun risultato.
Sono convinto, invece, che a dare qualche orientamento specifico dovesse
essere la Commissione europea, al limite il Consiglio europeo. Le autorità
di vigilanza nazionale hanno addirittura difficoltà a dialogare fra
di loro: la Banca d’Italia ha difficoltà a dialogare con la
Banca di Francia, la Banca d’Inghilterra con le autorità dei
Paesi Bassi.
Quindi, poiché la storia di ciascun paese è diversa e poiché
non esistono delle regole a livello europeo, la situazione italiana va gestita
soltanto con l’approccio italiano. Poi è ovvio che si debba
costruire una strada comune.
Ubaldo Livolsi – La premessa è molto interessante,
d’altro canto la domanda è talmente complessa che è
difficile dare una risposta in tempi brevi. Ci proverò anche perché
involontariamente ho vissuto dal di dentro queste vicende, rispetto alle
quali, premetto, non c’è una posizione italiana univoca. Come
si è visto, vi è stata una divisione fortissima riguardo la
possibilità di intervento su banche cosiddette “prede”,
che potevano essere in qualche modo acquisibili.
Sbaglieremmo se non facessimo un piccolo passo indietro per cercare di capire
da quando è nato il problema della concentrazione degli istituti
bancari e soprattutto il problema del cambiamento del ruolo fino a quel
momento esclusivo della Banca d’Italia. E stiamo parlando del fallimento
di aggregazioni importanti, come quella fra UniCredit e la Banca commerciale
italiana, concentrazioni che erano state promosse dalla Banca d’Italia,
la quale non solo si poneva in qualche modo il problema di costruire un
forte sistema bancario italiano ma decideva anche chi fare aggregare, arrogandosi
di fatto un potere, ma un potere “diverso”.
In quel momento la particolarità del sistema economico italiano aveva
fatto nascere quella che noi consideriamo la banca universale all’italiana:
alcune grandi banche che invece di dare delle risposte che potessero favorire
lo sviluppo avevano in sé germi di pesantissima distruzione del settore
economico italiano. I casi Cirio e Parmalat hanno dimostrato come la funzionalità
del sistema della banca universale all’italiana avesse agito in maniera
negativa. Il trasferimento dei debiti bancari verso il sistema degli azionisti,
quindi verso un largo pubblico (senza entrare nel merito degli aspetti giudiziari
di queste vicende) ha, infatti, in qualche modo alterato il sistema: di
fronte al debito bancario, invece di favorire lo sviluppo di aggregazione
di alcune industrie si è diminuito l’indebitamento ricorrendo
al risparmio pubblico degli investitori. È in questo scenario che
nasce la necessità di fare aggregazioni: si tenga presente che il
mercato italiano è reputato estremamente interessante da parte di
grandi gruppi internazionali. E contemporaneamente, nasce l’esigenza
di rintracciare modelli che potevano essere “italiani”, senza
ricorrere alle aggregazioni.
E qui a mio avviso si sconta ancora una volta il ruolo del sistema bancario
in Italia. Non vi è dubbio che entrambi i concetti siano condivisibili.
Da un lato, quello dell’intervento del grande gruppo internazionale
in Italia, che però vede necessariamente la banca italiana nell’ottica
della strategia globale del proprio gruppo (immagino che la Abn Amro, nell’acquisizione
di Antonveneta, abbia badato soprattutto all’acquisizione di un mercato
importante, ad esempio, nel settore del risparmio gestito, dei depositi
e cosi via, e meno alla necessità di finanziare la piccola media
impresa che invece era uno dei punti di forza dell’Antonveneta). Dall’altro,
il progetto della Popolare di Lodi, o Popolare italiana che dir si voglia,
mirato a formare con Antonveneta un grande gruppo in qualche modo fortemente
concentrato nel nord d’Italia. Il progetto di creare una forte banca
su base regionale, che avesse come obbiettivo di rafforzare la presenza
sul territorio, poteva anche essere visto positivamente: e questo al di
là delle altre vicende collegate.
Mi chiedo: nell’ambito di una strategia di centralizzazione e riduzione
dei costi (in nome della quale la Abn Amro sta spostando tutti i call center
in India), quanto è plausibile che Antonveneta possa diventare la
banca di grande supporto all’imprenditoria del Nord-Est? La bnl è
leggermente diversa, perché non è una banca retail, era già
una banca corporate. A mio avviso, non si può dare una risposta univoca:
purtroppo, vedo in azione in Italia una logica più di potere che
di vero interesse per lo sviluppo della banca come motore dell’economia
di un paese.
