Non sarò certo io a negare che il Pci sia stato «una grande
forza popolare, la cui posizione centrale nella storia d’Italia è
fuori discussione», come fu affermato in una rabbiosa recensione del
libro nero del comunismo italiano (Pci. La storia dimenticata, Mondadori
2001) da me curato assieme a Francesco Bigazzi. Con quella raccolta di saggi,
scritti da storici italiani e russi, avevamo davvero toccato dei nervi scoperti!
Di quel partito e della sua storia rigurgitano ormai gli scaffali di intere
biblioteche, eppure non tutto è stato ancora detto, molto vi è
ancora da scoprire. Della centralità del Partito comunista nel nostro
recente passato ne sono prova i tre volumi appena usciti del diario di Luciano
Barca (Cronache dall’interno del vertice del Pci, Rubbettino 2005).
Un documento ben diverso e ben più veritiero di tante autobiografie
che via via i vescovi di quel partito (ovverosia «gli ufficiali di
carriera» – come li definisce lo stesso autore – gli uomini
e le donne dell’apparato, da Amendola a Macaluso, da Ingrao ad Occhetto,
da Napolitano alla Rossanda) ci hanno offerto, cercando di fornire loro
stessi la propria immagine a futura memoria. Il diario di Luciano Barca
attraversa cinquant’anni di vita politica italiana vista dal suo interno,
in posizione privilegiata. Da giornalista nella redazione romana del quotidiano
del Partito (dove entra nel 1946, e dove gli viene affidato il settore economico),
sarà proiettato nella Segreteria nazionale nel febbraio del 1960,
vivendo accanto a Togliatti, quindi a Longo, infine a Berlinguer. Ma non
dovrà attendere tanto per salire ai vertici del Partito. Dopo una
parentesi alla redazione milanese de l’Unità, già nel
novembre del ’53 ha assunto la direzione dell’edizione torinese
del quotidiano, per passare poi alla Commissione culturale accanto a Mario
Alicata, avendo la responsabilità del settore di studi economici
all’Istituto Gramsci, divenendo infine il direttore, nel 1958, della
rivista edita da quell’Istituto, Politica ed Economia. Barca è
dunque sin dai primi anni Cinquanta costantemente ai vertici del Partito
in frequente, quasi continuo, contatto con Togliatti. Ed è sulla
figura del segretario del Pci che emergono notizie che ne rendono estremamente
umana la figura, ridimensionando il senso di quell’appellativo di
“il Migliore”, che non appariva certo un complimento adulatorio,
così come la sua collocazione all’interno del gruppo dirigente.
È proprio quel vertice ad apparirci sotto una nuova luce. Quella
compattezza, che gli veniva dagli anni della clandestinità e dell’esilio,
e che era presentata all’esterno come la sua gloriosa “storia”
(«i Compagni, quelli con la C maiuscola, quelli veri, quelli di prima»),1
era solo di facciata. Al suo interno, quel gruppo era percorso da forti
tensioni, rivalità che non si riuscì e non si volle mai far
affiorare in una battaglia politica aperta, alla ricerca di maggioranze
su progetti politici divergenti, se non opposti. Ma proprio questo, a me
sembra, fu il suo tallone d’Achille (o d’Akel?).2
Nei meandri di Botteghe Oscure
Sapevamo (ne avevo scritto io stesso) dello scontro con Terracini
al tempo del confino di Ventotene, dell’isolamento al quale era stato
condannato Gramsci in carcere, della sospensione dal partito di Concetto
Marchesi quando questi si rifugiò in Svizzera, invece di passare
alla clandestinità in Italia come gli era stato ordinato, sapevamo
dell’affare Seniga, che fu la causa dell’allontanamento di Secchia.3
Ma da questo diario si apprende molto altro. Si ha la conferma, ad esempio,
di come il gruppo di Franco Rodano, gli ex sinistri-cristiani, agisse all’interno
del partito come gruppo a sé stante, arrivando a pubblicare un proprio
periodico4 (e ci sarebbe da domandarsi come mai quel che fu permesso a Rodano,
a Tatò e a Ossicini, fu invece proibito ad Ingrao, a Massimo Caprara,
a Rossana Rossanda, a Luigi Pintor, quando fondarono il manifesto. Forse
perché quel gruppo, del quale fece parte anche Claudio Napoleoni,
fu l’ispiratore del tema dell’austerità, introdotto da
Berlinguer al XIV Congresso del marzo 1975 e ripreso nel discorso del teatro
Eliseo del gennaio 1977 sulla lotta al consumismo?).5 Altro gruppo, del
quale sospettavamo l’esistenza e ci viene qui rivelato apertamente,
fu quello raccolto attorno alla Commissione culturale e al settimanale il
Contemporaneo – un gruppo diretto prima da Carlo Salinari (un assistente
di Natalino Sapegno alla Sapienza) poi da Mario Alicata e Antonello Trombadori.
Un gruppo di romani talmente autoritario nella gestione del proprio potere
(io stesso ricordo di aver assistito ad una telefonata di Alicata a Leonida
Repaci, presidente del Premio Viareggio, nella quale gli indicava perentoriamente
i nomi dei futuri vincitori di quel premio per il 1956!), da far preferire
al pittore Gabriele Mucchi di emigrare a Berlino Est, accettando l’offerta
di un insegnamento in quella Accademia di belle arti, pur di non sottostare
a «la dittatura di quelli di Roma»6 e del loro ambiente salottiero.7
Il palazzo di Botteghe Oscure era fisicamente strutturato secondo i rapporti
di potere che vigevano al suo interno: Secchia al quarto piano («il
potere separato», come lo definisce Barca), Togliatti al secondo.
