Anche chi non volesse indulgere in catastrofismi troppo facili e troppo spesso strumentali troverebbe difficile, mi pare, negare che l'Italia stia attraversando ormai da parecchi anni una fase di serio declino culturale, economico e sociale. E che col passare del tempo si sia dimostrata incapace non soltanto di arrestarlo, ma anche di rallentarlo, forse perfino d'impedire che accelerasse. Delle ragioni di questo declino e delle possibili maniere per arginarlo si è ragionato molto, anche se forse non a sufficienza, e ciascuno ha dato letture e ricette secondo le proprie convinzioni politiche. Per quel che mi riguarda, resto persuaso che le difficoltà del paese dipendano in larghissima misura da un deficit di liberalismo, e che la loro soluzione vada quindi cercata in una massiccia, dolorosissima cura liberale. Ossia, che l'Italia sia ingessata da troppe regole e gravata da costi sociali largamente eccedenti le sue capacità, e che fino a quando non si sarà liberata di quelle e di questi – pagando un prezzo sociale inevitabilmente altissimo – patirà la competizione internazionale piuttosto che beneficiarne. Sul piano simbolico, sul terreno della comunicazione politica, il berlusconismo ha rappresentato un “piano di rientro” da quel deficit liberale. Questa constatazione a mio avviso rimane vera nonostante tutto: malgrado si trattasse di un piano a malapena abbozzato, malgrado i limiti, le approssimazioni, le pesanti scorie storiche accumulatesi per via, e del tutto indipendentemente dalla concreta attività di governo che è stata svolta.
Alla cura liberale – soprattutto alla cura liberale da cavallo di cui ho detto – il paese è totalmente allergico. Con ogni probabilità lo è sempre stato; certamente più passa il tempo, più lo diventa. Non è affatto un caso che le rivoluzioni liberali angloamericane siano avvenute negli anni Ottanta: uomo saggio non è soltanto chi costruisce la propria casa sulla roccia, ma pure chi rimette le tegole quando il tempo è bello. Lo stolto che lascia il tetto sfondato perché tanto splende il sole, quando scoppia il temporale ha due opzioni: infradiciarsi per ripararlo, oppure chiudere le stanze in cui piove più forte e ritirarsi in quelle rimaste asciutte. E più forte pioverà, maggiori saranno le probabilità che scelga la seconda ipotesi. Fuori di metafora: l'Italia non ha approfittato del benessere degli anni Ottanta per rendersi più competitiva, anzi in quella decade ha accumulato un immenso debito pubblico; quando, quasi a metà degli anni Novanta, è comparsa la ricetta liberale del berlusconismo, seguirne i dettami sarebbe già stato oltremodo difficile e gravoso; oggi, dieci anni dopo, il paese sembra chiedere molto più di essere schermito dalle bufere della concorrenza che di essere messo in grado di affrontarle. Come ogni ragionamento liberale “classico”, anche il berlusconismo si fonda sul presupposto che la società civile sia vitale, e che basti toglierle i vincoli per vederla fiorire. Tanto più che, nel fare suo questo presupposto, ha potuto scaricare tutti i costi del passato sulla groppa della Prima Repubblica e del “teatrino della politica”. Ma quanti fra gli elettori italiani sarebbero oggi disposti a scommettere davvero sulla vitalità della nostra società civile?
11 settembre 2001
Di quella cura liberale da cavallo che il paese non vuole ma di cui
avrebbe gran bisogno, e che ha rappresentato la “ragione sociale” del berlusconismo,
il governo Berlusconi ha realizzato poco. È stato anche sfortunato,
e la sua sfortuna si riassume in una data: 11 settembre 2001. L'11 settembre
Berlusconi ha trovato una politica estera e perduto una politica economica.
E il saldo complessivo del baratto è stato pesantemente negativo.