Domenico Mennitti – Fra i molti libri pubblicati in
questo periodo ce n’è uno di Vittorio Borelli – un giornalista
che ha lavorato a lungo in Unicredit – dal titolo Banca padrona. Nel
suo libro Borelli sostiene la tesi di come in effetti a fare da padrona
nell’economia italiana sia stata in tutti questi anni proprio la banca
e di come essa sia stata in una prima fase utilizzata molto dalla politica.
Basti pensare alle banche che facevano, di fatto, capo allo Stato. Successivamente,
anche sulla base del cattivo andamento degli istituti controllati dalla
politica, vi è stata un’inversione di tendenza, e le banche
sono diventate così forti da condizionare l’economia.
Nella sua analisi Borelli si spinge oltre e sostiene una tesi che è
veramente importante per spiegare i fatti dello scorso anno: il vero padrone
dell’economia italiana è stata la Banca d’Italia. In
effetti, tutta l’operazione delle concentrazioni in Italia è
stata condotta dalla Banca d’Italia, senza lasciarsi molto condizionare
dalle regole del mercato: persino le visite ispettive commissionate erano
decise per tracciare il cammino delle concentrazioni. In realtà la
Banca d’Italia, invece di corrispondere alle regole del mercato, viveva
una vita propria, decideva deliberatamente di salvare o di affossare le
aziende – come è accaduto per il Banco di Roma e per il Banco
di Sardegna. Questa prassi rispondeva ad una mentalità secondo la
quale una banca non può mai fallire, semmai quella più grande
assorbe quella più piccola e si carica dei debiti. La questione di
chi dovesse pagare questi debiti era un’altra storia.
Questa prassi consentiva alle banche di avere un potere di vita o di morte
sulle imprese, a prescindere dalla loro resa sul mercato, creando una specificità
che è tutta italiana: attraverso questa lunga operazione di concentrazione
abbiamo rafforzato le banche sul piano interno indebolendole sul piano internazionale.
Questa anomalia così forte e incisiva si è poi riflessa anche
nelle scalate, ambito nel quale è difficile capire quando un’operazione
rientra nelle regole e quando no. Esse infatti si svolgono con grande discrezionalità
e sono regolate da un potere, prevalentemente nelle mani di Banca d’Italia,
che stabilisce chi può fare e chi non può fare le scalate.
Del resto, è difficile che accada che un uomo si presenti sulla scena
del mondo finanziario e si affermi grazie alle sue capacità: questa
non è l’America, è l’Italia. Ricapitolando, esiste
un reticolo di partenza che viene deciso da due grandi poteri: uno è
quello della banca e uno è quello della giustizia; questi due poteri
combinano il proprio intervento, determinano lo sviluppo o la crisi di operazioni
finanziarie. È chiaro come in questo stato di cose la finanza in
Italia abbia difficoltà a realizzarsi, perché se la libertà
rappresenta uno degli elementi fondamentali per la concorrenza, laddove
viene meno è tutto il sistema che viene inficiato.
Tutto quello che è accaduto nell’estate scorsa altro non è
se non la lotta tra due poteri, ognuno dei quali cercava di guadagnare terreno
sull’altro, e, come sempre accade quando nessuna delle due forze in
campo riesce ad imporsi sull’altro, è intervenuto il conflitto.
In questo conflitto c’era anche una marcata presenza politica, risolta
dalla magistratura che – soprattutto quando si tratta di reati penali
– ha la capacità di risolvere velocemente i problemi. Ma apro
un altro fronte, quello del rapporto con il potere forte della magistratura.
Alessandro Carpinella – Per quanto riguarda lo scontro
di poteri cui accennava Marco Ferrante inizialmente, quello che ha detto
Domenico Mennitti mi sembra largamente condivisibile. Più interessante
mi pare indagare l’altro aspetto: lo scontro di visioni, ossia gli
argomenti che sono stati utilizzati per sostenere l’una o l’altra
delle due parti.
È curioso come gli argomenti siano spesso reversibili. Quelli che
all’epoca ci apparvero come sostenitori di un’apertura senza
confini, quasi senza regole, del mercato bancario (lo ha ricordato Ferrante
inizialmente) li ritroviamo oggi in buona misura sul fronte opposto della
cautela, che si pongono il problema della tenuta di grandi sistemi imprenditoriali
– come quello delle infrastrutture autostradali. Prima di confinare
simili argomenti nel terreno delle retoriche, il che non sarebbe completamente
corretto, credo si possa provare a interrogarsi sul senso industriale che
l’apertura o al contrario la chiusura al mercato internazionale può
vantare, in ciascun settore.
Qui credo che i banchieri possano e debbano rivendicare, più di quanto
non abbiano fatto finora, le specificità del loro settore: ad esempio,
rispetto a quello delle infrastrutture, o a quello energetico. Il punto
è chiedersi se il sistema bancario sia o meno un settore globale:
ossia un settore nel quale i vantaggi per il consumatore – le cosiddette
frontiere dell’efficienza – si perseguono attraverso grandi
integrazioni internazionali.
