Buenos Aires, Italia
di Giuseppe De Bellis
Ideazione di luglio-agosto 2006

Il problema era capirli: chi sono e che fanno. Che cosa pensano, che cosa dicono: l’Italia, il suo governo, le sue leggi. E poi l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Paraguay, il Cile, l’Ecuador, il Venezuela, il Perù, la Colombia: abitano in questi paesi, loro. Hanno votato per l’Italia. Nove aprile 2006, il giorno. Emigrati: prima, seconda, terza, quarta generazione. Figli dei figli dei figli di chi prendeva un transatlantico per il nuovo mondo del Sud. C’è un nome italiano sul passaporto, l’orgoglio di un’identità oltre quella di una casa dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Forse il problema non è stato risolto: capirli era difficile, non impossibile. Bisognava andare a fondo: entrare in questo mezzo continente e girarlo. Paese per paese. I numeri parlano male, a volte. Stavolta no, di sicuro: 306.562 voti: 29,2 per cento al centrosinistra, 30,9 al centrodestra, il 31,7 per cento alla lista dell’associazione Italiani Sud America. Ha perso l’Italia, ha vinto l’italianità, il sentimento di chi è lontano e vicino: l’etnia, più che la cittadinanza. Affermare, confermare, bollare: sono argentino, brasiliano, venezuelano, e anche italiano. Per un terzo. Il concetto è sottile: nelle altre sezioni, nelle altre aree del mondo, negli altri Continenti il bipolarismo destra-sinistra venuto fuori dalle urne è molto più marcato: è vero ci sono i partiti della Casa delle Libertà che spesso hanno corso da soli, ma presi tutti insieme hanno raggiunto comunque il 40 per cento o più. Esattamente come l’Unione. Hanno lottato testa a testa, come in Italia, come se l’Oceania oppure l’Asia fossero costole della Penisola, regioni distaccate ma aderenti, parti dello stesso paese divise da un mare o da una catena montuosa, da migliaia di chilometri di deserto o di steppa. In America Latina no: gli indipendenti – o supposti tali – sono la maggioranza relativa. Più del 30 per cento, più degli altri due schieramenti. E questo vuol dire una cosa sola: che i partiti italiani e le loro coalizioni hanno perso comunque. Non hanno avuto credibilità, non sono stati spinti a sufficienza, non hanno scaldato i cuori. Non è una questione di governabilità, né di numeri in Parlamento: non conta dove e come voterà Luigi Pallaro in questi cinque anni, né se alternerà la preferenza per un provvedimento o per l’altro a seconda dell’offerta migliore che riceverà. Conta che lui non rappresenta l’Italia in Argentina, ma l’Argentina in Italia. È diverso. Incredibilmente diverso. Non esiste reversibilità, non c’è reciprocità. Il diritto di voto agli italiani all’estero è stato una vittoria di civiltà, ma è finito in una sconfitta per la politica italiana. Il mancato successo della lista Tremaglia è solo una parte del problema. Volendo, al centrosinistra è andata addirittura peggio, dal Messico in giù. Ha preso senatori e deputati grazie ai quali ha una maggioranza anche al Senato. Ma il problema non è numerico, è politico. La verità è che gli immigrati italiani del Sud America hanno votato contro l’Italia. E l’avrebbero fatto contro qualunque governo. Il risultato non sarebbe cambiato se la maggioranza uscente fosse stata di centrosinistra, se al posto di Tremaglia ci fosse stato un altro ministro. Loro hanno scelto un voto contro, nel momento in cui tutti si aspettavano un voto a favore. Di chi non si sapeva, ma comunque si pensava a una scelta a favore. Invece non è andata così. E il Sud America fotografa la situazione meglio di altri continenti: qui esisteva un’alternativa e qui quell’alternativa è stata scelta. C’era gente che rappresentava una classe, un’identità e non è certamente quella dell’italiano che si sente talmente legato al suo paese da voler entrare nelle decisioni che lo riguardano. È il contrario: questi si sentono stranieri con un passato da italiani e questo rappresentano.