La politica estera, è noto, può essere quanto mai efficace
nel tenere un paese fermo mentre su altri terreni lo si brutalizza. Detto
diversamente: può servire a conservare il consenso a un governo che,
impegnato in un'indispensabile e dolorosa rivoluzione liberale, altrimenti
lo perderebbe. È quel che accadde nella Gran Bretagna dei primi anni
Ottanta con la guerra delle Falkland, senza della quale i conservatori avrebbero
con ogni probabilità perduto le elezioni del 1983. È quello
che non è accaduto, né poteva accadere, nell'Italia del primo
lustro del Ventunesimo secolo. Per il semplice, non commendevole ma non
irragionevole motivo che a questo paese della politica estera non importa
poi molto: è troppo periferico, troppo egoista, troppo spaventato,
troppo preoccupato per il proprio benessere. Il suo scacco Berlusconi l'ha
incontrato sul terreno della politica economica, non su quello – a lui più
congeniale – della politica estera. E su questa sconfitta l'11 settembre
pesa non poco.
Limiti ed errori
Ma non pesa certamente solo quello. Pesano anche, e forse di più,
i limiti strutturali del centrodestra, e i conseguenti errori fattuali e
verbali che esso ha compiuto. I limiti strutturali sono presto detti: innanzitutto,
il centrodestra è culturalmente debole e ha una classe politica mediocre
– inevitabilmente, considerata la storia della Prima Repubblica e della
sua crisi. In queste circostanze, la rivoluzione sarebbe potuta riuscire
soltanto se l'“antico regime” fosse collassato al punto da non opporre più
alcuna resistenza (e non era questo il caso dell'Italia all'indomani di
Tangentopoli), oppure se i rivoluzionari avessero raggiunto un tasso di
durezza politica ben maggiore di quello che, con buona pace di chi in questi
anni ha gridato al regime, hanno raggiunto Berlusconi e quanti lo circondano.
Il centrodestra, poi, era ed è diviso – e diviso proprio sull'opportunità
di quella “rivoluzione liberale” che, come ho detto, ha rappresentato l'autentica
“ragione sociale” del berlusconismo. Infine, la rivoluzione liberale è
tale da chiedere lacrime e sangue nel breve e forse pure nel medio periodo,
dando frutto solo nel lungo – e Berlusconi non è certo uomo da lacrime
e sangue, né da lungo periodo. Su questi elementi di deficit strutturale
si sono innestati, dicevo, degli errori di fatto e di parola. Il principale
errore di fatto ha riguardato le forme nelle quali si è corrotto
il programma originario. Fermo restando che la corruzione era necessaria,
che aggiustamenti di rotta e compromessi non potevano certo essere evitati,
quella corruzione è avvenuta nel modo più sbagliato: in ordine
sparso, in assenza di una linea logica e politica. Di conseguenza, il governo
è riuscito a perdere consenso su ogni terreno – al Nord e al Sud,
presso i sindacati e confindustria, fra i magistrati e gli avvocati. Insomma:
non solo il contratto con gli italiani non poteva essere rispettato e non
lo è stato, e questo non poteva che creare problemi, ma quel poco
che ne è stato fatto ha generato più dissensi che consensi.
Il principale errore di parola che abbia commesso il centrodestra (nonché
la critica senz'altro più fondata che la sinistra abbia rivolto al
berlusconismo), è consistito invece nel pretendere che la rivoluzione
liberale fosse un'operazione a costo zero. E nel continuare a pretenderlo
anche dopo l'11 settembre.