Anche per le riunioni della segreteria e della direzione vi erano un cerimoniale
e una gerarchia rispettati: «Togliatti presiede dal suo posto di lavoro,
alla scrivania cui è stato appoggiato un lungo tavolo in modo da
formare una T. Longo ha il suo posto fisso, primo al tavolo lungo, a sinistra
di Togliatti. Accanto a Longo, Amendola e di fronte Pajetta. Sono gli unici
che considerano fissi quei posti anche per le riunioni di Direzione. Gli
altri si siedono dove capita».
Al suo rientro in Italia, l’accoglienza tributata a Togliatti non
fu affatto quella che sin qui si è lasciato credere.8 Quanti sapevano
degli anni da lui passati a Mosca? Della sua corresponsabilità nella
persecuzione dei propri compagni messa in atto dalla nkvd?9 Quanti erano
a conoscenza dei compromessi ai quali era dovuto sottostare sotto il tallone
dello stalinismo?10 Vincenzo Bianco (l’unico che sapesse del cinismo
di Togliatti a proposito dei nostri soldati dell’armir)11 era presso
Tito, irretito da una giovane comunista jugoslava; aveva la bocca cucita
Paolo Robotti, che avrebbe svelato il suo calvario nelle mani della gepeu
solo dopo il XX Congresso... Il nucleo dirigente del partito italiano, a
differenza di quello polacco, si era salvato proprio perché nell’emigrazione
aveva scelto Parigi e non Mosca! Andando a trovarlo Champoluc, nell’agosto
del 1953, trattenuto a cena, dopo che l’ospite ha garbatamente licenziato
due membri della direzione venuti anch’essi a trovarlo (Barca non
ci dice chi fossero, ma la cosa non ha importanza), Palmiro Togliatti si
sente in dovere di spiegargli che “per principio” non invita
mai i compagni della direzione, perché, dice, «un segretario
del Pci non può avere rapporti preferenziali all’interno dell’organismo
della direzione». L’esperienza romana acquisita da Barca lo
fa però dubitare della veridicità del principio: «La
realtà è che il tacito giuramento che il vecchio gruppo dirigente
del Pci ha fatto al momento del V Congresso e cioè di cancellare
ogni polemica sul passato, non funziona a livello dei rapporti umani, personali.
Non credo che Togliatti abbia dimenticato il tentativo di Scoccimarro di
affermare una priorità di chi era restato in prigione in Italia su
coloro che erano stati all’estero, così come non ha assolutamente
dimenticato chi nel ’49 si è schierato con Beria e con Stalin
contro di lui.12 Anche Amendola non ha dimenticato i duri giudizi di Longo
su di lui, o l’umiliazione patita a Parigi quando fu escluso dal gruppo
dirigente e messo a dirigere la libreria, così come Terracini e la
Ravera non hanno dimenticato chi li mise fuori dal partito»13 e, aggiungerò
io, ancora Giuseppe Berti e Ruggero Grieco non potevano aver dimenticato
il trattamento loro riservato, Berti per aver trasferito il “Centro
interno” a New York, consegnando la cassa del partito al segretario
comunista americano Earl Browder (secondo un ordine vergato su una cartina
di sigarette e fattogli pervenire dal carcere dove in quel momento Togliatti
era rinchiuso sotto falso nome, ma che poi lo stesso Togliatti negò
di avergli scritto) e Grieco per non averlo sconsigliato, rifugiandosi a
sua volta in Svizzera.
Illuminanti sono le rivelazioni di Barca su Giuliano Pajetta e su Renzo
Laconi, entrambi esclusi dal vertice («dalla cucina»)14, l’uno
per la sua amicizia con László Rajk (l’uomo politico
ungherese condannato a morte nel ’49 con l’accusa di titoismo),
l’altro per la propria omosessualità.15
Fenomenologia del “Gruppo”
In questo
diario possiamo anche leggere un ritratto illuminante di Luigi Longo. «Mi
aveva dato una confidenza che credo abbia dato a pochi altri [...] Una volta
mi sorprese con la domanda: “Ma tu frequenti qualcuno non iscritto
al partito?”. E, alla mia risposta affermativa, confessò tristemente
che lui conosceva solo compagni e a volte non era in grado di capire pienamente
le ragioni degli altri»!16
Sono informazioni che non fanno che confermarmi nella giustezza della scelta
che io feci, tanti anni or sono, di intitolare il mio libro (prendendo a
pretesto il romanzo di Mary McCarthy): Il gruppo.17
Come era possibile vivere in una torre d’avorio (eppure lo era!) e
pretendere di fare politica?
Ma anche nell’intimità del privato, il gruppo era chiuso verso
l’esterno. Togliatti fu costretto a sottostare al controllo dei suoi.
Con Nilde Jotti, era andato a vivere in un villino al numero 3 di via Arbe.
