Alla vigilia delle recenti elezioni del 9 aprile, mi ero permesso di criticare
dalle colonne del Domenicale i risultati della politica culturale dei partiti
di centrodestra, sostenendo come fosse necessario adottare – sia in
caso di vittoria sia in caso di sconfitta, come poi è stato –
una nuova linea ispirata a quello che ho definito gramscismo liberale. Un
ossimoro, vero, ma che come tutti gli ossimori e i paradossi è capace
di mettere in moto un ragionamento.
Il centrodestra, dopo aver preconizzato nel 2001 la rivoluzione liberale,
non è riuscito ad attuarne se non una minima parte, ma non per incapacità
progettuale, semmai per difetto nella prassi. A ottimi intenti, di fatto,
sono seguiti pessimi svolgimenti.
Così pur nella difficoltà di concepire razionalmente un gramscismo
liberale – essendo il gramscismo una teoria del potere e il liberalismo
una pratica di libertà – mi sembra che i due termini accostati
possano sintetizzare in modo efficace le linee guida per un nuovo progetto
culturale da fortificare soprattutto ora, all’opposizione.
Prima di fornire, come richiesto dal focus di Ideazione, tre campi di applicazione,
mi sembra giusto evitare qualsiasi fraintendimento. Puntare sul gramscismo
non significa dimenticare la libertà, ma sacrificare la libertà
nella fase progettuale e nella scelta degli uomini perché essa sia
poi esaltata nei risultati. Come è stato più volte e da più
parti evidenziato, il liberalismo del governo di centrodestra si è
fermato alla prima fase. Non volendo utilizzare metodi ampiamente sperimentati
nella storia d’Italia di cooptazione e coercizione culturale, e neppure
applicando un serio spoil system, il centrodestra ha finito per premiare
uomini della vecchia nomenklatura: i soliti scrittori, i soliti registi,
i soliti cantanti, i soliti artisti, dimostrandosi molto liberale nella
scelta dei dirigenti e degli operatori, ma illiberale nei risultati, perché
in definitiva, dopo cinque anni di governo, le politiche culturali sono
rimaste saldamente nelle mani della sinistra, con esiti nefasti in termini
di libertà e consenso. La delusione deriva da questi risultati: non
perché non si è riusciti a sostituire in toto la vecchia classe
dirigente, ma perché accanto ad essa non è stato possibile
crearne una nuova.
Ed ora passiamo al cuore del focus: le priorità da affrontare.
1. Innanzitutto la formazione. Non si può pensare di invertire il
segno ad una egemonia culturale, pur declinante, se non si investe sulla
formazione. Il compito della politica ovviamente non deve essere quello
di creare geni (i geni nascono sempre in opposizione alla politica e ai
regimi), bensì di fornire la libertà perché essi possano
crescere. In soldoni: occorre smontare l’apparato precedente che si
fondava solo, come insegnava Gramsci, su una occupazione in vista di una
rivoluzione.
La formazione è dunque un momento fondamentale della pratica politica.
Il centrodestra, sia nei singoli partiti che lo compongono sia nell’eventualità
di un raggruppamento unico, deve dotarsi di strutture di formazione, sostenerle
economicamente, dotarle di tutti gli strumenti necessari. Migliaia di giovani
(nelle università, nella scuole, nei giornali, nel mondo dell’editoria
e dell’arte), in potenza una nuova classe dirigente liberale, sono
stati lasciati in balia delle sirene della sinistra che dedica loro attenzione,
offrendogli prebende, possibilità di crescita, visibilità.
2. L’informazione. In questi anni di governo pochissima attenzione
è stata data all’informazione. Mentre il mondo procedeva, il
centrodestra col solito snobismo verso il “culturame”, comunicava
i risultati della propria politica con metodi antiquati, lamentandosi comunque
dell’egemonia della sinistra nel mondo dell’informazione. Spesso
anche quando si è presentata l’occasione di incardinare propri
uomini (per esempio nella televisione pubblica) uno stolto suddito è
stato preferito a un buon amico. Per questa ragione, occorre un ripensamento
del ruolo dell’informazione e soprattutto una razionalizzazione dei
mezzi pubblici (pochi) e privati, ancora a disposizione o nell’orbita
del centrodestra. Inoltre, serve una grande riflessione sulla televisione
che nella sua duplice funzione di informatore e comunicatore non può
essere lasciata integralmente nelle mani della sinistra. È palese
che la tv pubblica, e purtroppo anche quella privata, ha mediato valori
fortemente in contrasto con i desiderata del centrodestra, risultando un
mezzo di persuasione e indirizzo infinitamente più potente della
comunicazione politica.
3. L’aggregazione. La cosa che più è mancata al centrodestra
è stata la capacità di far rete e aggregare le proprie forze
culturali. Nonostante le apparenze e le trite analisi, non si può
addebitare questa colpa al mondo intellettuale, criticando l’individualismo
metodologico del pensatore liberale o l’individualismo aristocratico
del pensatore di destra. Non è infatti questione di conculcare la
libertà dell’intellettuale che è anzi una risorsa, né
il lecito individualismo o aristocratismo che lo spinge, al contrario dall’intellettuale
engagé sempre pronto a chinarsi alle logiche di potere o della peggior
banalizzazione democraticista. Semmai davanti a un mondo culturale giustamente
competitivo e poco incline alle camarille, spetta alla politica trovare
i modi e i tempi e i luoghi perché avvenga quel fondamentale scambio
pubblico di idee che anche l’intellettuale liberale ricerca. Spetta,
insomma, alla politica per sua naturale costituzione creare la rete affinché
si moltiplichi l’incidenza sul reale del pensiero liberale. Più
che l’individualismo degli intellettuali, va detto, ha nuociuto l’individualismo
dei politici, per certi versi una certa spocchiosa predisposizione a sostituirsi
al mondo intellettuale o a credere di poterne fare a meno.
Angelo Crespi, direttore del settimanale di cultura il Domenicale.
(c)
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