Agonia conclamata
Il berlusconismo – in quanto proposta politica e non necessariamente
in quanto leadership berlusconiana, per quanto però le due cose possano
essere separate – appare perciò doppiamente vulnerato. Da un lato
il paese, ammesso che la rivoluzione liberale l'abbia mai davvero voluta,
oggi la vuole certamente meno ancora di quanto non la volesse nel 2001 (per
non parlare del 1994). Dall'altro quella rivoluzione il centrodestra non
l'ha davvero avviata – anche soltanto in una forma corrotta, e che conservasse
però una sua coerenza. Che il berlusconismo sia in una situazione
preagonica, del resto, lo ha nei fatti ammesso lo stesso presidente del
Consiglio accettando di dare vita a un nuovo governo, lanciando il tema
del partito unico, permettendo che si aprisse il dibattito sulla propria
successione. Rimane il dubbio che, incassata la sconfitta alle elezioni
regionali, fosse meglio per il paese e per il centrodestra sciogliere le
Camere e chiedere agli italiani di pronunciarsi sul berlusconismo nella
sua “forma primigenia”. Gli elettori avrebbero potuto capire e giustificare
un governo che avesse cambiato linea all'inizio della legislatura, dopo
un evento macroscopico come l'11 settembre. Forse pure che l'avesse cambiata
a metà dell'opera. Ma sarà difficile spiegare loro una svolta
(una svolta politica sostanziale, al di là di quanto poco siano mutati
la composizione del gabinetto e il programma) intervenuta alla fine del
quarto anno di cinque. Alle elezioni del 2006 il centro destra arriverà
così avendo semisepolto o del tutto seppellito il berlusconismo vincente
nel 2001, in una posizione di debolezza logica, quindi. Il che ovviamente
non vuol dire che di certo ne uscirà sconfitto, considerato che la
politica non è soltanto logica e che nel voto di centrodestra non
c'è solo il berlusconismo (c'è, tanto per prendere un unico
esempio, l'avversione alla sinistra in generale, e a questa sinistra in
particolare, vigorosamente impegnata per altro nei suoi consueti esercizi
di autolesionismo). E tuttavia, non si può dimenticare come la politica
sia anche logica.
La fine della supplenza
Dopo le Regionali, ad ogni modo, si è scelto di andare avanti.
E si è scelto così di aprire in maniera per il momento non
traumatica il problema della successione al berlusconismo. Problema col
quale dovremo convivere per parecchi mesi, ma che in un modo o nell'altro
sarà risolto al più tardi all'indomani delle elezioni politiche
del 2006 – a meno che i risultati elettorali non consentano di posticiparlo
di qualche settimana ancora, fino alla scelta del prossimo presidente della
Repubblica. Per capire fino in fondo l'importanza della partita che si sta
giocando, ad ogni modo, giova fare qualche passo indietro. Al momento dell'esplosione
di Tangentopoli e della profonda ridefinizione degli equilibri politici
nazionali, lo schieramento moderato si trovava in Italia in condizioni di
debolezza estrema, meglio ancora, di inesistenza. In primo luogo perché
sul terreno culturale il moderatismo veniva da più d'un trentennio
di minorità: un trentennio iniziato verso la fine degli anni Cinquanta
quando, con la crisi del centrismo e l'avvio del centrosinistra, la vita
pubblica italiana ha recuperato il nocciolo radicale d'una certa interpretazione
della Resistenza e della Costituzione, rompendo profondamente col passato
prefascista e con la tradizione nazionale e delegittimando perciò
l'idea stessa di moderatismo. In secondo luogo, in campo più propriamente
politico, perché le strutture e il personale che avevano fino ad
allora governato il paese erano stati travolti da un uragano giudiziario
oggettivamente non equilibrato nel selezionare i suoi bersagli. Non rimaneva
molto, a destra, nel 1993-94. E non per caso, fallito l'uomo politico che
allora pareva l'unico possibile rifondatore e leader naturale di uno schieramento
moderato, Mario Segni, non riuscivano a emergere quali protagoniste di quello
schieramento altro che due forze delegittimate e marginali quali la Lega
e il Msi: un partito regionale antisistema espressione di una profonda crisi
culturale e sociale ma non proprio consapevole di come quella crisi la si
potesse risolvere; e il partito-paria della storia repubblicana, da decenni
ormai ridotto a coltivarsi avvilito un piccolo ghetto politico e culturale.