Che il rapporto coniugale di Togliatti con Rita Montagnana fosse entrato
in crisi sin dai tempi di Mosca, era apparso evidente dalle memorie Nina
Delnova Bocenina, la sua segretaria russa al Cominter. Nina non aveva potuto
seguirlo in Italia, come lui avrebbe desiderato (gli fu impedito persino
di salutarla al momento della partenza).18 Sappiamo dei problemi psichici
del figlio Aldo (li ha raccontati Massimo Caprara, sono qui accennati anche
da Barca), ma ignoravamo che dietro la decisione di adottare la piccola
Marisa Malagodi, figlia di uno dei manifestanti caduti sotto il fuoco della
polizia davanti alla fabbrica modenese della Orsi, vi fosse la condizione
postagli dalla Segreteria del partito di poter convivere con la sua nuova
compagna, Nilde Jotti, solo a condizione di non mettere al mondo figli!19
C’è una lettera di Palmiro Togliatti, pubblicata da Emanuele
Macaluso, che alla luce di quanto adesso sappiamo, ci lascia un senso di
amaro in bocca. È una lettera nella quale Togliatti si umilia a chiedere,
in via strettamente riservata, a Eugenio Reale, il consenso per poter convivere
con la Jotti!20. Ma l’informazione più strabiliante che scopriamo
in questo ricchissimo diario è che Palmiro Togliatti si dimise da
segretario nel marzo del ’64, con una lettera indirizzata a Longo:
«La principale ragione addotta è legata alla sua salute. Ad
altri disturbi si sono aggiunte complicazioni urologiche che lo avviliscono.
C’è, comunque, anche una non nascosta motivazione di malcontento
politico: le continue dissonanze tra Amendola, Ingrao e Pajetta, cui dà
un assillante contributo Alicata, hanno stancato Togliatti».21
Forse a queste osservazioni vorrei aggiungerne una mia, ricapitolando gli
ultimi avvenimenti del comunismo internazionale. Nell’ottobre del
1961, a Mosca, si è tenuto il XXII Congresso del pcus. Nella sua
relazione Kruscev ha ripreso l’attacco alla memoria di Stalin, un
attacco che Togliatti non condivide affatto. Nel gennaio del ’63,
al congresso del Partito della ddr, è esploso il conflitto fra la
Russia di Kruscev e la Cina di Chou En-lai, mentre il riavvicinamento alla
Jugoslavia di Tito ha dato ragione, in un certo senso, ai “Magnacucchi”.22
A un anno di distanza dalla riunione di Berlino Est, il conflitto russo-cinese
si è aggravato, mentre l’Albania si schiera coi cinesi. Il
dissenso è giunto a tal punto che Giancarlo Pajetta potrà
esclamare: «Un partito come il nostro non ha bisogno di dire Albania,
quando vuole alludere alla Cina».23 Adesso siamo a marzo, il dissenso
fra i due grandi del comunismo si sta sempre più aggravando. Tra
il 12 e il 15 marzo si è tenuta a Napoli la Conferenza d’organizzazione
che proprio Togliatti ha voluto, col risultato che in Segreteria entrano
Mario Alicata (che mai Palmiro Togliatti avrebbe voluto accanto a sé)
e Manuele Macaluso, mentre monta il dissenso sempre più aperto con
Ingrao, alla cui ombra si è posto Occhetto, segretario della Federazione
giovanile, il trampolino di lancio per la Direzione.24 Attorno a Palmiro
Togliatti, dunque, tutto sta cambiando. Eppure, l’uomo politico ha
ancora la volontà di reagire, almeno per difendere il proprio passato:
sono le premesse per stendere quel testo che sarà noto come il “memoriale
di Jalta”,25 in sostanza un appoggio a Breznev contro Kruscev (che
nemmeno incontrerà, passando per Mosca).
Come è ben noto, proprio a Jalta egli verrà colpito da ictus.
Dopo un breve interludio della segreteria di Luigi Longo, già malato,
emerge adesso alla testa del Pci “il pastorello”, come scherzosamente
veniva chiamato dall’entourage togliattiano il giovane Enrico Berlinguer.26
È l’arco di tempo coperto dal secondo volume di questo diario:
i quattordici anni forse tra i più terribili del nostro recente passato,
dal 1970 al 1984.
Così come al V Congresso di Roma del ’45, adesso, scomparso
Togliatti, in un momento di forte tensione al vertice, è solo un
salto generazionale ad assicurare una tregua al vertice («in concreto,
escludere Amendola, Ingrao e Pajetta»).27 Ma non solo loro. Quel che
appare evidente è l’assenza di coraggio, l’inadeguatezza
ad emergere dei “vecchi” e, con loro, di altri uomini di primo
piano nell’apparato e nel sindacato (gli Alicata, i Di Vittorio, i
Lama, come più tardi i Cofferati e i Veltroni), e tra i quali avrebbe
ben potuto divenire un referente, ma non volle, Giorgio Napolitano, almeno
del “gruppo napoletano” (anzi, “la potente colonia napoletana”,
“la potente destra napoletana”) riunito attorno a Gherardo Chiaromonte28.
Né lui né Amendola – quest’ultimo carico di contraddizioni,
tra un ammiccare a destra (i miglioristi di Napolitano, «la cosiddetta
destra riformista» che «sarebbe più esatto chiamare conservatrice»)29
e un’indiscussa fedeltà all’urss – riuscirono ad
emergere come veri dirigenti, forse terrorizzati da quel dogma, il “frazionismo”,
che permeò tutta la loro vita. Quanto a Luciano Lama, l’unica
volta che uscì allo scoperto (forse spintovi da Pierre Carniti),
concedendo a fine gennaio del ’78 un’intervista a Eugenio Scalfari
che di fatto stoppava il lavorìo di Berlinguer con Moro, egli non
seppe poi portare avanti un proprio disegno politico.30
Il risultato fu che mancò, nel Pci, ogni dibattito aperto, ogni confronto
tra progetti politici contrapposti, se si esclude la vicenda de il manifesto
nella quale, pur tuttavia, si evidenziò la pavidità di Ingrao
e con lui di Aldo Natoli, che non seppero entrambi lottare a viso aperto,
difendere i propri compagni posti sotto processo al Comitato Centrale nell’ottobre
del ’69. Scrive Barca, alla data del 5 luglio 1976: «Nel momento
in cui sta diventando sempre più ponderante al vertice del partito
il peso di una destra che non riesce neppure ad elaborare una linea coerente
di riformismo, pesa il fatto che il rapporto tra Ingrao e Berlinguer non
è mai stato un rapporto disteso, né tanto meno un rapporto
di amicizia». Un ciociaro e un sardo dai caratteri impossibili.31
Il valore, l’importanza straordinaria di questo diario, però,
non è più, com’è stato finora, nello svelare
gli arcana imperii, cioè i rapporti interni del gruppo dirigente
comunista, ma nella narrazione del fitto dialogo che Berlinguer instaurò
con Aldo Moro («il nostro interlocutore diretto nella dc»)32
, al punto da utilizzare una linea telefonica interna per comunicare con
lui.33
Il compromesso storico ha una data d’inizio: l’11 febbraio 1971.