Per fare un esempio: il settore della produzione degli aeromobili è
concentrato su tre-quattro grandi operatori. Evidentemente, in un settore
in cui le economie di scala sono così decisive, gli operatori non
riescono a competere senza fare leva su queste – salvo che in nicchie
particolari. Lo stesso principio vale, in misura minore, per l’industria
automobilistica, e per vari altri settori nei quali sembra calzante la definizione
di globali: nei quali è essenziale per restare in gioco fare leva
su economie di scala, forti investimenti in ricerca e sviluppo, in tecnologie
abilitanti e anche nel brand, nel marchio come elemento di prevedibilità
delle esperienze di consumo. Da quest’ultimo punto di vista, anche
Mc Donald’s è un tentativo di costruire un’impresa globale:
per dare al consumatore che entra in un ristorante della catena in Thailandia
la stessa previsione dell’esperienza di consumo del consumatore in
un ristorante di Torino.
Ora, chi conosca anche sommariamente il bilancio di qualunque banca, sa
che per le banche non è così. Per il settore bancario, gli
investimenti in ricerca e sviluppo sono pressoché nulli, com’è
razionale che sia; ci sono naturalmente investimenti nell’informatica,
ma sono forse paragonabili a quelli profusi da aziende come Fiat per il
software di gestione del magazzino, che non hanno a che fare con la ricerca
e sviluppo. Ancora: l’ingegnerizzazione di un prodotto bancario è
un processo che dura dai venti ai trenta giorni lavorativi, mentre per portare
in produzione un’automobile credo occorrano tre anni, per un aeroplano
immagino dai sette ai dieci. Insomma, anche per le banche le economie di
scala sono importanti, ma i dati che emergono dal sistema italiano dimostrano
che si riesce a perseguirle piuttosto facilmente: come dimostra il modello
delle banche di credito cooperativo, costituito da oltre quattrocento banche
autonome sul territorio che hanno un proprio consiglio di amministrazione,
una loro politica creditizia e commerciale, ma che condividono in una struttura
centrale elementi come l’informatica, il risk management. Certo, non
si può pensare di esportarlo all’estero, ma è un modello
che funziona, e dimostra che si può creare efficienza anche attraverso
meccanismi soft di condivisione, invece che con integrazioni proprietarie.
Va ricordato che il rapporto cost/income delle banche piccole è in
Italia strutturalmente inferiore rispetto al cost/income delle banche medie,
che è a sua volta inferiore al cost/income delle grandi banche: questo
sembrerebbe dimostrare che le aggregazioni di per sé non portano
efficienza.
Uno degli argomenti fondamentali usati quest’estate per giustificare
la necessità dell’apertura, ossia quello dei vantaggi per il
consumatore, che sarebbero assicurati da una competizione tra grandi “produttori”
inaccessibile alle piccole banche, mi sembra abbastanza fallace. Resta da
verificare un altro argomento – cui accennava prima Livolsi –
che riguarda la capacità di mantenere su un determinato territorio
il denaro raccolto in quello stesso territorio, secondo il modello della
banca locale. Questo mi pare un argomento più solido. Esiste un grande
dibattito sul problema se la banca locale riesca a garantire un ampio accesso
al credito per le imprese del suo territorio. Senza entrarci, vale la pena
di ricordare un buon esempio: nel distretto di Prato, il primo ad essere
stato studiato, i problemi della banca locale si sono riflessi sul distretto
stesso; e nuovi problemi per il distretto hanno significato nuovi problemi
per la banca, e così via, fino a ritrovarsi con la banca venduta
e il distretto industriale praticamente finito. Mi sembra un buon suggerimento
di ricerca, a sostegno dell’argomento secondo cui la banca non è
un settore globale, in cui le grandi integrazioni generano automaticamente
vantaggi; rischiano semmai di generare oligopolio. Il che non vuol dire
di per sé prendere una posizione pro o contro l’apertura al
mercato in assoluto, ma solo riflettere limitatamente al settore bancario,
in base a quello che conosciamo.
Jean Pierre Darnis – Tornando all’industria
aeronautica, di cui si è parlato, mi sembra un piccolo esempio di
“globalizzazione nazionale”. L’industria aeronautica,
o per meglio dire l’industria aerospaziale, presenta una forte componente
di protezione del fatturato dei prodotti: tutta una serie di vincoli nazionali
nella produzione, nel mantenimento e nella clientela. Ma stiamo attenti:
il mercato aerospaziale non è affatto un puro esempio di mercato
globale, poiché presenta questo doppio aspetto, nazionale e internazionale,
che a mio avviso si ritrova anche nel settore bancario.
