Come sopravvivere (e bene) alla crisi del berlusconismo
di Giovanni Orsina
Ideazione di luglio-agosto 2005

Anche chi non volesse indulgere in catastrofismi troppo facili e troppo spesso strumentali troverebbe difficile, mi pare, negare che l'Italia stia attraversando ormai da parecchi anni una fase di serio declino culturale, economico e sociale. E che col passare del tempo si sia dimostrata incapace non soltanto di arrestarlo, ma anche di rallentarlo, forse perfino d'impedire che accelerasse. Delle ragioni di questo declino e delle possibili maniere per arginarlo si è ragionato molto, anche se forse non a sufficienza, e ciascuno ha dato letture e ricette secondo le proprie convinzioni politiche. Per quel che mi riguarda, resto persuaso che le difficoltà del paese dipendano in larghissima misura da un deficit di liberalismo, e che la loro soluzione vada quindi cercata in una massiccia, dolorosissima cura liberale. Ossia, che l'Italia sia ingessata da troppe regole e gravata da costi sociali largamente eccedenti le sue capacità, e che fino a quando non si sarà liberata di quelle e di questi – pagando un prezzo sociale inevitabilmente altissimo – patirà la competizione internazionale piuttosto che beneficiarne. Sul piano simbolico, sul terreno della comunicazione politica, il berlusconismo ha rappresentato un “piano di rientro” da quel deficit liberale. Questa constatazione a mio avviso rimane vera nonostante tutto: malgrado si trattasse di un piano a malapena abbozzato, malgrado i limiti, le approssimazioni, le pesanti scorie storiche accumulatesi per via, e del tutto indipendentemente dalla concreta attività di governo che è stata svolta.

Alla cura liberale – soprattutto alla cura liberale da cavallo di cui ho detto – il paese è totalmente allergico. Con ogni probabilità lo è sempre stato; certamente più passa il tempo, più lo diventa. Non è affatto un caso che le rivoluzioni liberali angloamericane siano avvenute negli anni Ottanta: uomo saggio non è soltanto chi costruisce la propria casa sulla roccia, ma pure chi rimette le tegole quando il tempo è bello. Lo stolto che lascia il tetto sfondato perché tanto splende il sole, quando scoppia il temporale ha due opzioni: infradiciarsi per ripararlo, oppure chiudere le stanze in cui piove più forte e ritirarsi in quelle rimaste asciutte. E più forte pioverà, maggiori saranno le probabilità che scelga la seconda ipotesi. Fuori di metafora: l'Italia non ha approfittato del benessere degli anni Ottanta per rendersi più competitiva, anzi in quella decade ha accumulato un immenso debito pubblico; quando, quasi a metà degli anni Novanta, è comparsa la ricetta liberale del berlusconismo, seguirne i dettami sarebbe già stato oltremodo difficile e gravoso; oggi, dieci anni dopo, il paese sembra chiedere molto più di essere schermito dalle bufere della concorrenza che di essere messo in grado di affrontarle. Come ogni ragionamento liberale “classico”, anche il berlusconismo si fonda sul presupposto che la società civile sia vitale, e che basti toglierle i vincoli per vederla fiorire. Tanto più che, nel fare suo questo presupposto, ha potuto scaricare tutti i costi del passato sulla groppa della Prima Repubblica e del “teatrino della politica”. Ma quanti fra gli elettori italiani sarebbero oggi disposti a scommettere davvero sulla vitalità della nostra società civile?

11 settembre 2001
Di quella cura liberale da cavallo che il paese non vuole ma di cui avrebbe gran bisogno, e che ha rappresentato la “ragione sociale” del berlusconismo, il governo Berlusconi ha realizzato poco. È stato anche sfortunato, e la sua sfortuna si riassume in una data: 11 settembre 2001. L'11 settembre Berlusconi ha trovato una politica estera e perduto una politica economica. E il saldo complessivo del baratto è stato pesantemente negativo. La politica estera, è noto, può essere quanto mai efficace nel tenere un paese fermo mentre su altri terreni lo si brutalizza. Detto diversamente: può servire a conservare il consenso a un governo che, impegnato in un'indispensabile e dolorosa rivoluzione liberale, altrimenti lo perderebbe. È quel che accadde nella Gran Bretagna dei primi anni Ottanta con la guerra delle Falkland, senza della quale i conservatori avrebbero con ogni probabilità perduto le elezioni del 1983. È quello che non è accaduto, né poteva accadere, nell'Italia del primo lustro del Ventunesimo secolo. Per il semplice, non commendevole ma non irragionevole motivo che a questo paese della politica estera non importa poi molto: è troppo periferico, troppo egoista, troppo spaventato, troppo preoccupato per il proprio benessere. Il suo scacco Berlusconi l'ha incontrato sul terreno della politica economica, non su quello – a lui più congeniale – della politica estera. E su questa sconfitta l'11 settembre pesa non poco.