«Per la prima volta nella storia, due dirigenti del Pci, Bufalini
e Barca, sono invitati al ricevimento all’Ambasciata italiana presso
la Santa Sede per l’anniversario del Concordato. Con l’invito
(certamente trattato con la Santa Sede) viene ufficializzata di fatto la
trattativa riservata da noi avviata con Moro [...] in appoggio al tentativo
Bozzi-Carrettoni di evitare il referendum sul divorzio [...] nessun giornalista
fa caso al nostro incontro puramente formale, ma significativo, con il segretario
di Stato e, meno formale, con mons. Clemente Riva».34
Un secondo passo in questa direzione sarà compiuto nel dicembre,
in vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. L’indicazione
di Berlinguer è molto netta: Moro o nessun altro democristiano. Andreotti
e Forlani svelano la possibilità per il futuro di incontri segreti:
«Sono loro a proporci di aprire le porte di una scala di servizio
che unisce le sedi dei due gruppi in modo da poter tenerci informati senza
che nessuno – neppure i commessi della Camera – possano aver
notizia dei contatti».35
Il disegno dello statista democristiano era quello «di portare l’Italia
ad una democrazia compiuta attraverso trasformazioni che toccassero la dc
e il Pci e attraverso tappe successive che portassero per un certo tempo
i due partiti a stare insieme nella maggioranza, per conoscersi, per sanare
la ferita del 1947, assumersi comuni responsabilità e rendersi reciprocamente
affidabili per una normale e democratica alternativa».36
Sulla stessa sponda si era posto Giulio Andreotti, ottenendo la benevola
astensione del Pci nel voto di fiducia al suo terzo incarico.37
Il primo incontro di Berlinguer con Moro era stato assai fugace e del tutto
irrituale: nell’estate del 1972, al Parco dei daini, a villa Borghese,
«Enrico, i suoi figli e Menichelli stavano giocando a pallone, quando
Enrico ha calciato troppo lungo un pallone. Corso a raccoglierlo con i calzoni
arrotolati a metà gamba, alzandosi si è trovato faccia a faccia
con Moro. Un sorriso, un imbarazzato saluto di due timidi, poi Moro ha continuato,
seguito da un uomo di scorta, la sua solitaria passeggiata».38
Allora nessuno dei due sapeva quanto il destino li avrebbe uniti! Sarebbe
stato proprio il rapporto con lo statista democristiano che avrebbe condizionato
tutta la strategia berlingueriana del compromesso storico, strettamente
connessa, a sua volta, al progetto di ciò che fu definito eurocomunismo.
Berlinguer e Moro. Cronistoria di un
rapporto ravvicinato
Il primo
vero contatto, seppur indiretto, era stato proprio Barca a stabilirlo, nell’ottobre
del 1971: «Incontro Moro per illustrargli un delicato messaggio di
Berlinguer sull’elezione del presidente della Repubblica e sulla situazione
politica. Enrico ha giudicato troppo rischioso incontrare direttamente Moro.
Può bruciare la possibile candidatura (l’unica, democristiana,
che Berlinguer è personalmente disposto ad accettare) e creare complicazioni
con il psi e al nostro stesso interno, dove non solo Vecchietti, Valori,
Macaluso fanno il tifo per Fanfani, ma perfino Ingrao».39 Era poi
seguito l’incontro diretto, in casa di Tullio Ancora, il 24 dicembre
1971: «Primo incontro a tu per tu [...] avviene purtroppo, per eccesso
di prudenza di entrambi gli interlocutori, quando ormai Andreotti e Forlani
hanno abbandonato la candidatura Moro (se mai l’hanno veramente appoggiata)».40
Verrà infatti eletto Giovanni Leone.
