Le culture frammentate
di Alessandro Campi
Ideazione di luglio-agosto 2006

È opinione largamente diffusa che la globalizzazione rappresenti una minaccia per le appartenenze e le identità individuali e/o collettive, dal momento che essa determina l’affermazione su scala mondiale di uno spazio culturale e di un orizzonte simbolico sempre più omogenei, di una “cultura globale” all’interno della quale scompaiono le particolarità ereditate dalla tradizione storica.
La tesi suggerita in questo articolo è che il problema determinato dalla globalizzazione non è l’appiattimento delle differenze nel quadro di una cultura mondiale unica, peraltro modellata secondo categorie tipicamente occidentali. La globalizzazione, infatti, se da un lato genera uniformità e comportamenti omogenei, soprattutto sul piano della cultura di consumo di massa, dall’altro contribuisce anche ad aumentare le diversità e la ricchezza culturale del pianeta in almeno tre modi differenti: 1) rendendo accessibili sulla scena internazionale tradizioni e stili di vita altrimenti destinati a rimanere periferici e marginali; 2) creando modelli e stili culturali ibridi o meticci, che traggono sì alimento e ispirazione da quelli già esistenti e radicati nei diversi paesi, ma che sono in realtà qualcosa di nuovo e di inedito; 3) valorizzando e dando nuova forza storica alle appartenenze e alle tradizioni particolari trasmesse dal passato.
Il vero problema generato della globalizzazione, in altre parole, non è l’omogeneità, la standardizzazione o l’appiattimento. Ciò che essa rischia di produrre e di favorire è, al contrario, un eccesso di frammentazione culturale, una crescita esponenziale di modelli e sistemi culturali, peraltro sempre più esclusivi e impermeabili a influenze esterne, la cui principale ambizione è quella di vedere riconosciuta la propria particolarità e assolutezza all’interno della sfera politica pubblica, creando così non pochi problemi sia al funzionamento democratico interno dei diversi Paesi sia alla convivenza tra Stati.

L’impostazione prevalente nella pubblicistica e nella discussione politico-giornalistica tende a presentare il rapporto tra globalizzazione e cultura, espresso quasi sempre in modo meccanicistico e fatalistico, secondo due varianti – una ottimista all’estremo, una più cupa e pessimista – che tuttavia coincidono sul punto fondamentale: entrambe, infatti, pensano che il diffondersi della globalizzazione sia destinato a creare – nel lungo periodo, ma con risultati che sono già sotto i nostri occhi – una crescente omogeneità socio-culturale (e alla fine anche politica e istituzionale).
I fautori della globalizzazione – gli ottimisti o apologeti, molto spesso ispirati dalla retorica neoliberale o postmoderna – vedono in essa la strada maestra che conduce all’unificazione del genere umano, all’avvento della cittadinanza universale, al benessere globale e alla pace del global village. Dal punto di vista della riflessione intellettuale, reputano l’affermazione di una cultura omogenea universale non solo un fatto storicamente ineluttabile, che si starebbe già realizzando grazie soprattutto al contributo della rivoluzione informatico-digitale, ma anche una necessità etica, dal momento che solo l’imporsi di una tale cultura può porre fine ai conflitti umani, alle divisioni ideologiche e alle lotte di potere che ancora attraversano il mondo. Si tratta, per esemplificare, della posizione sostenuta, pur con argomenti diversi, da studiosi quali Jürgen Habermas e Ulrick Beck.
I nemici della globalizzazione – i pessimisti o critici, molto spesso ispirati da una retorica post-marxista o anarchico-radicale (ovvero anti-liberale e anti-universalista nel caso dei no-global di destra) – la considerano invece lo strumento ideologico del capitalismo e del progetto neoliberista globale, e nella distruzione delle culture locali, nella uniformazione dei linguaggi e degli stili di vita, nella omologazione delle identità sociali e dei modelli culturali vedono altrettanti obiettivi funzionali alla stabilizzazione dei rapporti di dominio messi a punto da ristrette oligarchie transnazionali.