Limiti ed errori
Ma non pesa certamente solo quello. Pesano anche, e forse di più, i limiti strutturali del centrodestra, e i conseguenti errori fattuali e verbali che esso ha compiuto. I limiti strutturali sono presto detti: innanzitutto, il centrodestra è culturalmente debole e ha una classe politica mediocre – inevitabilmente, considerata la storia della Prima Repubblica e della sua crisi. In queste circostanze, la rivoluzione sarebbe potuta riuscire soltanto se l'“antico regime” fosse collassato al punto da non opporre più alcuna resistenza (e non era questo il caso dell'Italia all'indomani di Tangentopoli), oppure se i rivoluzionari avessero raggiunto un tasso di durezza politica ben maggiore di quello che, con buona pace di chi in questi anni ha gridato al regime, hanno raggiunto Berlusconi e quanti lo circondano. Il centrodestra, poi, era ed è diviso – e diviso proprio sull'opportunità di quella “rivoluzione liberale” che, come ho detto, ha rappresentato l'autentica “ragione sociale” del berlusconismo. Infine, la rivoluzione liberale è tale da chiedere lacrime e sangue nel breve e forse pure nel medio periodo, dando frutto solo nel lungo – e Berlusconi non è certo uomo da lacrime e sangue, né da lungo periodo. Su questi elementi di deficit strutturale si sono innestati, dicevo, degli errori di fatto e di parola. Il principale errore di fatto ha riguardato le forme nelle quali si è corrotto il programma originario. Fermo restando che la corruzione era necessaria, che aggiustamenti di rotta e compromessi non potevano certo essere evitati, quella corruzione è avvenuta nel modo più sbagliato: in ordine sparso, in assenza di una linea logica e politica. Di conseguenza, il governo è riuscito a perdere consenso su ogni terreno – al Nord e al Sud, presso i sindacati e confindustria, fra i magistrati e gli avvocati. Insomma: non solo il contratto con gli italiani non poteva essere rispettato e non lo è stato, e questo non poteva che creare problemi, ma quel poco che ne è stato fatto ha generato più dissensi che consensi. Il principale errore di parola che abbia commesso il centrodestra (nonché la critica senz'altro più fondata che la sinistra abbia rivolto al berlusconismo), è consistito invece nel pretendere che la rivoluzione liberale fosse un'operazione a costo zero. E nel continuare a pretenderlo anche dopo l'11 settembre.

Agonia conclamata
Il berlusconismo – in quanto proposta politica e non necessariamente in quanto leadership berlusconiana, per quanto però le due cose possano essere separate – appare perciò doppiamente vulnerato. Da un lato il paese, ammesso che la rivoluzione liberale l'abbia mai davvero voluta, oggi la vuole certamente meno ancora di quanto non la volesse nel 2001 (per non parlare del 1994). Dall'altro quella rivoluzione il centrodestra non l'ha davvero avviata – anche soltanto in una forma corrotta, e che conservasse però una sua coerenza. Che il berlusconismo sia in una situazione preagonica, del resto, lo ha nei fatti ammesso lo stesso presidente del Consiglio accettando di dare vita a un nuovo governo, lanciando il tema del partito unico, permettendo che si aprisse il dibattito sulla propria successione. Rimane il dubbio che, incassata la sconfitta alle elezioni regionali, fosse meglio per il paese e per il centrodestra sciogliere le Camere e chiedere agli italiani di pronunciarsi sul berlusconismo nella sua “forma primigenia”. Gli elettori avrebbero potuto capire e giustificare un governo che avesse cambiato linea all'inizio della legislatura, dopo un evento macroscopico come l'11 settembre. Forse pure che l'avesse cambiata a metà dell'opera. Ma sarà difficile spiegare loro una svolta (una svolta politica sostanziale, al di là di quanto poco siano mutati la composizione del gabinetto e il programma) intervenuta alla fine del quarto anno di cinque. Alle elezioni del 2006 il centro destra arriverà così avendo semisepolto o del tutto seppellito il berlusconismo vincente nel 2001, in una posizione di debolezza logica, quindi. Il che ovviamente non vuol dire che di certo ne uscirà sconfitto, considerato che la politica non è soltanto logica e che nel voto di centrodestra non c'è solo il berlusconismo (c'è, tanto per prendere un unico esempio, l'avversione alla sinistra in generale, e a questa sinistra in particolare, vigorosamente impegnata per altro nei suoi consueti esercizi di autolesionismo). E tuttavia, non si può dimenticare come la politica sia anche logica.