Ho studiato per tanti anni la politica italiana. Un giorno ho capito che
non ne avrei capito niente se non mi fossi interessato un po’ alle
banche, perché si tratta di una sfera che richiede almeno di sapere
“chi controlla cosa”, in un gioco tra fondazione e radicamento
sul territorio che è una chiave di lettura, una sociologia politica
che ha una sua relativa specificità. Non è che non si ritrovi
anche in Francia: semplicemente non nello stesso modo.
Si potrebbe lanciare un paragone tra Italia e Francia in merito alle privatizzazioni
degli anni Ottanta e Novanta, poiché si possono rintracciare una
serie di aspetti strutturali che si assomigliano. Primo, il ruolo di alcune
strutture bancarie radicate sul territorio. In Italia – è gia
stato ribadito – questo ruolo è svolto da alcune banche piccole
e medie, nonchè dalle fondazioni che che, tra l’altro svolgono
anche un ruolo sociale. In Francia vi corrispondono le “mutue”,
le banche cosiddette mutualiste. Due modelli abbastanza paragonabili, rispetto
ai quali è possibile rintracciare una specie di dialettica tra il
radicamento – alcune delle banche francesi così come alcune
delle casse italiane hanno un modello di direzione locale – e l’assalto
ai mercati europei o mondiali, adoperando una retorica che è appunto
quella della globalizzazione, dell’efficienza dei costi, della razionalizzazione,
della crescita.
C’è un altro elemento nel dibattito francese che però
mi sembra non sia possibile ravvisare in Italia e su questo lancio l’interrogativo
ai relatori italiani: in Francia c’è l’esigenza di crescere
per evitare di farsi mangiare dalla concorrenza americana o giapponese.
La Francia, che è un paese nazionalista, usa un po’ di “cautela”
nei confronti degli Stati Uniti. La crescita ci è imposta per poter
resistere, anche a livello continentale, a un’ondata superiore della
stessa globalizzazione, nella quale rischiamo di perdere la nostra caratterizzazione
più europea. È una questione molto dibattuta nel settore bancario
francese e giustifica, al di là della razionalizzazione del mercato,
una serie di operazioni in corso che andranno avanti.
Quasi
tutti voi avete sollevato il problema della territorialità. La questione
successiva potrebbe riguardare l’esigenza forte di mantenere il rapporto
con il territorio, che significa tenere legato il sistema di impresa e la
sua necessità di finanziarsi attraverso un sistema bancario che sia
in qualche modo culturalmente e politicamente affine al sistema d’impresa
stesso. La territorialità giustifica, insomma, l’esistenza
di nazionalismi economici, ma qual è il modo equilibrato per mettere
in relazione territorialità e nazionalismo economico?
Jean Pierre Darnis
– Bisogna essere un po’ cauti sul nazionalismo economico, anche
quando si parla della Francia, perché è vero che il nazionalismo
economico francese è abbastanza lineare, in quanto in Francia le
banche non hanno lo stesso livello di potere politico che hanno in Italia:
sono per certi versi uno strumento più che un luogo del potere. È
anche vero che le banche francesi vengono da una storia che assomiglia molto
a quella italiana – le privatizzazioni sono abbastanza recenti, risalgono
agli ultimi vent’anni – ma le banche francesi esprimono un concetto
di amministrazione centrale ben definito. Al punto che si era diffusa l’opinione
che l’Europa andava costruita come se fosse una super Francia. L’élite
fa compattezza di sistema all’interno del territorio nazionale e vede
l’Unione Europea come un ulteriore prolungamento di questa compattezza.
Questa era una visione politica fino a un anno fa molto chiara nel discorso
del presidente della repubblica francese: l’Europe puissante, l’Europa
potente poi è sparita, perché è stato chiaro come fosse
incompatibile con la concezione che dell’Europa hanno gli europei
(lo dimostra lo stesso esito negativo del voto francese al referendum).
Dunque, da questo punto di vista prenderei con grande cautela il concetto
di nazionalismo economico.
In Francia poi c’è un altro settore di cui si è parlato
molto negli ultimi mesi, è quello della protezione delle cosiddette
“attività sensibili”, delle tecnologie sensibili. In
questo momento nel mio paese c’è una forte volontà di
allargare il concetto di investimenti strategici, fino a oggi esclusivamente
legato alla difesa, anche ad altri settori correlati. Vi faccio un esempio:
se un’azienda vuole acquisire un’altra azienda che realizza
un prodotto strategico (pensiamo ad una centrale di guida per missili nucleari)
non può farlo, poiché è vincolata da una serie di meccanismi
di controllo attivati dal ministero della Difesa e dal ministero dell’Economia.