Per quel che concerne le posizioni del radicalismo antiglobalista, uno dei paradigmi che ha avuto più corso – a sinistra – è certamente quello dell’economista e antropologo francese Serge Latouche, che considera la globalizzazione un’azione pianificata tesa a diffondere su scala planetaria valori e simboli dell’Occidente secolarizzato. È il processo che questo studioso ha definito, in un suo libro famoso, di “occidentalizzazione del mondo” ad opera di una megamacchina impersonale nella quale convergono ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. È un processo che produce sradicamento su scala planetaria, la scomparsa progressiva delle culture tradizionali occidentali e delle culture indigene periferiche, una crescente uniformazione degli stili di vita, degli idiomi e delle forme mentali allo schema egemonico diffuso attraverso Internet, i media globali e il cinema soprattutto dagli Stati Uniti. In questo quadro, la globalizzazione tende ad essere presentata come la forma estrema del vecchio imperialismo. Un tempo si colonizzavano le terre, oggi si colonizza l’immaginario degli individui e dei popoli: è cambiato l’oggetto della conquista, ma è rimasta identica la volontà di dominio che da secoli ormai guida i paesi sviluppati del mondo occidentale.
Secondo quest’idea, la mondializzazione può esser considerata come una forma di falso universalismo, come (per riprendere le parole di Alain de Benoist, un critico da destra della globalizzazione) «l’imperialismo di un Occidente mercantile che si è gonfiato sino a raggiungere le dimensioni del pianeta, un imperialismo interiorizzato da coloro che lo subiscono […]. Il che appunto equivarrebbe alla conversione dell’intero pianeta alla religione del mercato, i cui teologi e grandi sacerdoti predicano come fine ultimo la redditività». Lungo questa prospettiva, l’obiettivo finale della mondializzazione finisce per essere lo stesso delle culture rivoluzionarie del Novecento: dare vita ad una vera e propria svolta antropologica, creare un “uomo nuovo” che non sia più un cittadino o un lavoratore inserito in un contesto comunitario, bensì un consumatore integrato e indifferenziato, sempre più sradicato, fragile e infelice, animato da una sensazione di impotenza nei confronti del mondo.

Per chi crede in questa prospettiva, che per comodità può essere definita critico-apocalittica, l’unica alternativa possibile è ovviamente quella a suo tempo definita da Benjamin Barber nel suo fortunato libro Jahad vs McWorld, apparso poco più di dieci anni fa. Nel contesto di un mondo che cancella le differenze e che tende ad uniformarsi e ad integrarsi sempre più sul piano dei consumi culturali di massa, della tecnologia e persino delle abitudini alimentari – la triade mtv, Macintosh, McDonald’s – l’unica possibile identità collettiva in grado di opporsi all’omologazione universale è quella che nasce dal rifiuto violento del modello occidentale e che si trova simboleggiata nell’idea di “guerra santa”. L’unica alternativa all’unificazione delle culture nel modello McWorld sarebbe dunque il fondamentalismo religioso, la violenza fanatica degli uomini della Jihad, il ritorno al tribalismo politico e all’arcaismo culturale di tradizioni storiche spesso inventate, attivate soltanto in funzione difensiva nei confronti di una modernità che non si riesce ad accettare nei suoi esiti ultimi.
In realtà, questo modo di rappresentare la mondializzazione e i suoi effetti – sia nella sua variante positiva e ottimistica, sia in quella negativa e catastrofista – non tiene conto di alcune realtà e dinamiche, che sembrano delineare un quadro per molti versi differente, riassumibile sulla base di tre punti.
Coloro che lamentano la scomparsa delle differenze culturali e paventano il rischio (o magari sostengono l’utilità) di una omogeneizzazione universale non tengono conto adeguatamente, per cominciare, di quel fenomeno che gli studiosi definiscono “localizzazione” o “naturalizzazione”, termine con il quale si indica la capacità che hanno i diversi sistemi socio-culturali (in particolare quelli di matrice essenzialmente nazionale, come tali maggiormente strutturati) ad inglobare al proprio interno, adattandoli alle proprie coordinate valoriali, i modelli provenienti da altri contesti culturali e normativi.
Ciò significa che i modelli culturali e gli schemi estetico-antropologici di provenienza occidentale che la globalizzazione diffonde nel mondo non vengono accettati e fatti propri dai paesi che li ricevono in modo passivo e acritico. Sono invece abitualmente sottoposti ad un’azione di filtro che tende a renderli compatibili con la cultura e la società di destinazione. Localizzazione significa appunto la capacità che hanno le diverse culture di assimilare e di modificare – vale a dire di tradurre culturalmente nel proprio linguaggio e secondo i propri codici comunicativi – gli influssi culturali ai quali si è sottoposti, nel tentativo di renderli accettabili con il proprio sistema simbolico-normativo.
Il messaggio globalizzato, univoco alla partenza, viene insomma recepito dai diversi destinatari secondo filtri cognitivi e schemi di interpretazione del mondo reale tutt’altro che omogenei, nel senso che sono direttamente condizionati dalle rispettive tradizioni e appartenenze culturali. Le persone, in altre parole, tendono a interpretare le idee globali che ricevono in modo altamente differenziato, tenendo conto del proprio contesto socio-culturale di riferimento: le accettano, le fatte proprie con riserva, le rielaborano e magari le rigettano come incompatibili con il proprio metro di giudizio. L’esempio tipico è quello dei grandi programmi di intrattenimento televisivo diffusi su scala internazionale nelle diverse lingue: perché alcuni hanno successo su scala globale mentre altri trovano consenso solo in alcuni paesi?