Le ragioni storiche
Per capire come, dove e perché hanno votato gli italiani dell’America Latina bisogna partire da chi sono coloro che hanno votato. I libri di storia ci hanno insegnato che dal 1870 al 1970 oltre 28 milioni di italiani siano emigrati, più o meno la metà della popolazione italiana di oggi. Poi ci sono i discendenti: le stime dicono che figli, figliastri e affini di questi emigrati variano tra i 60 e i 70 milioni. Si tratta di oriundi che nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza nei paesi di accoglimento: circa 15 milioni negli Stati Uniti, altrettanti in Argentina, oltre 25 milioni tra Brasile e Argentina, due milioni in Canada, in Australia, in Venezuela, 1,5 milioni in Uruguay e poi, in Nord Europa e in molti altri paesi. Tra questi gli altri Stati dell’America del Sud: Perù, Cile, Paraguay, Colombia. Numeri anche qui. Per dire che quando si parla di emigrati e di voto agli italiani all’estero si ragiona su gente che l’Italia può anche non averla mai vista. Tanto è vero che di tutta quella massa di persone, solo quattro milioni hanno mantenuto o acquisito la nazionalità e la cittadinanza italiana. Quattro milioni sparsi per cinque continenti. Quattro milioni dei quali non tutti con diritto di voto. Il nove aprile scorso potevano votare 2,8 milioni di italiani residenti all’estero (per la Camera) e 2,5 milioni per il Senato. Il più alto numero di votanti riguardava l’Europa con 1.615.483 elettori per la Camera e 1.445.177 per il Senato. A ruota proprio l’America Latina con 722.681 elettori per la Camera e 649.082 per il Senato. Nell’America settentrionale e centrale, invece, gli elettori per la Camera erano 346.745 e quelli per il Senato 329.309. In Asia, Africa, Australia, Oceania e Antartide gli aventi diritto al voto erano 155.319 per la Camera e 142.461 per il Senato. Ecco, anche qui i numeri parlano semplice. Raccontano che qui sta la caratteristica sudamericana. Considerando il livello di emigrazione del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, gli aventi diritto al voto sono calati moltissimo. Vuol dire che i vecchi italiani si sentono meno italiani. Negli Stati Uniti, poi, così come in Oceania e in Europa l’emigrazione continua: è fatta di giovani in cerca di successo, di ricercatori e professionisti, di manager. È un’Italia evoluta che non trova spazio nel nostro paese e va. Gli italiani che vivono tra Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Cile, Ecuador, Venezuela, Perù e Colombia sono diversi: in prevalenza il risultato di flussi immigratori di un passato non più molto recente, non sono emigrati di ultima generazione. Sono i reduci delle mille Little Italy sparse in ogni angolo dell’America Latina: Buenos Aires, Rosario, San Paolo. Non c’è emigrazione contemporanea qui, non ci sono giovani che sono sul mercato e allora si mettono in gioco. Il motivo è storico-economico. Dagli anni Settanta in poi i paesi a Sud del canale di Panama hanno smesso di crescere, hanno accolto poco, piuttosto hanno esportato. Gli italiani che c’erano sono rimasti, ovviamente. Non tutti, ma molti: con loro, figli e nipoti, italiani sì, ma sempre meno. Solo che a differenza degli Stati Uniti, dove gli italiani hanno imparato a sentirsi americani, al Sud, molti hanno tenuto ferma la loro identità di italo-americani. Perché valeva, perché era un marchio e forse anche un modo per smarcarsi da altri. Hanno fatto corpo: stare insieme nel segno di una discendenza, anche se arriva da parenti che non si sono conosciuti. In questo un ruolo fondamentale l’ha avuto la politica dei governi dei paesi che li ospitavano tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta: i regimi militari come quelli di Argentina, Brasile hanno allontanato gli immigrati italiani dall’idea di sentirsi figli di quella terra sudamericana. Li hanno spinti verso il ricordo dell’Italia. L’alternativa, appunto.

Dentro l’America Latina
È l’anomalia sudamericana. Che c’è, eccome. Gli italiani sono diversi dagli altri emigrati. Per questo gli analisti politici hanno fallito. Davvero molti non li hanno capiti anche dopo il 9 aprile. Il risultato dell’Associazione italiani Sud America ha stupito tutti. Pochi hanno compreso che significa molto di più Oltreoceano che a Roma. La percentuale sopra il 30 per cento serve a farsi sentire con i paesi ospitanti. Come dire: ci siamo, siamo sudamericani, ma anche italiani. Poi c’è dell’altro: la radiografia dell’italiano medio dell’America del Sud. Via lo stereotipo dell’artigiano e del piccolo imprenditore di successo. È un luogo comune perfino la loro integrazione perfetta nei paesi di arrivo: certamente i processi di integrazione sono andati avanti e in molti hanno fatto progressi nella scala sociale, ma non la maggioranza che è rimasta nelle classi meno abbienti. La prova è che la crisi brasiliana e poi quella argentina e quella uruguayana, hanno visto centinaia di migliaia di italiani subire sorti analoghe alla maggioranza della popolazione: sofferenza e difficoltà. S’è scatenato un meccanismo perverso: l’emigrazione di ritorno. I nipoti e i pronipoti degli italiani che partirono per il “nuovo mondo” hanno scelto di provare a tornare. Tre anni fa, subito dopo la crisi argentina, il Giornale pubblicò un’inchiesta sul fenomeno. C’erano storie di giovani e meno giovani: gente che tornava, perché nei luoghi dove i nonni avevano cercato futuro, ora il futuro non c’era più.
Non tutti sono ripartiti. La gran parte è rimasta. Oggi che le crisi sono quasi passate, gli italiani del Sud America fanno parte del tentativo di rimettere in piedi i paesi nei quali vivono. Sono stati trascinati nel vortice di antiliberismo che soffia lungo la dorsale delle Ande e si estende verso Ovest: dal Cile di Bachelet, all’Argentina di Kirchner, all’Uruguay di Tabarè Vasquez, al Brasile di Lula, al Venezuela di Chavez. Rodolfo Ricci, coordinatore della Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie dice che le «leadership del Pt e della Cut brasiliana, del Movimento dei Sem Terra, della Cta Argentina e del movimento dei Piqueteros, del Frente Amplio uruguayano, del Movimento Bolivariano in Venezuela, sono fortemente partecipate dai discendenti degli italiani». È un movimento politico-sindacale fortissimo che passa anche per i forum sociali come quelli di Porto Alegre e Caracas: «Chi ha frequentato i diversi forum sociali mondiali svoltisi a Porto Alegre e a Caracas, non può non aver notato sui cartellini dei delegati gli innumerevoli cognomi di ascendenza italiana che occupavano le platee e i podi dei seminari e dei dibattiti». Tassello. Un altro è la potenza del sindacato italiano all’interno della comunità italiana in Sud America. Se i partiti sono riusciti a penetrare poco nella campagna elettorale, la cgil l’ha fatto benissimo, se è vero che almeno uno dei parlamentari eletti è arrivato a Roma attraverso la spinta del patronato Inca.