La fine della supplenza
Dopo le Regionali, ad ogni modo, si è scelto di andare avanti. E si è scelto così di aprire in maniera per il momento non traumatica il problema della successione al berlusconismo. Problema col quale dovremo convivere per parecchi mesi, ma che in un modo o nell'altro sarà risolto al più tardi all'indomani delle elezioni politiche del 2006 – a meno che i risultati elettorali non consentano di posticiparlo di qualche settimana ancora, fino alla scelta del prossimo presidente della Repubblica. Per capire fino in fondo l'importanza della partita che si sta giocando, ad ogni modo, giova fare qualche passo indietro. Al momento dell'esplosione di Tangentopoli e della profonda ridefinizione degli equilibri politici nazionali, lo schieramento moderato si trovava in Italia in condizioni di debolezza estrema, meglio ancora, di inesistenza. In primo luogo perché sul terreno culturale il moderatismo veniva da più d'un trentennio di minorità: un trentennio iniziato verso la fine degli anni Cinquanta quando, con la crisi del centrismo e l'avvio del centrosinistra, la vita pubblica italiana ha recuperato il nocciolo radicale d'una certa interpretazione della Resistenza e della Costituzione, rompendo profondamente col passato prefascista e con la tradizione nazionale e delegittimando perciò l'idea stessa di moderatismo. In secondo luogo, in campo più propriamente politico, perché le strutture e il personale che avevano fino ad allora governato il paese erano stati travolti da un uragano giudiziario oggettivamente non equilibrato nel selezionare i suoi bersagli. Non rimaneva molto, a destra, nel 1993-94. E non per caso, fallito l'uomo politico che allora pareva l'unico possibile rifondatore e leader naturale di uno schieramento moderato, Mario Segni, non riuscivano a emergere quali protagoniste di quello schieramento altro che due forze delegittimate e marginali quali la Lega e il Msi: un partito regionale antisistema espressione di una profonda crisi culturale e sociale ma non proprio consapevole di come quella crisi la si potesse risolvere; e il partito-paria della storia repubblicana, da decenni ormai ridotto a coltivarsi avvilito un piccolo ghetto politico e culturale. È prendendo atto di queste circostanze – circostanze nelle quali il paese non poteva che cominciare ad abituarsi mentalmente a esser governato dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto – che possiamo misurare in tutta la sua portata l'importanza cruciale del fenomeno Berlusconi. Col suo carisma mediatico l'attuale presidente del Consiglio ha svolto un'opera di supplenza formidabile, non solo consentendo a uno schieramento moderato di nascere, ma in pochi mesi portandolo addirittura alla vittoria – e chi con la memoria torni indietro a quegli anni ricorderà quanto clamorosi e inattesi siano stati i risultati elettorali del 1994. Ora, quel carisma mediatico poteva catalizzare e catalizzò al di fuori di ogni mediazione la parte moderata dell'opinione pubblica italiana, che era allora e con ogni probabilità è ancora oggi maggioritaria. In questo senso poteva, appunto, supplire al deficit strutturale e culturale del centrodestra. Non poteva però colmarlo, quel deficit. Al più garantiva condizioni non pessime nelle quali lo si potesse colmare, e si preparasse così il terreno per un irrobustimento istituzionale dello schieramento che lo mettesse nelle condizioni di sopravvivere all'inevitabile affievolirsi del carisma del fondatore. Quelle condizioni il carisma di Berlusconi le ha garantite, sostenendo il polo moderato per cinque anni all'opposizione, e poi per quattro anni al governo. Eppure il deficit è ancora lì, pressoché intatto. La classe politica del centrodestra, miope come solo una classe politica di quest'inizio di millennio riesce a essere, si è messa a riparo del Cavaliere e ha arraffato tutto quello che poteva. Ma al futuro ha pensato ben poco. Il fatto che oggi, conclamata la crisi del berlusconismo, il centrodestra si trovi in condizioni certamente migliori, ma poi non troppo, di quelle del 1994, costituisce il vero, imperdonabile peccato commesso dal Cavaliere e soprattutto dai suoi collaboratori e alleati. Il rischio che corriamo è che la fine del berlusconismo coincida con la fine, o almeno con una crisi profonda e prolungata, dello schieramento di centrodestra. Una catastrofe, da tanti punti di vista: perché ne sarebbe messo in discussione il bipolarismo, malgrado tutto l'unico vero passo in avanti verso la civiltà politica che l'Italia abbia compiuto dal 1994; perché il centrosinistra, o un qualche schieramento neocentrista che eventualmente nascesse, governerebbe in assenza di opposizione, e senza trovare più un punto d'incontro nemmeno in quello che finora è stato il suo vero cemento, l'antiberlusconismo; perché le insoddisfazioni profonde e le tendenze populiste ben vive nel ventre di questo paese, e certo non soltanto a Nord, staccandosi del tutto da qualsiasi prospettiva di governo o di amministrazione, crescerebbero e diverrebbero sempre più irresponsabili.

