Barry M. Goldwater alle origini del fusionismo
di Antonio Donno
Ideazione di luglio-agosto 2005

Immediatamente dopo le elezioni presidenziali del 1964, apparve una singolare interpretazione della secca sconfitta di Barry M. Goldwater. Goldwater aveva sostenuto che la maggioranza degli americani fosse conservatrice; di conseguenza, la vittoria schiacciante di Johnson dimostrava che il candidato democratico era conservatore e, al contrario, che Goldwater non lo era affatto1. Ma, dopo l'ironia iniziale, l'autore coglieva nel segno – senza prevedere, ovviamente, le implicazioni future della sua affermazione – quando sosteneva che Goldwater stesse tentando di creare un vero secondo partito, per quanto contrario a quello che era il corrente consenso nazionale. Come si vedrà nel corso dei decenni successivi, effettivamente Goldwater aveva iniziato la trasformazione del Partito repubblicano in un “altro” secondo partito, fondato sulle istanze conservatrici, interpretando un consenso nazionale ben diverso da quello immaginato dal suo sarcastico critico. Era il consenso che Goldwater aveva lucidamente descritto in The Conscience of a Conservative, del 1960, che con le sue numerosissime ristampe aveva raggiunto la vendita di più di tre milioni e mezzo di copie negli Stati Uniti.

In effetti, con la candidatura di Goldwater iniziava una nuova fase nella storia del Partito repubblicano e del conservatorismo americano. Questa nuova fase può essere ben illustrata da un episodio. Qualcuno chiese una volta a Robert A. Taft, il famoso senatore dell'Ohio, leader storico della Old Right isolazionista, se avesse letto The Conservative Mind di Russell Kirk. «No – rispose Taft – io sono un politico, non un filosofo». Una risposta che fotografava perfettamente la situazione di sterilità progettuale vissuta negli anni Cinquanta dal conservatorismo politico americano di marca isolazionista. Se Goldwater abbia o meno letto il famoso libro di Kirk, è una questione secondaria. Il dato cruciale era che con il suo libro Goldwater esprimeva delle idee e che queste idee avrebbero prodotto delle conseguenze, per riprendere il titolo di un fondamentale libro di Richard M. Weaver, Ideas Have Consequences.

Tra i primi anni Quaranta e gli ultimi anni Cinquanta il conservatorismo americano aveva vissuto una grande stagione di elaborazione teorica. Tutte le anime del pensiero conservatore avevano prodotto opere importanti per contestare la deriva un-American dello statalismo del New Deal: liberali classici, conservatori tradizionalisti, libertarians della Old Right anti-militarista ed isolazionista avevano contribuito grandemente a dar vita ad una rete di pensiero nazionale mirata a creare le condizioni per una ripresa di quella che essi consideravano la vera “filosofia pubblica” americana: il liberalismo delle origini, dei Padri Fondatori, la filosofia dell'individualismo americano. Ma il grande impegno profuso sul piano dell'elaborazione teorica aveva prodotto scarsi frutti sul piano politico. Il conservatorismo americano non aveva una vera voce politica, non aveva una rappresentanza politica in grado di esprimere le sue istanze. Il Partito repubblicano, il Grand Old Party, il “partito stupido”, come era definito dai liberals newdealisti, era accusato, non senza ragione, di rappresentare gli interessi della business community, della grande borghesia affaristica metropolitana. Per molti conservatori americani, che pure avevano salutato con gioia la fine della “dittatura di Roosevelt” ed avevano sostenuto con convinzione la candidatura di Eisenhower, gli anni Cinquanta, il decennio repubblicano, avevano prodotto molte delusioni, sia in politica interna che in quella internazionale; e, per quanto Russell Kirk affermasse che i movimenti di idee non potessero dar frutti dall'oggi al domani e che occorresse una generazione, «per la maggior parte dei conservatori negli anni '50 e '60 la politica era importante ed il tempo stava scorrendo. […] La difesa della civiltà occidentale richiedeva che le loro idee fossero implementate e che la guerra non fosse combattuta soltanto sulle riviste accademiche o sulla National Review».2 Era indispensabile che le idee conservatrici si traducessero in forza politica e si confrontassero sul terreno dello scontro politico.

Ecco perché, quando nel 1960 il senatore dell'Arizona Barry M. Goldwater pubblicò The Conscience of a Conservative, il libro fu letto da milioni di americani come un vero e proprio manifesto politico. Il suo linguaggio piano e diretto, il suo richiamo appassionato ai valori originari della nazione americana, il suo attacco ai “poteri forti” di ascendenza newdealista crearono un movimento di idee popolari che troverà, quattro anni dopo, una cassa di risonanza nel Partito repubblicano, per quanto fieramente avversato dalla nomenklatura del Partito stesso. Ed è certo che la successiva sconfitta di Goldwater non fu sgradita ad una parte cospicua dell'establishment del Gop, anche se, per gli effetti che produrrà nel tempo, ha ragione Lee Edwards nel dire che «[Goldwater] fu il più importante perdente nella storia della moderna politica presidenziale».3 In sintesi, il conservatorismo di Goldwater si dimostrerà qualcosa di diverso da «una sorta di patologia, […] un'aberrazione irrazionale o semi-razionale dal mainstream consolidato», come avvertì giustamente Alan Brinkley.4 Brinkley terminava affermando come, nel contesto variegato delle tradizioni conservatrici americane, vi fossero filoni «moralmente repellenti»; ma dimenticava quanto fossero stati “moralmente repellenti” certi innamoramenti di non pochi esponenti del New Deal verso la pianificazione sovietica proprio durante gli orrori staliniani, che essi giudicavano come degli “sgradevoli inconvenienti”.