Il caso del Señor Pallaro
Capire gli italiani-sudamericani si può anche attraverso chi è stato eletto. Allora, El Senador: Luigi Pallaro, il parlamentare più suffragato della circoscrizione estero. Vive a Buenos Aires dal 1952. Ha preso 49.903 preferenze. Imprenditore, miliardario, re. Lui sì che ha fatto fortuna: l’azienda, i dipendenti, i soldi. Tutti ai suoi piedi. Luigi è quello che aiuta: i passaporti, le coccarde, i cantanti italiani. Vai da Pallaro e si risolve tutto: con un sorriso. Più di uno stereotipo: l’icona del successo, quello da imitare, il self-made man in salsa italo-argentina, euro-dollari-tango. Fosse stato un calciatore avrebbe fatto l’oriundo, alla Sivori: due passaporti, due nazionali. È stato lui a fondare l’Associazione Italiani Sud America. Che ovviamente è diventata un partito. Quello che alle prime elezioni ha preso il 31,7 per cento. Molti sono andati a lui, ci mancherebbe altro. È così, d’altronde: Luigi non poteva non essere stravotato, perché questo momento lo aspettava da una vita e da una vita lavorava per fare in modo che arrivasse. L’ha cercato, l’ha trovato. Gli altri lo hanno votato non per quello che dice, ma per quello che è: l’Argentina in Italia, mica il contrario. Lui cancella il concetto da immaginario collettivo: la comunità di nostalgici legati alla madrepatria. Dice: «Odio l’idea che si ha degli emigrati all’estero, quelli con la valigia di cartone piena di speranze». Però è quella che l’ha eletto, l’ha portato a Palazzo Madama con un volo gratis, nonostante lui si possa permettere di pagarne anche uno al giorno. Lo sa benissimo, il Señor Luigi, che certe immagini non sono reali ma pagano: è un uomo intelligente. Ha un giro d’affari di 25 milioni di dollari al mese. Per dodici fanno trecento milioni all’anno. Conosce l’Argentina e gli argentini, conosce gli italiani che sono lì, quelli che lo sono davvero e quelli che dicono di esserlo. Se hanno bisogno lui, c’è. Per ognuno. La prima riunione da leader di un’associazione di emigrati la fece nel 1962: durò poco perché presto cominciò la discussione tra fascisti e antifascisti. Lui in mezzo. Perché lui è uno di quei signori che si sanno trovare a loro agio in ogni situazione. Tipo i consoli onorari, signori indiscussi, i nuovi feudatari, proprietari di interessi e di un pacchetto di consensi: possono servire a loro o a qualche amico. Cinquantamila voti sono stati uno su sei, in Sud America. Non gli servono per l’Italia, ma per l’Argentina: sono la dote che si porta appresso per cinque anni. Servirà presto, dopo essere già servita a essere protagonista nella scelta del presidente del Senato italiano: «Sto con Andreotti, anzi con Marini». Luigi Pallaro è indipendente e dice che s’è schierato con la maggioranza per garantire la governabilità. Avrebbe fatto lo stesso se avesse vinto il centrodestra. «L’ho detto e lo ripeto, a me interessa incassare risultati per l’altra Italia, che non è una colonia. Cinquantamila italiani mi hanno votato da Caracas alla Terra del Fuoco, per loro. Tutti quelli che sono qui. State certi che non mi andrò a infilare in discussioni che non mi riguardano, a dibattiti che non c’entrano nulla con noi, nelle polemiche se fare o no un ponte a Caltanissetta». L’Italia è un’altra cosa, per Pallaro. Per questo sul suo sito Internet da senatore non c’è altra lingua che lo spagnolo.

Giuseppe De Bellis, redattore de il Giornale.

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