Risorse e carte da giocare
Detto tutto questo, rimango ragionevolmente persuaso che alla fine del berlusconismo il centrodestra riuscirà a sopravvivere. Se non altro perché con ogni probabilità sopravviverà il bipolarismo. Le ipotesi, o meglio i timori, che si torni alla Prima Repubblica e alla sua grande alleanza centrista, insomma, mi paiono in larga misura destituiti di fondamento. Il presupposto primo del governo dal centro è che vi siano dei robusti partiti antisistema, tali da ridurre in misura significativa – a destra, a sinistra, o su entrambi i versanti – l'area delle forze legittimate a governare. Detto altrimenti: una Dc presuppone un Pci (e un Msi). In assenza di questi non potrà esservi neppure quella, e il sistema politico dovrà assumere una qualche forma di assetto bipolare. E se l'Italia rimarrà bipolare, allora continuerà ad esservi un centrodestra che, garantita la sua “necessità” politica, sul piano culturale non potrà essere delegittimato oltre un certo limite. Anche perché lo schieramento moderato non manca del tutto di risorse, né di carte da giocare. Le sue risorse maggiori consistono in primo luogo nel fatto che, come ho già accennato, il progressismo rimane con ogni probabilità minoritario nell'opinione pubblica italiana; e in secondo luogo in un clima storico complessivo di certo non sfavorevole al moderatismo liberale. Da molti punti di vista siamo ancora in pieno riflusso dall'ondata radicale degli anni Sessanta e Settanta, anche se, come vediamo di continuo, non è certo un riflusso che porti alla stabilità elettorale, né al predominio stabile degli schieramenti di centrodestra. Liberalizzazione delle economie, conservazione di alcuni punti di ancoraggio alla tradizione, difesa dell'Occidente sono esigenze non passeggere, e tali da costituire un terreno di coltura fertile per un progetto politico moderato. Nella difesa di queste esigenze – ecco le carte da giocare – il centrodestra italiano può incontrarsi con l'attuale amministrazione americana, e con una parte consistente, oggi istituzionalmente preminente, della Chiesa cattolica. Casa Bianca e Vaticano, com'è noto, sono per una consolidata tradizione i principali punti d'ancoraggio esterni delle forze moderate italiane, e con essi quelle forze dovranno fare i conti sempre e comunque. Nell'attuale situazione di transizione, e di una transizione condotta da posizioni di debolezza, far tornare quei conti è diventato assolutamente cruciale. Sia chiaro: non voglio affatto dire che i rapporti fra il polo di centrodestra da un lato, gli Stati Uniti e la Chiesa dall'altro, possano essere rapporti non problematici, né tanto meno di subordinazione assoluta o anche relativa. E sarebbe poi un errore gravissimo ritenere che quei rapporti possano sostituirsi a un ingrato lavoro di approfondimento intellettuale, di riflessione sul paese, di aggregazione di interessi. Né l'America né il Vaticano rappresentano la panacea di tutti i mali politici, tanto meno la panacea elettorale, malgrado l'indubbia prova di forza che la Chiesa ha dato nei recenti referendum sulla fecondazione assistita, e la cui portata non va tuttavia esagerata. D'altra parte, non c'è alcun dubbio che oltreoceano e oltretevere uno schieramento moderato postberlusconista possa trovare degli interlocutori politici e culturali di notevole consistenza che non può in alcun modo permettersi di ignorare, e sui quali, se saprà interloquirci con intelligenza, può appoggiarsi per sopravvivere e consolidarsi.

