Il piccolo establishment
di Lodovico Festa
Ideazione di luglio-agosto 2006

La tesi centrale del libro Guerra per banche, di cui nelle pagine seguenti Ideazione offre la lettura di un capitolo, è che in Italia esiste un establishment (grandi banche, grandi imprese, grandi giornali) troppo debole per influire sui processi politico-sociali attraverso la sua autorevolezza. Da qui un tentativo di condizionamento (determinante anche per ovviare alle fragilità innanzi tutto economiche dell’establishment) improprio: un accrocchio di potere tra finanza e impresa senza chiari confini, un continuo manovrare della grande stampa indipendente che arriva a interessarsi fino delle correnti dell’udc per poter pesare nei “giochi”, un intervento diretto delle banche dentro la vita dei partiti.
Il libro è stato scritto prima delle elezioni del 9 e 10 aprile: i risultati del voto non portano a ripensare l’analisi svolta. Anzi, il fallimento del Corriere della Sera nel prevedere l’esito del voto conferma la fragilità di uno degli snodi del cosiddetto piccolo establishment. La protesta degli industriali a Vicenza, poi, ha messo in evidenza i severi limiti della leadership montezemoliana di Confindustria. Mentre, poi, la Fiat dà segni di ripresa. Anche perché Sergio Marchionne mostra di voler ritirarsi dai giochi del piccolo establishment, vedi l’idea di uscire da Mediobanca. Marco Tronchetti Provera è invece al centro di uno scontro aperto guidato da quel Carlo De Benedetti di cui nel libro si segnalava la nuova forza: anche perché non fa parte del piccolo establishment. Intanto la guerra per banche continua con qualche ferocia ulteriore di cui si leggono i segni nei vari tentativi di azzoppare Cesare Geronzi: dai provvedimenti di sospensione dalle cariche presi dal tribunale di Parma al cosiddetto caso Moggi.
E la politica? Silvio Berlusconi ha dimostrato di essere un grande leader popolare con la rimonta elettorale. Ma, poi, si è fatto imbrigliare per scarsa capacità di manovra politica. Notevole l’operazione di Paolo Mieli che subito dopo il voto ha chiesto un gesto di pacificazione a Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema, e poi, ottenuto questo gesto, lo ha denunciato come un pericolo d’inciucio. Riuscendo così a governare alcune mosse fondamentali della nuova fase politica: l’elezione di Giorgio Napolitano (anche se si preferiva la riconferma di Carlo Azeglio Ciampi o l’elezione di Giuliano Amato), la neocentralità di Francesco Rutelli, l’isolamento dello stesso Berlusconi, gli azzoppamenti di D’Alema. Tutti giochi politici raffinatissimi, con un unico limite: non hanno prospettive.