È prendendo atto di queste circostanze – circostanze nelle quali
il paese non poteva che cominciare ad abituarsi mentalmente a esser governato
dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto – che possiamo misurare
in tutta la sua portata l'importanza cruciale del fenomeno Berlusconi. Col
suo carisma mediatico l'attuale presidente del Consiglio ha svolto un'opera
di supplenza formidabile, non solo consentendo a uno schieramento moderato
di nascere, ma in pochi mesi portandolo addirittura alla vittoria – e chi
con la memoria torni indietro a quegli anni ricorderà quanto clamorosi
e inattesi siano stati i risultati elettorali del 1994. Ora, quel carisma
mediatico poteva catalizzare e catalizzò al di fuori di ogni mediazione
la parte moderata dell'opinione pubblica italiana, che era allora e con
ogni probabilità è ancora oggi maggioritaria. In questo senso
poteva, appunto, supplire al deficit strutturale e culturale del centrodestra.
Non poteva però colmarlo, quel deficit. Al più garantiva condizioni
non pessime nelle quali lo si potesse colmare, e si preparasse così
il terreno per un irrobustimento istituzionale dello schieramento che lo
mettesse nelle condizioni di sopravvivere all'inevitabile affievolirsi del
carisma del fondatore. Quelle condizioni il carisma di Berlusconi le ha
garantite, sostenendo il polo moderato per cinque anni all'opposizione,
e poi per quattro anni al governo. Eppure il deficit è ancora lì,
pressoché intatto. La classe politica del centrodestra, miope come
solo una classe politica di quest'inizio di millennio riesce a essere, si
è messa a riparo del Cavaliere e ha arraffato tutto quello che poteva.
Ma al futuro ha pensato ben poco. Il fatto che oggi, conclamata la crisi
del berlusconismo, il centrodestra si trovi in condizioni certamente migliori,
ma poi non troppo, di quelle del 1994, costituisce il vero, imperdonabile
peccato commesso dal Cavaliere e soprattutto dai suoi collaboratori e alleati.
Il rischio che corriamo è che la fine del berlusconismo coincida
con la fine, o almeno con una crisi profonda e prolungata, dello schieramento
di centrodestra. Una catastrofe, da tanti punti di vista: perché
ne sarebbe messo in discussione il bipolarismo, malgrado tutto l'unico vero
passo in avanti verso la civiltà politica che l'Italia abbia compiuto
dal 1994; perché il centrosinistra, o un qualche schieramento neocentrista
che eventualmente nascesse, governerebbe in assenza di opposizione, e senza
trovare più un punto d'incontro nemmeno in quello che finora è
stato il suo vero cemento, l'antiberlusconismo; perché le insoddisfazioni
profonde e le tendenze populiste ben vive nel ventre di questo paese, e
certo non soltanto a Nord, staccandosi del tutto da qualsiasi prospettiva
di governo o di amministrazione, crescerebbero e diverrebbero sempre più
irresponsabili.
Risorse e carte da giocare
Detto tutto questo, rimango ragionevolmente persuaso che alla fine
del berlusconismo il centrodestra riuscirà a sopravvivere. Se non
altro perché con ogni probabilità sopravviverà il bipolarismo.