Leadership e struttura
Quanto tempo durerà la fase di transizione dal berlusconismo a un nuovo centrodestra è davvero difficile prevederlo. Oltre che, ovviamente, dai risultati elettorali del 2006, moltissimo dipenderà dalle scelte che nello schieramento moderato si faranno da qui alle elezioni, e subito dopo. Scelte che riguardano soprattutto la struttura del polo e la sua leadership. Creare un partito unico come propone il presidente del Consiglio sarebbe un'operazione positiva per almeno due ragioni: perché vi sarebbero maggiori garanzie che il centrodestra sopravviva alla fine del berlusconismo, e che con esso sopravviva il bipolarismo; perché del berlusconismo salverebbe almeno in parte la carica innovativa: se sul terreno economico la “rivoluzione liberale” è mancata, su quello istituzionale almeno si sarà fatto un ampio passo in avanti, dopo più di dieci anni di transizione, verso l'abbandono definitivo delle prassi più deteriori della Prima Repubblica. Certo, fino a quando l'idea del partito unico non si sarà specificata meglio nei dettagli sarà ben difficile valutarne in concreto l'impatto. A cominciare da quello elettorale, considerato come in Italia le fusioni elettorali abbiano sempre raccolto meno voti di quanti non ne raccogliessero individualmente i soggetti che entravano a farne parte – e basti pensare all'unificazione socialista del 1966, o allo sventurato “polo laico” presentatosi alle elezioni europee del 1989. La creazione del partito unico, detto altrimenti, avrà un senso soltanto se darà agli italiani la sensazione che si sia fatto qualcosa di nuovo, che il soggetto unitario rappresenti davvero qualcosa di più che la somma delle sue parti. Se, al contrario, sarà percepito come un mero cartello elettorale, allora l'operazione finirà a mio avviso per essere prevalentemente in perdita. Tanto più se si tiene presente che è un'iniziativa tardiva, quella di dar vita a un soggetto politico unificato, così come tardiva, oltre che in alcuni passaggi discutibile, è la riforma della Costituzione. Non ci si poteva pensare a inizio legislatura, da posizioni di forza, magari facendo da subito del completamento istituzionale del bipolarismo la nuova “ragione sociale” di un berlusconismo che l'11 settembre aveva fatalmente indebolito nel portafogli? Soprattutto nel caso in cui la sua riunificazione dovesse fallire, ad ogni modo, i destini del centrodestra ruoteranno in misura non piccola intorno a Forza Italia. Quello è il “ventre molle” del polo moderato; quello il partito la cui sopravvivenza elettorale e strutturale, nel postberlusconismo, è messa più seriamente in dubbio; quello il luogo che nei prossimi mesi andrà rafforzato. Al discorso sulla struttura del polo si affianca infine, come accennavo sopra, quello sulla leadership. In linea di principio non è detto che la fase postberlusconista non possa essere gestita da Berlusconi, che il Cavaliere non possa insomma succedere a se stesso, seppure in una differente incarnazione. Un paio di considerazioni tuttavia si impongono. La prima, non meramente formale, che la creazione di un nuovo soggetto politico dovrebbe senz'altro rimettere in discussione la leadership – o quanto meno, far passare la riconferma della leadership per un ripensamento complessivo del contesto politico e per un'investitura rinnovata anche nelle forme istituzionali. La seconda, che la figura di Berlusconi è strettamente legata alla passata fase politica, ai metodi che l'hanno segnata, alle esigenze che l'hanno caratterizzata, alle speranze che l'hanno nutrita. Non è impossibile né necessariamente controproducente, ma non va nemmeno dato per scontato, che lo schieramento moderato possa presentarsi a giocare la partita nuova così come si è giocato la vecchia.

Democrazia cristiana
Come è difficile prevedere quanto durerà e in che modo si svolgerà la fase di transizione, così lo è immaginare a quali esiti sia destinata ad approdare. Grazie al suo carisma e al peso assolutamente preponderante che quello gli ha dato nel centrodestra, il Cavaliere ha potuto imporre il berlusconismo quale ragione sociale dell'intera alleanza. Al di là di come sia stata in concreto l'azione di governo, sul piano ideologico il centrodestra è stato più impolitico, più “nordista” e in definitiva più liberale di quanto non fosse lecito presumere dati i suoi equilibri complessivi. È possibile ipotizzare che la fine del berlusconismo faccia riemergere i reali rapporti di forza politici e culturali che si trovano all'interno dello schieramento moderato. Sommato alla crescente allergia che il paese sembra mostrare per le ricette liberiste, questo ci porta a immaginare un futuro centrodestra più politico, più statalista (anche sul piano simbolico), e in definitiva più democristiano di quanto non sia stato finora.