Gli incontri diretti si rinnoveranno più tardi, sempre fruendo dell’ospitalità
del dottor Ancora, il 5 gennaio e il 16 febbraio del 1978. Il diario di
Barca è qui di importanza capitale. Egli è presente ad entrambi
gli incontri, riporta tra virgolette il discorso di Berlinguer e registra
i cenni di assenso dello statista democristiano: nel novembre, «Moro
è prodigo di riconoscimenti per tutto ciò che Berlinguer ha
fatto per trasformare il Pci in una forza democratica e nazionale di governo
ed è critico con se stesso per non essere riuscito a riformare parallelamente
la dc. Attribuisce il fallimento ad incomprensioni dei suoi stessi amici
più vicini circa la necessità di procedere a riforme che esigono
l’accordo con il Pci e fa un estremo tentativo con Enrico per rinviare
di qualche mese il mutamento di maggioranza. Ma Enrico su questo punto è
deciso [...] è necessario, chiudendo la rottura del 1947 e legittimandosi
reciprocamente attraverso la comune partecipazione ad “un governo
di transizione in cui il Pci garantisca la dc presso la classe operaia e
la dc accrediti il Pci presso i ceti moderati ed i paesi alleati”,
creare le premesse per uscire da una situazione di democrazia bloccata –
Moro fa chiari segni di assenso – nella quale la mancanza di ogni
avvicendamento ha creato una confusioni di ruoli, un logorio delle istituzioni...».41
Nel successivo incontro «il colloquio è quanto mai sereno e
franco. Il nodo da sciogliere per noi, prima di sottoscrivere qualsiasi
programma, è di sapere se esistono le condizioni per un nostro ingresso
a pieno titolo nella maggioranza governativa [...] Moro esita [...] Comunque
assume l’impegno personale richiesto da Enrico». Accomiatandosi,
«Moro rimprovera preoccupato Enrico per essere venuto senza scorta».42
Facciamo attenzione alle date: il 5 gennaio la strategia del compromesso
storico sta per andare in porto; il 24 gennaio Scalfari strappa dalla bocca
di Lama l’intervista che ho appena ricordato; il 16 febbraio si ha
l’ultimo incontro fra il segretario del Pci e lo statista democristiano;
ad un mese esatto di distanza Moro è rapito dalle Brigate Rosse.
Occorre adesso fare un passo indietro e cercare di riordinare le nostre
idee. Sin da quando assunse la segreteria, Berlinguer si rifece ad un discorso
di Togliatti sulla “via italiana al socialismo”, pronunciato
a Firenze, alla II Conferenza nazionale (6-10 gennaio 1947).43 Un discorso
«che suscitò grave scandalo a Mosca»,44 e fu stampato
solo dopo la sua scomparsa, a cura di Romano Ledda. Palmiro Togliatti, il
quale era tornato dall’incontro con il maresciallo Tito entusiasta
delle realizzazioni sociali jugoslave, aveva indicato la necessità
di «seguire strade nuove, che non sono state ancora battute nel passato.
Tracciare queste strade, prevedere il modo come esse si possono sviluppare
e batterle con passo sicuro, è ciò che devono riuscire a fare
oggi i dirigenti di un partito operaio marxista. Non si possono ripetere
le impostazioni e le formule del passato: bisogna saper creare qualcosa
di nuovo, attraverso un’azione politica e di organizzazione adeguata
alle condizioni nazionali e internazionali in cui si sviluppa in tutto il
mondo la lotta per la democrazia e il socialismo [...] Se la democrazia
italiana avesse potuto svilupparsi mantenendo in piedi i Comitati di liberazione
nazionale come organismi di contatto fra i differenti partiti e come organi
di lotta per la democratizzazione del paese e base di un potere nuovo, anche
noi avremmo avuto qualche cosa di simile, ma solo per alcuni aspetti, a
quello che è avvenuto in Jugoslavia...».45 Non poteva immaginare,
proponendo quel modello, che presto sarebbe giunto il 28 luglio 1948, data
della risoluzione dell’Ufficio di informazioni proprio contro Tito!46
Forse per questo quel discorso fu messo da parte, in un certo qual modo
censurato.
Ebbene, proprio ad esso si rifece Berlinguer, quando propose una “terza
via”, che non poteva che allarmare, ancora una volta, i sovietici.
C’era stata la rivolta di Berlino nel ’53, di Budapest nel ’56,
e poi Praga e Varsavia, Jaruzelski e il movimento di Solidarnosc. Immettere
germi di democrazia nel comunismo, come suggeriva la “terza via”,
avrebbe minacciato ulteriormente il controllo sovietico sui paesi satelliti.
Berlinguer si era incontrato più volte con la dirigenza sovietica.
Nel febbraio del 1976, in occasione del congresso del pcus, con Breznev
e Michail Suslov egli non aveva esitato a porre il problema dei diritti
umani, della persecuzione cui erano soggetti Andrej Sacharov, Alexander
Solzenicyn, Anatolij Sharansky. Pur dissociandosi dalle idee liberali di
Sacharov, in quell’occasione dichiarò che si poneva il problema
della libertà d’espressione in urss.47
La solitudine di un leader
Se il
compromesso storico avesse avuto successo, se i comunisti italiani fossero
entrati nella “stanza dei bottoni”, essi avrebbe indicato una
soluzione, una variante vincente del “comunismo dal volto umano”.
Ma lo stesso Willy Brandt temeva l’effetto destabilizzante dell’eurocomunismo
nei confronti dei paesi dell’Est.48 L’analisi di Ugo La Malfa,
espressa all’ambasciatore americano Richard Gardner, il 27 aprile,
mentre Moro era ancora prigioniero, era perfettamente lucida: «A suo
giudizio lo scopo delle Brigate Rosse era chiaro: spingere il Pci all’opposizione
e gettare l’Italia nella guerra civile. Non era un caso, mi disse,
che le Brigate Rosse avessero rapito Moro, l’artefice principale dell’accordo
parlamentare, o che, nei loro comunicati, stessero attaccando Berlinguer
e il Pci. La Malfa era anche convinto che dietro le Brigate Rosse ci fossero
l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia. L’Unione Sovietica voleva
distruggere Berlinguer perché non riusciva a controllarlo, disse
La Malfa; era considerato una minaccia per il suo intero sistema geopolitico,
soprattutto se fosse riuscito a portare il Pci in un governo di tipo democratico
occidentale».49
La commissione parlamentare diretta da Paolo Guzzanti ha verificato la presenza
di un giovane studente russo, poi rivelatosi un agente del kgb, costantemente
alle costole di Moro, a La Sapienza, in quei mesi. Mi ha colpito, inoltre,
quel passaggio del diario di Barca, nel quale egli analizza, avendolo ricevuto
da Ugo Pecchioli, il testo della “Risoluzione della Direzione strategica”
delle Brigate Rosse del febbraio 1978: «Si tratta di vedere, segnalo
a Pecchioli, se sono stati ripresi vecchi scritti di Negri o se c’è
la sua mano».50
Ma l’eurocomunismo aveva anche un altro handicap: il Partito comunista
francese. Il problema dei rapporti fra i due comunismi occidentali si era
già posto nel dicembre del ’61, quando Togliatti aveva deciso
l’invio di una delegazione, formata da Luciano Romagnoli e Luciano
Barca, «per spiegare a Thorez, a suo nome, la situazione determinatasi
nel Pci e in Italia» e la decisione di uscire dagli organismi internazionali
messi in piedi dal Cominform.51 Come mai tanta attenzione, tanta “sensibilità”
(come si espresse Thorez) verso i compagni francesi?