Le ipotesi, o meglio i timori, che si torni alla Prima Repubblica e alla
sua grande alleanza centrista, insomma, mi paiono in larga misura destituiti
di fondamento. Il presupposto primo del governo dal centro è che
vi siano dei robusti partiti antisistema, tali da ridurre in misura significativa
– a destra, a sinistra, o su entrambi i versanti – l'area delle forze legittimate
a governare. Detto altrimenti: una Dc presuppone un Pci (e un Msi). In assenza
di questi non potrà esservi neppure quella, e il sistema politico
dovrà assumere una qualche forma di assetto bipolare. E se l'Italia
rimarrà bipolare, allora continuerà ad esservi un centrodestra
che, garantita la sua “necessità” politica, sul piano culturale non
potrà essere delegittimato oltre un certo limite. Anche perché
lo schieramento moderato non manca del tutto di risorse, né di carte
da giocare. Le sue risorse maggiori consistono in primo luogo nel fatto
che, come ho già accennato, il progressismo rimane con ogni probabilità
minoritario nell'opinione pubblica italiana; e in secondo luogo in un clima
storico complessivo di certo non sfavorevole al moderatismo liberale. Da
molti punti di vista siamo ancora in pieno riflusso dall'ondata radicale
degli anni Sessanta e Settanta, anche se, come vediamo di continuo, non
è certo un riflusso che porti alla stabilità elettorale, né
al predominio stabile degli schieramenti di centrodestra. Liberalizzazione
delle economie, conservazione di alcuni punti di ancoraggio alla tradizione,
difesa dell'Occidente sono esigenze non passeggere, e tali da costituire
un terreno di coltura fertile per un progetto politico moderato. Nella difesa
di queste esigenze – ecco le carte da giocare – il centrodestra italiano
può incontrarsi con l'attuale amministrazione americana, e con una
parte consistente, oggi istituzionalmente preminente, della Chiesa cattolica.
Casa Bianca e Vaticano, com'è noto, sono per una consolidata tradizione
i principali punti d'ancoraggio esterni delle forze moderate italiane, e
con essi quelle forze dovranno fare i conti sempre e comunque. Nell'attuale
situazione di transizione, e di una transizione condotta da posizioni di
debolezza, far tornare quei conti è diventato assolutamente cruciale.
Sia chiaro: non voglio affatto dire che i rapporti fra il polo di centrodestra
da un lato, gli Stati Uniti e la Chiesa dall'altro, possano essere rapporti
non problematici, né tanto meno di subordinazione assoluta o anche
relativa. E sarebbe poi un errore gravissimo ritenere che quei rapporti
possano sostituirsi a un ingrato lavoro di approfondimento intellettuale,
di riflessione sul paese, di aggregazione di interessi. Né l'America
né il Vaticano rappresentano la panacea di tutti i mali politici,
tanto meno la panacea elettorale, malgrado l'indubbia prova di forza che
la Chiesa ha dato nei recenti referendum sulla fecondazione assistita, e
la cui portata non va tuttavia esagerata. D'altra parte, non c'è
alcun dubbio che oltreoceano e oltretevere uno schieramento moderato postberlusconista
possa trovare degli interlocutori politici e culturali di notevole consistenza
che non può in alcun modo permettersi di ignorare, e sui quali, se
saprà interloquirci con intelligenza, può appoggiarsi per
sopravvivere e consolidarsi.
Leadership e struttura
Quanto tempo durerà la fase di transizione dal berlusconismo
a un nuovo centrodestra è davvero difficile prevederlo. Oltre che,
ovviamente, dai risultati elettorali del 2006, moltissimo dipenderà
dalle scelte che nello schieramento moderato si faranno da qui alle elezioni,
e subito dopo. Scelte che riguardano soprattutto la struttura del polo e
la sua leadership. Creare un partito unico come propone il presidente del
Consiglio sarebbe un'operazione positiva per almeno due ragioni: perché
vi sarebbero maggiori garanzie che il centrodestra sopravviva alla fine
del berlusconismo, e che con esso sopravviva il bipolarismo; perché
del berlusconismo salverebbe almeno in parte la carica innovativa: se sul
terreno economico la “rivoluzione liberale” è mancata, su quello