Una battaglia culturale
Con alcuni limiti alla democristianizzazione, però. Limiti che ci sono già, e limiti che sarebbe bene se ci fossero. I limiti che già ci sono dipendono dalla presenza nel paese di settori di opinione pubblica irriducibili al moderatismo democristiano, e che però uno schieramento di centrodestra, per il bene proprio e del paese, non può abbandonare a se stessi. Sono pezzi radicalizzati di maggioranza silenziosa, delusi e aggressivi, insensibili – o del tutto avversi – al comune sentire delle élite culturali e al politicamente corretto, e pronti semmai alla mobilitazione populista. Pezzi di maggioranza silenziosa che il declino italiano, le dinamiche internazionali, la crisi dell'Unione Europea sono destinati a rendere più forti, non più deboli, a irritare ulteriormente, non rasserenare, e che non hanno tuttavia sufficiente forza culturale né sociale per giocarsi da soli una partita che non sia soltanto in negativo, all'opposizione. Con costoro Berlusconi ha saputo dialogare – anzi, com'è noto ha dialogato con questi meglio che con chiunque altro. Come ho già detto, la mia impressione è che se si passerà dalla mediazione carismatica alla mediazione istituzionale questi settori siano destinati ad avere uno spazio minore rispetto al passato. Di spazio dovranno averne, però. Anche perché – e questi sono i limiti alla democristianizzazione che sarebbe bene ci fossero, e fossero semmai ancora più rigidi – se vuole costruire sul lungo periodo, uno schieramento moderato deve riuscire almeno in parte a spostare in questo paese gli equilibri della cultura “alta”. Nei decenni della prima repubblica la Democrazia cristiana ha rinunciato presto alla cultura. Augusto Del Noce riteneva che un'identità intellettuale la Dc non l'avesse in realtà mai avuta, poiché per natura avrebbe dovuto essere un partito integralista, e non poteva esserlo. Secondo Gianni Baget Bozzo quell'identità invece l'ha avuta, e l'ha perduta quando, per aprire al Psi, è entrata in rotta di collisione con la Chiesa. Sia come sia, la vicenda repubblicana ha visto formarsi soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta uno iato piuttosto ampio fra politica e cultura politica: la politica ha in sostanza continuato a seguire un percorso moderato; la cultura politica ha in maggioranza spinto per soluzioni radicali, arrivando a contagiare in misura non piccola anche i partiti di governo, e la Dc in particolare, e facendo sì che essi si trovassero piuttosto spesso a parlare da una parte e ad agire dall'altra. Le componenti dell'attuale centro destra più vicine allo spirito democristiano sembrano aver ereditato dal partito di Moro questa incapacità a sostenere sul piano culturale il proprio moderatismo sostanziale. E se gli effetti negativi di questa mancanza potevano (a malapena) essere circoscritti in un sistema bloccato come quello della prima repubblica, in epoca di alternanza rischiano, sul medio periodo, di essere fatali. Fatali al centro destra, che si troverebbe l'intellettualità permanentemente contro. Ma parecchio dannosi anche al paese, al quale non giova di certo la scissione fra senso comune e cultura “alta” che da ultimo i risultati dei referendum sulla procreazione assistita hanno portato alla luce. Uno schieramento di centro destra che voglia durare, in conclusione, ha l'esigenza assoluta di rafforzarsi sul terreno intellettuale, contrastando seriamente la propensione dell'intellettualità italiana a incamminarsi lungo i binari del progressismo – a postulare che vi sia un “senso della storia”, in realtà del tutto inesistente, tale da condurre verso gli esiti che essa ha arbitrariamente giudicato desiderabili. Quest'opera di contrasto i moderati del polo non l'hanno finora voluta svolgere – per eccessiva propensione al compromesso, per insensibilità democristiana verso i problemi della cultura. I radicali del polo invece l'hanno svolta, ma a modo loro, in maniera sporadica e provocatoria, pescando sul fondo di certo senso comune nazionale, prevalentemente settentrionale, e senza né provare né tanto meno riuscire a dare alla loro azione un solido ancoraggio culturale. Eppure di riferimenti culturali ce ne sarebbero pure troppi – e di grande valore. Nella crisi del berlusconismo, è davvero giunta l'ora che li si vada a cercare.

 



Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.

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