Ma c’è un secondo aspetto che merita di essere evidenziato, vale a dire che la globalizzazione culturale non è un meccanismo che opera a senso unico, dal centro del mondo (essenzialmente e principalmente gli Stati Uniti) verso la sua periferia. Essa implica anche una relativa reciprocità (dal centro verso la periferia e dalla periferia verso il centro, ammesso che un centro unitario e unico realmente esista) e un gioco estremamente complesso di influenze e di scambi, che finiscono molto spesso per produrre forme culturali ibride e per ciò stesso originali e innovative, diverse da quelle d’origine ma diverse anche da quelle d’arrivo. In altre parole, attraverso la globalizzazione anche la periferia è in grado di influenzare il centro, di irradiare su scala internazionale i propri modelli e prodotti culturali. Basti pensare alla crescente diffusione, proprio nel mondo occidentale, delle culture etniche provenienti dalle diverse aree del mondo, che riguardano principalmente l’abbigliamento e l’alimentazione, ma anche, in modo crescente, la tradizione letteraria, la produzione cinematografica e le diverse forme di espressione artistica. Mangiare giapponese, vestire alla maniera delle donne thai, ascoltare la musica blues proveniente dal Mali o dal Senegal, apprezzare la cinematografia cinese o argentina, visitare la mostra di uno scultore turco è oggi qualcosa di normale – a Berlino come a New York, a Buenos Aires come a Roma. E tutto ciò rappresenta, senza alcun dubbio, un prodotto della globalizzazione. Ha a che fare con la capacità di quest’ultima di incrociare le culture, di metterle fruttuosamente in relazione tra di loro, invece che distruggerle o annichilirle a vantaggio esclusivo di un modello culturale unico.
Ciò non toglie, naturalmente, e siamo così al terzo punto, che esista comunque, sempre più diffusa e invadente, una “cultura omogenea globale”, frutto di una struttura internazionale di comunicazione altamente sofisticata e pervasiva, che viaggia e si diffonde ai quattro angoli del pianeta per mezzo dell’industria cinematografica, dei grandi network radio-televisivi e della Rete informatica. Ma che cos’è esattamente questa “cultura omogenea globale”? Può davvero essere vista come l’espressione di un mondo che tende a diventare sempre più standardizzato e uniforme? La nascita di una cultura globale è, se si vuole, il prodotto più tipico e caratteristico della globalizzazione, il più coerente con le sue dinamiche interne, ma non è l’unico risultato che essa produce. Il fatto che esista una cultura globale non vuol dire, insomma, che esista ormai una cultura unica alla quale tutti tendono ad uniformarsi sempre più, soprattutto le nuove generazioni. Per convincersi di ciò basta guardare a quali sono le caratteristiche intrinseche di questa cosiddetta “cultura globale”, per come le ha descritte lo studioso inglese Anthony D. Smith. A suo giudizio, la cultura cosmopolitica globale – veicolata essenzialmente attraverso i mezzi di comunicazione di massa – è, a vederla da vicino, una cultura senza profondità e senza radici: eclettica, puramente emozionale, fluida, priva di forma e superficiale dal punto di vista storico. È una cultura tutta rivolta al presente, artificiale e standardizzata e per ciò stesso adattabile ai più diversi contesti spazio-culturali. È una cultura che produce “stili di vita”, peraltro sempre nuovi e diversi, ma che non produce – ecco il punto – un “modo di vivere”, individuale e/o collettivo, che dunque non risponde ad alcun bisogno esistenziale e non evoca alcuna memoria profonda. La cultura globale dei consumi culturali di massa non crea identità, simboli, valori e ricordi realmente in grado di orientare la nostra condotta sulle questioni fondamentali della vita e della morte. Un compito che ovunque nel mondo è invece ancora garantito dalle culture storiche di riferimento, a partire – come Smith precisa – da quelle in senso lato nazionali, che ancora oggi mantengono intatta la loro forza condizionante.