C’è in Francia una lobby, spero minoritaria e tuttavia molto
forte, che vuole allargare il concetto di nazionalismo economico in modo
che il governo e l’amministrazione possano mettere paletti a tutta
una serie di operazioni che non sono più limitate a quelle della
sicurezza e della difesa. Così il concetto di sicurezza diventa molto
labile.
Questo è un atteggiamento certamente pericoloso nel contesto dell’Unione
Europea, seppure rimanga essenziale non sacrificare i sistemi locali virtuosi:
insomma il fatto che una banca abbia delle strutture capitalistiche modellate
sulla dimensione locale le fa rendere un servizio migliore nel suo bacino
di utenza. E queste sono cose molto importanti.
Non so se in questo caso la Francia possa essere un esempio: se le visioni
nazionalistiche possono anche rovinare l’insieme del gioco, bisogna
fare attenzione anche al contrario. Ciò che è certo è
che si debba proseguire sulla strada del dialogo, perché su questo
terreno, tra Italia e Francia, vi sono una serie di elementi simili che
aprono spiragli per contrattazioni aziendalistico-territoriali, forme di
aggregazioni ancora da inventare, anche rapporti transfrontalieri, soluzioni
non ancora pensate a parte qualche progetto per infrastrutture che non è
andato a buon fine, ma che può comunque dare un insieme di risposte
rilevanti per creare semmai dei distretti futuri.
Alessandro Carpinella – A proposito di distretti,
vorrei aprire una riflessione sul concetto della territorialità,
perché ho l’impressione che si faccia presto a confinarlo nel
terreno delle retoriche. Il problema che tutti ci poniamo, anche e proprio
a livello empirico, è: qual è l’unità di misura
del localismo? Le banche provinciali sostengono che evidentemente sia la
provincia; le banche regionali dicono la regione, e quelle nazionali la
nazione.
Credo che anche qui la risposta si possa trovare, come diceva prima Darnis,
guardando al mestiere delle diverse banche. Definirei la dimensione territoriale
come la dimensione all’interno della quale si crea un’opinione
qualificata sulla banca: ci sono banche per le quali questa dimensione non
può che essere quella strettamente comunale o provinciale, come nel
caso delle piccole banche popolari e delle banche di credito cooperativo.
Per banche come queste, la cui operatività sostanzialmente consiste
in conti correnti, scoperti, mutuo all’impresa, questo tipo di dimensione
assicura una visibilità non solo formale (legata ai bilanci), ma
sostanziale sull’operato della banca. Se nei settori globali –
tornando a quel che dicevo prima – contano le economie di scala, nel
caso delle banche ad essere decisivo è un meccanismo reputazionale,
relazionale, di personalizzazione del servizio: di conseguenza è
importante che ci sia un bacino di reputazione qualificata. Per altri tipi
di operatività si richiede un bacino di opinione più ampia:
tornando a quest’estate, del caso si è ragionato a livello
di paese, attraverso mezzi di comunicazione che hanno una copertura –
e una capacità di formare opinione – nazionale.
Nulla vieta di pensare che vi sia anche un territorialismo più ampio,
europeo, occidentale o ancora più vasto. Anche qui, occorre concentrarsi
sul lavoro che le diverse banche sono chiamate a fare; da un lato, un’attività
di base di assistenza alle famiglie e alle imprese, che opera in una dimensione
strettamente locale, dall’altro una banca che potrà mettere
se stessa, il proprio marchio, al vaglio di un bacino reputazionale più
ampio.
Strettamente connesso al tema del territorio e della nazionalità
è quello della proprietà, come fattore qualificante per la
dimensione della banca. Anche qui è stata spesa molta retorica dagli
attori in campo, per sostenere o negare che nulla sarebbe cambiato se i
proprietari, ad esempio, fossero stati in Olanda anziché in Italia.
Il problema qui è più serio: ricordiamo che per l’esperienza
del fare banca in Italia, dove è importante riuscire a creare un
bacino di opinione, è stata decisiva la collocazione del “quartier
generale”. La Banca popolare italiana non sarebbe più tale
se non fosse più a Lodi, dove una buona parte della popolazione direttamente
o indirettamente lavora sull’indotto della banca stessa; e credo che
la stessa cosa si possa dire per il Monte dei Paschi, ma anche in tante
altre situazioni. Tanto suggerirebbe di riflettere prima di interrompere
un nesso con il territorio che è particolarmente forte, determinato
in fondo più dalla presenza dell’headquarter che non dall’assetto
proprietario. Certo, in altri casi la connessione tra i due elementi è
molto forte: non per Antonveneta, che era già l’evoluzione
di una banca popolare, ma per le popolari “pure”, anche più
piccole. In simili casi, se si intende mantenere il legame con il territorio,
è necessario probabilmente anche mantenere l’assetto proprietario,
perché con un assetto diverso il grado di governo della banca esercitato
nella tale area non sarebbe più garantito. Per sintetizzare: è
ipotizzabile un’evoluzione che veda infine dalle duecento alle trecento
banche di matrice provinciale o sub-provinciale caratterizzate da un’attività
peculiare, una quarantina di banche locali di matrice più o meno
regionale, con una governance prettamente popolare, che sostengano fortemente
i distretti – elemento caratterizzante del paese, nonostante le loro
difficoltà – e infine due o tre grandi gruppi nazionali, legati
a un bacino di reputazione nazionale se non internazionale.