Amendola e quanti avevano fatto parte del Centro estero di Parigi avrebbero
potuto ricordare al giovane segretario, come i comunisti italiani emigrati
in Francia fossero stati obbligati ad iscriversi al pcf e a sottostare alla
tutela di Maurice Thorez e di Jacques Duclos. Quando Amendola, a Roma nell’estate
del ’43, aveva accettato a nome del Pci la nomina da parte del governo
Badoglio di Giovanni Roveda a commissario sindacale, affiancato da Giuseppe
Di Vittorio come commissario della Federazione nazionale dei lavoratori
agricoli, erano stati proprio i francesi a trasmettere la sconfessione di
Mosca a quella collaborazione.52 Ecco perché adesso Marchais non
avrebbe accettato di delegare agli italiani la propria leadership sul comunismo
occidentale! Tant’è che l’incontro di Berlinguer con
lui, a Parigi il 19 settembre 1975, si era concluso con il riconoscimento
delle divergenze. Nella riunione della Direzione del marzo 1976, Amendola
avrebbe constatato che: «mentre si fa un gran parlare di eurocomunismo,
mai così difficili sono stati, in sede europea, i nostri rapporti
con i francesi».53 Un nuovo incontro, questa volta a Madrid, con Carrillo
e Marchais, il 3 marzo 1977, aveva trovato la netta opposizione del francese
Jean Kanapa a riconoscere un ruolo autonomo dell’Europa tra i due
blocchi. Né era servito il ricorso a Josif Broz Tito, nell’ottobre,
sperando in una sua mediazione per trovare un rapporto con la Cina di Mao
Zedong.54 Proprio il maresciallo, in visita ufficiale a Mosca nel maggio
del 1979, dopo una partita di caccia a Zavidovo, era così apostrofato
da Leonid Breznev: «Josif, che ci stai a fare con questi ragazzini?»
accennando agli eurocomunisti, «che ne sanno della vita, quelli lì,
eppure si mettono a farci prediche. Hanno inventato quell’assurdo
eurocomunismo, che non vale un soldo bucato». E Tito di risposta,
compiacente: «Il comunismo è uno solo, quello universale. Non
vi possono essere comunismi regionali o di paese. L’eurocomunismo
è un’eurocretinata».55
Scoperto alle spalle, Berlinguer non poteva trovare una sponda nella socialdemocrazia
tedesca. Willy Brandt, dal 1974 presidente dell’Internazionale socialista,
aveva espresso chiaramente al messo del Pci, Sergio Segre, l’opinione
che fosse «molto più utile per il movimento e per l’Europa
una azione di critica all’interno del campo comunista».56 Lasciato
solo in mezzo al guado, perduto tragicamente l’unico suo vero interlocutore,
con un’opposizione interna guidata da Lama, Napolitano e Macaluso,
che propugnavano un governo di alternanza con i socialisti garanti per il
Pci,57 solo la morte “eroica”, l’ictus che lo colpì
a Padova durante un comizio, salvò il “mito” Berlinguer.
Il resto, il terzo volume del diario di Luciano Barca, è la cronistoria
di un tramonto, il grigiore della segreteria di Alessandro Natta, un uomo
che per tutta la vita si era rammaricato che la guerra e la prigionia lo
avessero distolto dalla strada che si era prefissato in gioventù,
quando aveva sperato di divenire assistente a Pisa di Luigi Russo!
Siamo ormai alle ultime battute, ci avviamo verso il congresso della Bolognina.
C’è Gorbaciov a Roma. È il 30 novembre 1989. Dopo la
cena di gala a Villa Madama, Craxi si apparta con Barca: «È
difficile che i rapporti possano migliorare» fra psi e Pci, gli dice,
«fino a che alla testa del Pci ci sarà Achille Occhetto, persona
del tutto inaffidabile cresciuto ai giochi degli organismi universitari
come Signorile e Pannella [...] personalmente consiglierebbe al Pci di cambiare
piuttosto il simbolo sulla bandiera (togliendo la stella) perché,
tra l’altro, quel simbolo è stato creato da Nicola Bombacci
finito fascista repubblichino e non ha nulla di glorioso»...58
Note
1.
F. Onofri, Esame di coscienza di un comunista, Milano, 1949, pp. 43-37.
2. È il nomignolo affibbiato ad Achille Occhetto, il quale ha avuto
cura di presentarsi con un’autobiografia: Secondo me, Casale Monferrato,
Piemme 2000. Un suo profilo era stato scritto precedentemente da Mino Lorusso,
Occhetto. Il comunismo italiano da Togliatti al pds, Firenze, Ponte alle
Grazie, 1992 (seconda edizione, arricchita di un ultimo capitolo: L’era
di Achille. Occhetto e la politica italiana da Togliatti a Berlusconi, ivi
1994).