istituzionale almeno si sarà fatto un ampio passo in avanti, dopo
più di dieci anni di transizione, verso l'abbandono definitivo delle
prassi più deteriori della Prima Repubblica. Certo, fino a quando
l'idea del partito unico non si sarà specificata meglio nei dettagli
sarà ben difficile valutarne in concreto l'impatto. A cominciare
da quello elettorale, considerato come in Italia le fusioni elettorali abbiano
sempre raccolto meno voti di quanti non ne raccogliessero individualmente
i soggetti che entravano a farne parte – e basti pensare all'unificazione
socialista del 1966, o allo sventurato “polo laico” presentatosi alle elezioni
europee del 1989. La creazione del partito unico, detto altrimenti, avrà
un senso soltanto se darà agli italiani la sensazione che si sia
fatto qualcosa di nuovo, che il soggetto unitario rappresenti davvero qualcosa
di più che la somma delle sue parti. Se, al contrario, sarà
percepito come un mero cartello elettorale, allora l'operazione finirà
a mio avviso per essere prevalentemente in perdita. Tanto più se
si tiene presente che è un'iniziativa tardiva, quella di dar vita
a un soggetto politico unificato, così come tardiva, oltre che in
alcuni passaggi discutibile, è la riforma della Costituzione. Non
ci si poteva pensare a inizio legislatura, da posizioni di forza, magari
facendo da subito del completamento istituzionale del bipolarismo la nuova
“ragione sociale” di un berlusconismo che l'11 settembre aveva fatalmente
indebolito nel portafogli? Soprattutto nel caso in cui la sua riunificazione
dovesse fallire, ad ogni modo, i destini del centrodestra ruoteranno in
misura non piccola intorno a Forza Italia. Quello è il “ventre molle”
del polo moderato; quello il partito la cui sopravvivenza elettorale e strutturale,
nel postberlusconismo, è messa più seriamente in dubbio; quello
il luogo che nei prossimi mesi andrà rafforzato. Al discorso sulla
struttura del polo si affianca infine, come accennavo sopra, quello sulla
leadership. In linea di principio non è detto che la fase postberlusconista
non possa essere gestita da Berlusconi, che il Cavaliere non possa insomma
succedere a se stesso, seppure in una differente incarnazione. Un paio di
considerazioni tuttavia si impongono. La prima, non meramente formale, che
la creazione di un nuovo soggetto politico dovrebbe senz'altro rimettere
in discussione la leadership – o quanto meno, far passare la riconferma
della leadership per un ripensamento complessivo del contesto politico e
per un'investitura rinnovata anche nelle forme istituzionali. La seconda,
che la figura di Berlusconi è strettamente legata alla passata fase
politica, ai metodi che l'hanno segnata, alle esigenze che l'hanno caratterizzata,
alle speranze che l'hanno nutrita. Non è impossibile né necessariamente
controproducente, ma non va nemmeno dato per scontato, che lo schieramento
moderato possa presentarsi a giocare la partita nuova così come si
è giocato la vecchia.
Democrazia cristiana
Come è difficile prevedere quanto durerà e in che modo
si svolgerà la fase di transizione, così lo è immaginare
a quali esiti sia destinata ad approdare. Grazie al suo carisma e al peso
assolutamente preponderante che quello gli ha dato nel centrodestra, il
Cavaliere ha potuto imporre il berlusconismo quale ragione sociale dell'intera
alleanza. Al di là di come sia stata in concreto l'azione di governo,
sul piano ideologico il centrodestra è stato più impolitico,
più “nordista” e in definitiva più liberale di quanto non
fosse lecito presumere dati i suoi equilibri complessivi. È possibile
ipotizzare che la fine del berlusconismo faccia riemergere i reali rapporti
di forza politici e culturali che si trovano all'interno dello schieramento
moderato. Sommato alla crescente allergia che il paese sembra mostrare per
le ricette liberiste, questo ci porta a immaginare un futuro centrodestra
più politico, più statalista (anche sul piano simbolico),
e in definitiva più democristiano di quanto non sia stato finora.