Domenico Mennitti – Nella mia esperienza di parlamentare
europeo, il termine “nazionalismo economico” era bandito. Al
contrario del termine “interesse nazionale” che era affermato
con forza. Tanto che una delle contestazioni che veniva sollevata all’Italia
era proprio quella di non aver saputo difendere il proprio interesse nazionale
nella partecipazione europea. Abbiamo fatto fatica a recuperare questo concetto,
ancor più vittima di demagogie europeiste, secondo le quali per essere
europei ci si doveva consegnare con le mani e le gambe legate all’Europa.
Oggi sappiamo che per difendere e tutelare l’interesse nazionale in
Europa lo si deve fare prima di tutto sul territorio nazionale, dove il
sostegno alle banche diventa fondamentale. Da qui la necessità di
riaffermare la validità del rapporto con il territorio, che non è,
come qualcuno ha temuto per molto tempo, un atto di provincialismo al cospetto
della globalizzazione. L’esercizio del credito risente di due elementi:
uno è la proprietà, l’altro è il luogo dove si
decidono gli investimenti. Il primo elemento, la proprietà, testimonia
una sensibilità particolare rispetto al ruolo che la banca deve svolgere,
il secondo, il luogo, incide sulla capacità di comprendere quali
sono le iniziative da intraprendere, i soggetti che meritano la fiducia
e quelli che non la meritano. Io partecipo a questa tavola rotonda come
sindaco di una città del Mezzogiorno. Rispetto all’ipotesi,
sostenuta dall’ex ministro Giulio Tremonti, di ricostruire una banca
del Sud si è levato un muro di opposizione, nel cui merito non intendo
entrare, perché le preoccupazioni potrebbero essere legittime se
si guarda a quanto le banche del sud hanno prodotto negli anni passati.
Tuttavia, un dato è fondamentale: la concentrazione bancaria ha prosciugato
le banche meridionali private. Oggi in tutto il territorio del Mezzogiorno
vi è ormai una presenza limitatissima di banche – mi vengono
in mente la Banca popolare di Bari, la Banca delle Murge, forse qualche
altra di minor entità – e sappiamo quanto sia difficile puntare
sullo sviluppo senza poter utilizzare intermediari finanziari efficaci.
Per cui il problema non è quello di mettersi a discettare se il San
Paolo che acquista il Banco di Napoli sappia fare meglio il suo lavoro ma
di chiedersi se la strategia generale del San Paolo abbia qualcosa a che
fare con quella che fu del Banco di Napoli.
Oggi in Italia attraverso il sistema delle concentrazioni bancarie diretto
dalla Banca d’Italia abbiamo depauperato completamente il territorio
della presenza di banche locali, le quali assolvono il compito che è
stato prima presentato e sono strumenti attraverso cui si costruisce l’interesse
nazionale. Oggi le banche è vero che devono misurarsi con il mercato
globale, ma se non si misurano in primo luogo con la dimensione locale,
se non partono da chi le conosce, da chi ne condivide il progetto e lo finanzia,
diventa difficile poter realizzare una presenza forte sul territorio. Ciò
è ancora più valido soprattutto nel settore delle piccole
e medie imprese, rispetto alle quali l’atteggiamento è sempre
stato equivoco, perché i dati – soprattutto all’epoca
del sistema delle partecipazioni statali – rendevano lo Stato garante
esclusivamente dei grandi gruppi. Il risparmio era nella disponibilità
dei grandi gruppi così come l’indebitamento riguardava gli
stessi grandi gruppi. Al contrario si era attenti, rigorosi, talvolta fin
troppo, nei confronti delle piccole e medie imprese. Insomma, pur ammettendo
e ripetendo che i soldi non hanno confini, il punto di partenza è
fondamentale; c’è un elemento che permane, un elemento di territorialità
che mi sembra molto forte.