3. Si v. qui, I, pp. 116-21.
4. Cfr. qui, I, pp. 19-20 e 281.
5. Per Napoleoni rinvio alla mia introduzione alla raccolta dei suoi discorsi
parlamentari, di prossima pubblicazione a cura del Senato. Quanto a il manifesto,
gli atti del “processo” al gruppo furono resi pubblici immediatamente:
La questione del “manifesto”. Democrazia e unità nel
Pci. Il testo integrale del dibattito al Comitato Centrale e alla Commissione
Centrale di Controllo del Pci del 15, 16, 17 ottobre 1969 sulla questione
del “manifesto”, Roma, Editori riuniti, 1969. Ma si v. anche
Il manifesto. Analyses et thèses de la nouvelle extrème-gauche
italienne, presentées par Rossana Rossanda, Paris, Éditions
de Seuil, 1971, nonché il recentissimo volume uscito in occasione
dei 35 anni di fondazione del quotidiano (35. Trentacinque anni di manifesto,
Roma, il manifesto coop. editrice, 2006).
6. I, pp. 101 e 139. Ma ancora: su Alicata e «il suo rapido mutare
di certezze assolute», si v. qui, I, pp. 180 e 277.
7. Cfr. I , p. 195.
8. Si v. ad es. M. Valenzi, C’è Togliatti!, Palermo, Sellerio,
1995.
9. Si v. E. Dundovich, F. Gori, Italiani nei lager di Stalin, Roma-Bari,
Laterza, 2006, in particolare alle pp. 55-56 e 146-50.
10. Oltre alla prima testimonianza dal Gulag sovietico, quella di Dante
Corneli, Il redivivo tiburtino. 24 anni di deportazione in urss, Milano,
La Pietra, 1977, seguita da quella di Felicita Ferrero, Un nocciolo di verità,
Milano, La Pietra, 1978; si v. G. Zaccaria, Duecento comunisti italiani
fra le vittime dello stalinismo, Milano, Edizioni Azione Comune, 1964; D.
Fertilio, La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo, Venezia,
Marsilio, 2004.
11. Cfr. A. Galitzkij, “Il più efficace degli antidoti”:
la morte dei prigionieri italiani in Russia, in S. Bertelli, F. Bigazzi
(a cura di), Pci. La storia dimenticata, Milano, Mondadori, 2001, pp. 199-200.
12. Su questo contrasto, che va però spostato tra la fine del 1950
e l’inizio del 1951, cfr. qui, I, p. 270. A Mosca Togliatti aveva
più volte rischiato grosso. Barca registra con che emozione, a margine
del XXII congresso del pcus, Palmiro Togliatti corresse a salutare Elena
Stassova, segretaria di Lenin e poi presidente del Soccorso rosso: «Sappiamo
tutti che se Togliatti è scampato alle purghe lo deve in gran parte
a questa donna che, d’accordo con Dimitrov, improvvisò e organizzò
la missione di Togliatti in Spagna, allontanandolo da Mosca»: v. qui,
I, pp. 260-61. Dalle memorie della Bocenina, sappiamo inoltre che egli fu
arrestato all’Hotel Lux nell’ottobre del ’41, seppure
per pochissimo tempo (ma suo cognato, Paolo Robotti, fu a lungo torturato
alla Lubianka!). Vi erano dunque ben solidi motivi perché egli rifiutasse
l’invito di Stalin. Aggiungerò che alla richiesta di Stalin
di averlo a Mosca come segretario del Cominform, il solo Terracini gli diede
la propria solidarietà votando contro.
13. I, p. 134.
14. «Le leggi del partito sono severe: una volta usciti dalla segreteria
si esce dalla cucina»: I, p. 330.
15. Cfr. I, pp. 77 e 398-403.
16. I, p. 275.
17. S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci 1936-1948,
Milano, Rizzoli, 1980.
18. «Nei primi giorni di febbraio [1944] fui convocata all’improvviso
nell’ufficio dell’amministrazione dell’albergo Lux, dove
ricevetti la notizia che mi erano state date le ferie, con decorso immediato,
in una casa di riposo del Comitato centrale a cento chilometri da Mosca.
La macchina mi aspettava da basso [...] Così fui separata dal compagno
Ercoli e messa a riposo per tre settimane... Non c’era collegamenti
telefonici con Mosca e quando tornai trovai la porta dello studio del compagno
Ercoli chiusa e sigillata con grossi sigilli di ceralacca»: La segretaria
di Togliatti. Memorie di Nina Bocenina, Firenze, Ponte alle Grazie, 1993,
p. 62.
19. Qui, I, p. 70.
20. E. Macaluso, 50 anni nel Pci, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp.
65-66.
21. I, p. 331.
22. I deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani, accusati di titoismo. Nel verbale
della Segreteria dell’8 marzo 1951 era stato scritto: «Presenza
dei traditori Magnani e Cucchi a Montecitorio. Evitare atti di violenza.
Isolare. Manifestare disprezzo». Il 2 febbraio, secondo il rituale
chiesastico ben illustrato da Franco Andreucci (Falce e martello. Identità
e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bologna,
Bononia UP, 2005), i due erano stati espulsi rispettivamente dai comitati
federali di Bologna e di Reggio Emilia, ai quali facevano riferimento. Cfr.
G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. VII. Dall’attentato
a Togliatti all’VIII congresso, Torino, Einaudi, 1998, p. 203.