La passione di Fazio*
Naturalmente sono di circostanza le parole di Mario Draghi pronunciate dopo il primo incontro a cui, in qualità di governatore della Banca d’Italia, ha partecipato a Francoforte nel febbraio 2006 per il consiglio d’amministrazione della Banca centrale europea. Quando gli hanno chiesto in quanto tempo riuscirà a restaurare l’immagine dell’Italia, ha risposto che l’Italia è un grande paese, che non ha bisogno di restaurare la propria immagine, ma solo di riprendere il cammino. Parole di circostanza. Fino a un certo punto. Perché, dopo la cacciata di Fazio, è opportuno valutare meglio quali sono e quali sono state le poste in ballo. E una volta tanto riflettere anche sulle ragioni dei vinti, soprattutto dello sconfitto di maggiore peso: l’ex governatore.
Già dalle settimane successive alla sua caduta, anche alcuni onesti commentatori, più di una volta in contrasto con Fazio, hanno svolto considerazioni meno eccitate sul punto centrale dello scontro appena consumato: la difesa dell’italianità del nostro sistema del credito. Certo, senza bigotterie nazionalistiche, da fautori del libero mercato, così si sono espressi Lucio Rondelli, già presidente di Unicredit: «Penso che le sue resistenze, […] la difesa dell’italianità dipendesse in gran parte dall’evidente asimmetria che esiste in Europa» (Corriere della Sera, 22 gennaio 2006). Gian Maria Gros Pietro: «Le fusioni e acquisizioni ci raccontano quasi sempre la stessa storia e la storia è che prima o poi le funzioni dirigenziali finiscono nel paese dell’acquirente» (Affari & Finanza, supplemento di Repubblica, 6 febbraio 2006). Salvatore Brigantini: «Il problema dell’interesse nazionale resta almeno fino a quando l’Unione Europea non diventerà uno Stato unico» (Europa, 14 gennaio 2006). Domenico Siniscalco: «La proprietà delle banche e ancora più la localizzazione dei loro centri direzionali non è irrilevante» (Repubblica, 7 febbraio 2006). Ma torniamo a quella primavera del 2005 in cui si scatena l’attacco.
Le opa di due banche straniere (Bilbao e Abn Amro) su due banche italiane (Bnl e Antonveneta) nascono naturalmente da moventi economici. Bilbao e Abn Amro sono da tempo impegnate in Italia, vogliono decidere se i loro investimenti, in Antonveneta e in Bnl, sono strategici oppure se si debba riflettere su un prossimo ritiro.
Sulla base di queste considerazioni “aziendali” però, la scelta che compiono è assolutamente politica: far saltare il modo di governo di Fazio sul sistema bancario. La decisione stessa di annunciare le offerte pubbliche d’acquisto (o di scambio) nello stesso giorno, ha il senso di una sfida decisiva. Ed è evidente il lavoro politico compiuto tramite l’abilissimo tessitore d’intrighi politico-economici, Abete, presidente di Bnl, e attraverso Geronzi. Nel mondo bancario italiano le mosse olandesi e spagnole sono note in anticipo. Unicredit si prepara a lanciare la sua iniziativa verso Hvb, anche perché è informata che il governatore sarà troppo preso su fronti più impegnativi.
D’altra parte erano mesi che la guerra si preparava sia in Bnl, dove agivano i due fronti contrapposti guidati da Abete e Caltagirone, sia in Antonveneta, dove Fazio aveva chiarito a Geronzi e a Francesco Spinelli di Abn Amro i suoi intendimenti per la banca padovana. Per quel che riguarda il governatore le sue mosse erano tutte prevedibili: aveva da sempre dichiarato che non voleva il controllo di banche straniere su banche italiane finché non vi fosse stato un livello di maggiore reciprocità. Non scordava, poi, come l’ingresso di baschi e olandesi a Roma e a Padova fosse avvenuto alle condizioni poste da Bankitalia e quindi si fosse di fronte a una rottura della parola data. Infine né Abn Amro né Bilbao avevano dato grandi contributi nella modernizzazione della banche italiane di cui, pure, erano soci rilevanti.
Sul fronte veneto, Fazio agì secondo il suo solito stile: utilizzare un’acquisizione bancaria per risolvere i problemi di entrambi gli aggregandi. Com’era avvenuto con Capitalia e Bipop, l’una malandata per gli incagli (cioè i crediti difficili da esigere) l’altra per la gestione. E così per altre decine di casi. Nell’aggregazione tra Antonveneta e Popolare di Lodi, il governatore voleva mettere insieme una banca solida patrimonialmente ma spenta dopo la morte del patron Silvano Pontello, con una banca avventurosa nella crescita, ma molto dinamica nelle mosse finanziarie (il grado raggiunto dalle spericolate operazioni illegali di Fiorani non era noto a Bankitalia, anche se operazioni tipo la scalata alla Popolare di Crema, con acquisti pilotati in Svizzera erano ben evidenti). Un metodo, come ricorda Guido Rossi, da tempo in uso in Bankitalia, inaugurato da Guido Carli. C’erano anche strascichi delle vicende Parmalat: Fazio aveva coperto, ma era stato colpito dall’emersione delle disinvolture di Geronzi. Si era reso conto dei malumori che tra i banchieri si erano diffusi per l’assorbimento di Bipop da parte di Capitalia. Non voleva siglare l’ennesima operazione sotto regia geronziana.