Una battaglia culturale
Con alcuni limiti alla democristianizzazione, però. Limiti
che ci sono già, e limiti che sarebbe bene se ci fossero. I limiti
che già ci sono dipendono dalla presenza nel paese di settori di
opinione pubblica irriducibili al moderatismo democristiano, e che però
uno schieramento di centrodestra, per il bene proprio e del paese, non può
abbandonare a se stessi. Sono pezzi radicalizzati di maggioranza silenziosa,
delusi e aggressivi, insensibili – o del tutto avversi – al comune sentire
delle élite culturali e al politicamente corretto, e pronti semmai
alla mobilitazione populista. Pezzi di maggioranza silenziosa che il declino
italiano, le dinamiche internazionali, la crisi dell'Unione Europea sono
destinati a rendere più forti, non più deboli, a irritare
ulteriormente, non rasserenare, e che non hanno tuttavia sufficiente forza
culturale né sociale per giocarsi da soli una partita che non sia
soltanto in negativo, all'opposizione. Con costoro Berlusconi ha saputo
dialogare – anzi, com'è noto ha dialogato con questi meglio che con
chiunque altro. Come ho già detto, la mia impressione è che
se si passerà dalla mediazione carismatica alla mediazione istituzionale
questi settori siano destinati ad avere uno spazio minore rispetto al passato.
Di spazio dovranno averne, però. Anche perché – e questi sono
i limiti alla democristianizzazione che sarebbe bene ci fossero, e fossero
semmai ancora più rigidi – se vuole costruire sul lungo periodo,
uno schieramento moderato deve riuscire almeno in parte a spostare in questo
paese gli equilibri della cultura “alta”. Nei decenni della prima repubblica
la Democrazia cristiana ha rinunciato presto alla cultura. Augusto Del Noce
riteneva che un'identità intellettuale la Dc non l'avesse in realtà
mai avuta, poiché per natura avrebbe dovuto essere un partito integralista,
e non poteva esserlo. Secondo Gianni Baget Bozzo quell'identità invece
l'ha avuta, e l'ha perduta quando, per aprire al Psi, è entrata in
rotta di collisione con la Chiesa. Sia come sia, la vicenda repubblicana
ha visto formarsi soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta uno iato piuttosto
ampio fra politica e cultura politica: la politica ha in sostanza continuato
a seguire un percorso moderato; la cultura politica ha in maggioranza spinto
per soluzioni radicali, arrivando a contagiare in misura non piccola anche
i partiti di governo, e la Dc in particolare, e facendo sì che essi
si trovassero piuttosto spesso a parlare da una parte e ad agire dall'altra.
Le componenti dell'attuale centro destra più vicine allo spirito
democristiano sembrano aver ereditato dal partito di Moro questa incapacità
a sostenere sul piano culturale il proprio moderatismo sostanziale. E se
gli effetti negativi di questa mancanza potevano (a malapena) essere circoscritti
in un sistema bloccato come quello della prima repubblica, in epoca di alternanza
rischiano, sul medio periodo, di essere fatali. Fatali al centro destra,
che si troverebbe l'intellettualità permanentemente contro. Ma parecchio
dannosi anche al paese, al quale non giova di certo la scissione fra senso
comune e cultura “alta” che da ultimo i risultati dei referendum sulla procreazione
assistita hanno portato alla luce. Uno schieramento di centro destra che
voglia durare, in conclusione, ha l'esigenza assoluta di rafforzarsi sul
terreno intellettuale, contrastando seriamente la propensione dell'intellettualità
italiana a incamminarsi lungo i binari del progressismo – a postulare che
vi sia un “senso della storia”, in realtà del tutto inesistente,
tale da condurre verso gli esiti che essa ha arbitrariamente giudicato desiderabili.
Quest'opera di contrasto i moderati del polo non l'hanno finora voluta svolgere
– per eccessiva propensione al compromesso, per insensibilità democristiana
verso i problemi della cultura. I radicali del polo invece l'hanno svolta,
ma a modo loro, in maniera sporadica e provocatoria, pescando sul fondo
di certo senso comune nazionale, prevalentemente settentrionale, e senza
né provare né tanto meno riuscire a dare alla loro azione
un solido ancoraggio culturale. Eppure di riferimenti culturali ce ne sarebbero
pure troppi – e di grande valore. Nella crisi del berlusconismo, è
davvero giunta l'ora che li si vada a cercare.
Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all'Università
La Sapienza di Roma, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.
(c)
Ideazione.com (2006)
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