Ubaldo Livolsi – Si stanno sviluppando tutta una serie
di temi che necessitano poi un ulteriore approfondimento. Io sono completamente
d’accordo su quello che si diceva prima riguardo alla struttura del
sistema creditizio italiano. Ma dobbiamo necessariamente dividere l’attività
creditizia – abbiamo visto negli ultimi tempi una riduzione dell’attività
di prestito, la mancanza della specializzazione, come c’era in passato,
dei finanziamenti a medio termine – dal fatto che oggi si veda effettivamente
la mancanza di banche specializzate in questo settore. Infatti, gran parte
delle aziende hanno finanziato a breve quello che invece doveva essere finanziato
a medio termine, e questo, nell’economia dello sviluppo economico
dell’impresa, è un grave errore, perché logica vorrebbe
che le banche locali fossero attente al territorio. Inoltre in Italia vi
è una grande presenza di piccole aziende che necessitano di aiuti
in termini di finanziamento. Ma i finanziamenti devono essere finalizzati
al salto di qualità, a far diventare più grandi le imprese
stesse, affinché abbiano obiettivi diversi rispetto a quello della
pura presenza all’esterno del proprio territorio. Ci sono poi le banche
regionali che devono avere la capacità di offrire servizi migliori
rispetto alle pure banche locali. Infine abbiamo i tre o quattro gruppi
di grande importanza: i potenziali grandi gruppi che noi diciamo italiani,
ma che in realtà di italiano non hanno nulla. L’aggregazione
Banca Intesa-Capitalia, tanto per fare un esempio, se dovesse essere realizzata
con un’operazione ostile, con un take over, quindi con la presenza
di un’opa cash, vedrebbe necessariamente la presenza maggioritaria
del Crédit Agricole, che è l’unica in grado di sostenere
l’aumento capitale per fare un’operazione di questo genere.
Quindi io penso che l’unica che possa realizzare l’aggregazione
è la Abn Amro, non certamente le fondazioni che vi sono dietro, come
ad esempio la Regione Sicilia che è azionista e che fa parte del
patto sindacale di Capitalia. Stiamo parlando di una situazione azionaria
anche dei grandi gruppi bancari che è debole rispetto all’italianità,
alla presenza di italiani, ma che è indispensabile se vogliamo poter
offrire servizi per medie e grandi imprese.
Allora, cosa si può fare rispetto a questo? Questa è la domanda
che noi rivolgiamo alla politica. La banca universale in Italia sta ponendo
dei grossi problemi che dobbiamo affrontare. Mi piacerebbe fare domande
a chi è azionista per esempio di Banca Intesa piuttosto che di San
Paolo, e che ha dovuto convertire il prestito Fiat a determinati valori
mentre nel contempo c’era un’altra operazione che si realizzava.
Insomma, molte importanti operazioni sono in qualche modo passate senza
che ci si sia chiesti perché mai le banche debbano diventare azionisti
di grandi gruppi, e perché mai – giusto ritornando alle polemiche
dell’anno scorso – grandi gruppi che sono in difficoltà
e che devono richiedere l’intervento delle grandi banche italiane
in nome di un malposto problema di nazionalismo, debbano consentire a questi
grandi gruppi di avere partecipazione in settori che non hanno nulla a che
vedere con il loro settore specifico, il loro core business. Mi chiedo ad
esempio perché la Fiat che ha la proprietà della Stampa, piuttosto
che la partecipazione al Corriere della Sera, non ha venduto quando il titolo
dell’Rcs era a più di 6 euro. Adesso è a 4, e c’è
soddisfazione per averlo mantenuto visto che non è core business;
forse allora conveniva vendere a 6 euro, e guadagnare, rispetto ad un investimento
che è difficile poter definire strategico. Ho fatto questo esempio
per spiegare la commistione, nella banca universale, tra il ruolo di finanziatore,
azionista e arbitro non solo dei destini di carattere industriale ma di
carattere generale. Sono nodi che devono essere affrontati in maniera molto
più seria rispetto a come sono stati affrontati fino ad adesso. Anche
pensando ai casi Cirio e Parmalat, si fa fatica a pensare che tra emissione
di bond, debiti, presenza in qualche modo nei consigli di amministrazione
delle varie banche e società, non ci fosse una commistione di ruoli.
E invece oggi i ruoli necessitano di una separazione ben netta: la banca
deve fare il suo mestiere – prestare i soldi, fare il trading di carattere
immobiliare – ma bisogna stare attenti quando diventa azionista, collocatore
di azioni, collocatore di fondi.
Vorrei porle una domanda su una questione che non mi è del tutto
chiara: qual è secondo lei la differenza tra la piccola banca, che
agisce in termini di territorialità, e la grande banca che invece
sostiene il principale gruppo del paese, e cioè in una vicenda territoriale
che è solo di poco più larga?