Dal caso Bnl avrebbe, però, dovuto capire quello che stava succedendo tra i banchieri e nel più ampio establishment economico finanziario. Quando aveva cercato la collaborazione della Popolare Verona-Novara o del Monte dei Paschi aveva trovato le porte chiuse. Alla fine gli unici disponibili a fargli da sponda erano stati quelli dell’Unipol, una buona copertura a sinistra ma da parte di una realtà finanziaria apparentemente troppo piccola per acquistare la sesta banca italiana. È anche evidente come il metodo con cui Fazio regolava la vita del sistema bancario in Italia stesse creando sempre più problemi. Negli ultimi anni si erano accumulate decisioni che avevano creato insofferenza tra i banchieri italiani: dallo stop a Unicredit per l’acquisto di Commerzbank, al divieto a Bazoli di nominare Braggiotti ad Intesa (troppo giovane, secondo il governatore), al blocco dei progetti di fusione tra Intesa e Unicredit. E tanti altri episodi di dinieghi dirigistici o, soprattutto nel caso di Capitalia, d’impropri favoreggiamenti.
Molti osservatori ritengono che sia stato il diniego delle due opa a Unicredit e San Paolo-Imi a dare a Fazio la convinzione finale di essere il custode delle giuste regole dello sviluppo bancario in Italia, e dunque di poterle e doverle applicare a qualsiasi costo. In realtà la partita sulle due opa Fazio la combatté con il consenso innanzitutto di Geronzi, che non voleva essere “acquistato”, e del governo D’Alema che convocò il Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio), con tanto di ministro del Tesoro e del suo direttore generale (Mario Draghi), a confermare che la banca di piazza Cordusio non potesse conquistare la Comit e quella di Torino la banca della capitale. Dietro le scelte di D’Alema (e del governo e del Cicr) c’era la consapevolezza che alla Fiat, indicata da molti ambienti dietro le due opa, non potesse (e non dovesse) essere concesso un espansionismo senza limiti. Il nocciolino di Telecom Italia, il grande parlare di Generali, la volontà di dare un colpo a Cuccia e Maranghi, e poi le operazioni su Montedison. Gli Agnelli stavano indorando il loro tramonto con trofei di ogni tipo. Era ragionevole dar loro una calmata.
Più recentemente Fazio era stato il dominatore della battaglia delle Generali e della liquidazione di Maranghi. Si sono raccontati alcuni aspetti della vicenda, è bene ricordarne altri particolari perché lì furono sperimentate armi poi usate anche nello scontro sulle opa del 2005. Fazio mobilitò un arco di forze molto ampio (le Fondazioni socie di Unicredit, Unicredit, Banca di Roma, Monte dei Paschi e altri) che fecero incetta di azioni della società triestina, sotto la regìa di Bankitalia che agiva anche in prima persona grazie a un 4 per cento di azioni Generali possedute dal suo fondo pensioni. La parola d’ordine che fu lanciata da Profumo (oggi se ne vergogna ma le cose andarono così) fu proprio quella della difesa dell’italianità della compagnia di assicurazione che sarebbe stata sotto scacco dei francesi.
Provocare uno stallo nella proprietà di Generali significò mettere in ginocchio Maranghi, che ne prese atto. Gli opinionisti oggi scalmanati nel crocifiggere il Fazio del 2005, solo nel 2003 (il tempo vissuto dentro un terremoto è lunghissimo) non fecero una mossa quando la bandiera (si disse proprio così: la bandiera) dell’italianità venne impugnata per sbaraccare l’autonomia di Mediobanca.
Da quella partita Fazio avrebbe dovuto ricavare alcune lezioni: il peso di Geronzi, l’importanza di non essere isolati. E l’indifferenza di Berlusconi per la sorte di soggetti potenzialmente schierati con lui, come in parte era Maranghi (più oggettivamente che soggettivamente), ma non indispensabili al suo ristretto sistema di potere e consenso. In modo analogo andò il duro scontro con Tremonti. Anche in quel caso Fazio pensò di averlo piegato con la sua “ragione”. In realtà, le truppe per smontare il fronte pro Tremonti le mise Geronzi che d’intesa con una bella fetta di banchieri del Nord, compreso il riluttante Profumo, convinsero le grandi imprese indebitate a domare l’insubordinazione antibancocentrica di Antonio D’Amato. In più ci furono le Fondazioni, guidate dall’abilissimo Guzzetti, a dare l’altro colpo decisivo per smontare l’assedio a Fazio.
Quando si arriverà, infine allo scontro finale, sulle partite Antonveneta e Bnl, a Fazio non rimarranno che Luigi Grillo e Ivo Tarolli più una Lega Nord a cui era stata risolta la grana Credieuronord. A un certo punto dello scontro su Parmalat Geronzi, preoccupato dalle iniziative giudiziarie e politiche nei suoi confronti, disse di essere solo un passerotto, mentre il piccione a cui si mirava era Fazio. In parte era vero, comunque, dopo qualche mese il passerotto salvato si mise anche lui a sparare al piccione. Geronzi durante la crisi Parmalat disse, nel libro Fardelli d’Italia di Roberto Napoletano (Sperling & Kupfer, 2005): «Quanti hanno in Italia piena coscienza che è in atto una potente azione lobbistica che non ha mancato di usare i propri agganci con incarichi istituzionali in sede europea per mettere in crisi i sistemi di vigilanza nazionale?». Profetico. Fazio, dalla sua, ricavò invece dalla nuova vittoria contro Tremonti solo una conferma del suo senso di onnipotenza.

*(Il capitolo “La passione di Fazio” è estratto da Guerra per banche, Boroli editore, Milano, 2006. Si ringraziano l’autore e l’editore per l’autorizzazione).

Lodovico Festa, giornalista e saggista, è editorialista de il Giornale ed esperto di economia e banche.

(c) Ideazione.com (2006)
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