23. A. Fontaine, History of the Cold War from the Korean War to the present,
New York, Vintage Books, 1970, p. 465.
24. «Del primo, Togliatti mi aveva confidato “non entrerà
mai in Segreteria; del secondo è difficile dare un giudizio. È
un animale politico certo più di me, è tatticamente abile,
ma per me, lo è forse un po’ troppo»: I, p. 332.
25. La maggiore preoccupazione di Palmiro Togliatti era la minaccia di scissioni
fomentate dai cinesi, agevolando la formazione, all’interno della
galassia comunista, di due opposte fazioni: «Pur avendo considerate
errate ed esiziali le posizioni cinesi, abbiamo sempre avuto e conserviamo
forti riserve sull’utilità di una conferenza internazionale
dedicata soltanto o in prevalenza alla denuncia e alla lotta contro queste
posizioni, appunto perché temiamo che, in questo modo, i Partiti
comunisti dei paesi capitalistici siano spinti nella direzione opposta a
quella necessaria, cioè a chiudersi nelle polemiche interne, di natura
puramente ideologica, lontane dalla realtà. Il pericolo diventerebbe
particolarmente grave se si giungesse alla rottura del movimento, con la
formazione di un centro internazionale cinese che creerebbe sue “sezioni”
in tutti i paesi»: P. Togliatti, Il memoriale di Yalta, Palermo, Sellerio,
1988. Sembra qui evidente la preoccupazione di Togliatti, di fronte all’apertura
verso il maoismo, che caratterizzerà di lì a non molto il
gruppo de il manifesto.
26. I, p. 135.
27. II, p. 485.
28. II, pp. 584, 643, 869. Per le contraddizioni di Amendola v. qui, alle
pp. 162, 227, 273; 659, 741 («le sortite sia estemporanee sia più
meditate di Amendola...») e di Napolitano, in particolare per il caso
Giolitti: I, 168.
29. II, p. 497.
30. «Ovviamente l’intervista è destinata a deteriorare
ancor più i rapporti tra Lama e Berlinguer. Il fatto è che
i rapporti tra i due, anche per indubbia colpa di Berlinguer, sono gelidi»:
II, p. 712. Altrettanto pessimo era il rapporto personale tra Berlinguer
e Craxi: cfr. qui, II, p. 713.
31. II, p. 642.
32. II, p. 575.
33. «Basta un colpo di telefono interno e senza intermediari e testimoni»:
II, p. 663.
34. II, p. 501.
35. II, p. 520.
36. II, p. 547.
37. «Andreotti una prima prova di lealtà l’ha data. Avendo
Fanfani manovrato al Senato per fare uscire dal gruppo del msi due senatori
e farli votare “Sì” (il che, sia pure per un solo voto,
avrebbe dato la maggioranza ad Andreotti e reso del tutto gratuita e vuota
di significato la non sfiducia del Pci e del psi), Andreotti, al momento
del voto, fece uscire dall’Aula del Senato due senatori dc e in tal
modo andò sotto di un voto per dimostrare essenziale l’astensione
del Pci»: II, p. 648. Per ulteriori contatti segreti (alle 7,30 del
mattino!) tra Berlinguer e Andreotti, tramite lo stesso Barca, v. più
avanti, alle pp. 664-65.
38. II, p. 544.
39. II, p. 517.
40. II, pp. 123-25.
41. II, pp. 708-710.
42. II, 716-17.
43. Su di essa, che segnò l’emergere al vertice del partito
di Pietro Secchia, si v. nel mio Il gruppo, pp. 327 ss.
44. I, p. 32, nota IIa.
45. La nostra lotta per la democrazia e il socialismo, in P. Togliatti,
Il partito, Roma, Editori riuniti 1964, pp. 111-25.
46. La rottura era stata provocata dall’allarme suscitato in Stalin
dal progetto titoista, appoggiato in un primo momento anche da Dimitrov,
di una “federazione balcanica”, che avrebbe sottratto potere
di controllo all’urss sui paesi satelliti. Cfr. A. Guerra, Gli anni
del Cominform, Milano, Mazzotta, 1977, pp. 167 ss.
47. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006,
pp. 75-77.
48. Cfr. qui, II, p. 671, nonché in Pons, Berlinguer e la fine del
comunismo, pp. 120-21.
49. R. N. Gardner, Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore
americano a Roma. 1977-1981, Milano, Mondadori, 2004, p. 243.
50. II, p. 719. Ma si v. oltre, a p. 838: «Viene pubblicato uno strano
libro, che riesco a procurarmi prima del sequestro, a cura del “Collettivo
prigionieri delle Brigate Rosse”: L’ape comunista. È
una sorta di manuale economico che rilegge e interpreta Marx e Lenin anche
per dare una base teorica ad alcune affermazioni delle risoluzioni strategiche
delle Brigate Rosse. Siamo in molti ad essere citati del Pci. Il richiamo
a due libri di Toni Negri sulla simbiosi tra Stato ed Economia mi fa pensare
che la mia lettura del 1978 della Risoluzione strategica delle Brigate Rosse
non era errata».
51. I, pp. 282-85.
52. Cfr. nel mio Il gruppo, pp. 165-67.
53. Cit. in Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, p. 78.
54. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, pp. 112-13.
55. E. Îirnov, “Un’eurocretinata: fermate Berlinguer”,
in Pci. La storia dimenticata, pp. 375-81.
56. Barca, II, p. 671, nota.
57. Barca, II, p. 836
58. III, pp. 1075-76.
Sergio
Bertelli, ordinario di Storia moderna all’Università di Firenze.
(c)
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