Paradossalmente, si potrebbe dire che più la cultura globale si diffonde e si radica, con il suo carattere informale e sostanzialmente effimero, più si afferma il bisogno di riferirsi a modelli comportamentali e a forme culturali che siano specifiche, che abbiano un radicamento nella storia e che siano altresì largamente condivise all’interno di un determinato spazio territoriale. Il che significa che la cultura globale o cosmopolitica, lungi dal diventare esclusiva e unica, è invece destinata a convivere con quelle ereditate dalla tradizione e radicate nei diversi contesti territoriali: si potrebbe dire che più la prima si diffonde e cresce, più le seconde divengono indispensabili e necessarie. Se è consentito un gioco di parole, la “cultura globale” è sì globale, rispetto a quelle tradizionali o storiche che sono per lo più territorialmente radicate e dunque parziali per definizione, ma non è una cultura in senso antropologico, laddove per cultura deve appunto intendersi la risposta che i gruppi umani danno al problema della loro esistenza sociale. Comunque la si voglia definire, la cultura è un sistema di segni, simboli, credenze e conoscenze all’interno del quale gli uomini organizzano la loro condotta sociale, traendone orientamenti normativi, schemi valoriali e criteri d’azione necessari per dare un senso e un orientamento alla loro esistenza. Cosa può offrirci la cultura globale – che è essenzialmente una cultura popolare di intrattenimento, di pura evasione, semplicemente emotiva ed effimera – al di là del suo consumo immediato?
Stando così le cose, va messa dunque in discussione l’idea secondo la quale la globalizzazione riduce il pluralismo delle culture, nel senso di appiattirle secondo uno standard universale modellato su quella della cosiddetta “americanosfera”: semmai tende ad accentuare le diversità, le differenze e le specificità. L’integrazione economica determinata dalla mondializzazione degli scambi (fenomeno peraltro vecchio di qualche secolo) non favorisce necessariamente l’integrazione culturale o peggio l’omologazione secondo un sistema di valori unico. Al di là del carattere superficiale della cosiddetta “cultura globale”, rappresentata da consumi culturali di massa sempre più omogenei su scala internazionale, le culture e le appartenenze tradizionali, invece che scomparire, mantengono ancora in gran parte intatta la loro forza e la loro capacità di orientare normativamente i comportamenti individuali. Al tempo stesso, proprio grazie alla globalizzazione assistiamo al nascere di nuove identità culturali soggettive e di gruppo (ibride o meticce) e alla diffusione su scala globale di forme culturali provenienti dalla periferia del mondo.
Il problema con il quale sempre più saremo chiamati a confrontarci nel futuro non è dunque la fine delle differenze e l’avvento di un mondo uniforme, bensì un altro: come fare in modo che questo numero crescente di particolarismi culturali e di identità specifiche e differenziate, favoriti proprio dalla globalizzazione, possano convivere dialetticamente – all’interno dei diversi contesti territoriali – senza entrare in conflitto radicale tra di loro e senza risolversi in una forma di puro relativismo.

 

Alessandro Campi, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia.

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