Ubaldo Livolsi – Normalmente la piccola banca presta
i soldi a fronte di un progetto di sviluppo industriale che può condividere
e sa come i soldi vengono investiti. La grande banca che fa il finanziamento
ad un grande gruppo, secondo me lo fa nell’ottica di garantire tutti
i crediti che prima vantava, di poter condizionare politicamente una gran
parte del territorio, di utilizzare, quando è necessario, parte di
questi finanziamenti per far acquistare. Pensiamo ai casi classici del passato:
ricordate le Cartiere Burgo che venivano finanziate dalla Comit perché
prendessero le azioni Mediobanca? I signori delle Cartiere Burgo non sapevano
neanche cosa fosse Mediobanca. Questi sono, estremizzando le cose che non
vanno bene, aspetti di cui va tenuto conto. La necessità di equilibri
politici e di carattere di controllo su istituzioni come Mediobanca, come
Generali, come grandi gruppi che sono nel paese, non devono passare attraverso
giochi di questo tipo, perché secondo me, la banca deve fare il suo
mestiere: finanziare i grandi gruppi, e i grandi gruppi devono cercare di
fare il loro mestiere: fare gli investimenti in quello che è il loro
core business.
Philippe de Nouel – A questo punto vorrei porre la
questione del legame tra territorialità e nazionalismo economico,
e quella del rapporto tra difesa e interessi nazionali. A me sembra che
quando si parla di territorialità è abbastanza ovvio che si
debba difendere il nazionalismo economico, soprattuto in Europa, per un
motivo semplice: quello culturale.
In Europa vediamo popolazioni con un livello di formazione finanziaria molto
diverso. Prenderei un esempio: quello del settore del risparmio gestito
nel quale ho lavorato molto tempo. Passando da un paese all’altro,
si vede che l’appetito del cliente finale è molto diverso:
in Francia è quasi impossibile vendere delle azioni ad un risparmiatore;
in Inghilterra il risparmiatore non vuole sentire parlare di azioni; in
Italia andiamo sui portafogli bilanciati. Si tratta di una difesa, la banca
di finanza capisce esattamente il cliente e questo va a favore della difesa
del modello nazionale.
La domanda successiva è: un’acquisizione di una banca in un
altro paese europeo può andare incontro a queste esigenze di vicinanza?
Prima si citava l’argomento dell’abbassamento dei prezzi, che
è l’argomento in favore dei grandi gruppi. Condivido assolutamente
l’analisi che non sia il prezzo a fare la distinzione tra una banca
e l’altra: io sono pronto a pagare di più una banca che mi
conosce, che conosce i miei bisogni perché mi darà un’assistenza
migliore, un prodotto del risparmio gestito, delle performance migliori.
Secondo me, lì, la territorialità non può giustificare
le aggregazioni transnazionali in Europa. Invece quello che accenna nel
senso delle aggregazioni al livello europeo, forse mondiale, è una
strategia chiara, un condizionamento chiaro delle banche sulla loro strategia
di internazionalizzazione. Se prendiamo gli esempi più recenti di
banche che hanno avuto successo – io ne vedo due, ma forse ce ne sono
stati altri: hsbc e Royal Bank of Scotland hanno avuto una strategia chiarissima,
non mirata all’acquisizione di una banca per guadagnare una quota
di mercato, ma all’introduzione di nuovi prodotti, alla conquista
di un nuovo segmento di clientela nell’ottica di nuove dimensioni
geografiche. Si possono fare acquisizioni chiare per assicurare guadagni
sia al l’acquirente che alla banca che viene acquisita – e anche
a vantaggio del cliente finale. Direi che in Europa le sinergie da questo
punto di vista sono abbastanza difficili da raggiungere, prima di tutto
a causa della diversità culturale, che si riflette nei quadri normativi
e nelle leggi fiscali che sono molto diverse da un paese all’altro.
Senza una strategia chiara della banca che oltrepassi la volontà
di vicinanza, secondo me non c’è un argomento valido contro
il nazionalismo economico.
La tavola rotonda “Banche, tra globalizzazione
e via nazionale. Un confronto fra Italia e Francia”, di cui è
qui riportato un ampio estratto, si è svolta a Roma agli inizi di
maggio nella sede della Fondazione Ideazione. È stata condotta da
Marco Ferrante, caporedattore economia de Il Foglio. Si tratta della prima
iniziativa congiunta tra la Fondazione Ideazione e l’Institut Thomas
More, che pubblicherà nelle prossime settimane gli estratti completi
della tavola rotonda.
Alessandro Carpinella, senior manager kpmg Advisory SpA Financial Sector.
Jean
Pierre Darnis, analista presso l’Istituto Affari Internazionali (iai).
Philippe de Nouel, membro dell’Istitut Thomas More.
Ubaldo Livolsi, presidente della banca d’affari Livolsi & Partners.
Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi, presidente della Fondazione Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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