Comunque sia, The Conscience of a Conservative fu un sasso nello stagno. In esso sono condensate, in maniera semplice ma profonda, tutte le elaborazioni di più di un decennio di conservatorismo filosofico. La prima parte del libro è senza dubbio ispirata dalle riflessioni di Russell Kirk, John Hallowell e di altri conservatori tradizionalisti. A differenza delle concezioni dei liberals, impegnati «in uno sforzo collettivo per imporre “il progresso”»5, il conservatore considera l'individuo nella sua integralità, ponendo «lo sviluppo spirituale dell'uomo quale primaria preoccupazione della filosofia politica». Si tratta di un'affermazione di capitale importanza che riposiziona il fattore religioso al centro dell'azione politica: un ritorno alle matrici giudaico-cristiane della nazione americana che produrrà nei decenni successivi un vero terremoto nell'approccio di molta parte dell'elettorato americano alla politica. Ciascun individuo, afferma Goldwater, è una creatura unica; perciò, le differenze tra gli uomini sono essenziali per individuare il peculiare percorso esistenziale di ciascuno. Al contrario, «considerare l'uomo come parte anonima di una massa senza differenziazioni, significa consegnare l'individuo alla schiavitù». Il riecheggiamento della “strada verso la schiavitù” di Hayek è del tutto evidente.

Nel rimettere al centro dell'azione politica l'individuo, Goldwater opera un significativo recupero della tradizione liberale americana nata con la Dichiarazione d'Indipendenza (e ancora prima, durante l'esperienza coloniale) con la sua insistenza sui diritti inalienabili e “di per sé evidenti” dell'individuo e, nello stesso tempo, dell'insegnamento cristiano sulla sacralità della persona umana. Di converso, il rifiuto di considerare l'individuo come parte della massa è una denuncia non solo del totalitarismo, ma della stessa massificazione operata dall'assistenzialismo del Dio-Stato, cioè da un welfare state impegnato solo ad assicurare beni materiali e perciò ad ottenere ricompensa politica. Ed è proprio quest'ultimo punto che Goldwater evidenzia con estrema chiarezza: «[L'individuo] non può essere economicamente libero, e nemmeno economicamente efficiente, se è schiavo politicamente; e, in senso opposto, la libertà politica dell'uomo è illusoria, se egli dipende per i suoi bisogni economici dallo Stato». Si tratta di un vero e proprio ribaltamento della filosofia del New Deal e della riaffermazione della centralità dei valori originari del liberalismo americano e dei fondamenti religiosi della nazione americana.

«Stiamo o no allargando l'area della libertà?», si chiede Goldwater. Questo interrogativo ci introduce all'interno di uno dei principali items del pensiero conservatore: la politica. O per meglio dire, all'interno della tradizione politica americana. Perché la tradizione politica americana nasce e si afferma, fin dai tempi delle colonie, nel concetto e nella pratica dell'autonomia della società (e, a maggior ragione, dell'individuo) dal potere centrale. “Conceived in liberty” (per usare il titolo di un famoso libro di Murray N. Rothbard), le colonie svilupparono un autogoverno che rappresenterà il mainstream della tradizione politica americana, confermato nella Dichiarazione d'Indipendenza, nel Bill of Rights e nella Costituzione americana, per quanto quest'ultima sia stata considerata da molti liberali radicali dell'Ottocento la prima forma di invasività di un potere centrale nei confronti delle forze spontanee della società.

Di conseguenza, la politica fu sempre considerata la longa manus del potere e tale considerazione entrò a far parte stabilmente della mentalità dell'americano, sempre sospettoso nei confronti di un potere politico lontano, incontrollabile e tendenzialmente liberticida. Il liberalismo americano delle origini nasce, dunque, come affermazione della “sovranità dell'individuo” e della superiorità della libera associazione tra gli individui sul potere della politica.

Con l'avvento del New Deal, afferma Goldwater, si verificò una rottura traumatica nella naturale evoluzione del liberalismo americano. Accadde qualcosa che minacciava di corrompere la filosofia pubblica americana: «Il Governo può fare tutto ciò che ha bisogno di essere fatto; notate, anche, il sottinteso implicito ma necessario, che è lo stesso Governo a decidere che cosa occorra fare». Insomma, la libertà di decidere passava dalle mani degli individui a quelle del potere politico; i principi originari dei Founding Fathers erano ribaltati; si affacciava nella storia della nazione americana ciò che si era sempre temuto e che, tenuto fino ad allora alla larga, ora insidiava l'“eccezionalità” dell'esperimento americano: «Durante tutta la Storia dell'umanità, le più gravi insidie alla libertà individuale sono partite, sempre, dal Governo». Ma, se la libertà passa dalle mani dei singoli a quelle dello Stato, se gli individui non hanno più il controllo della propria libertà, l'uso che ne può fare lo Stato, cioè il potere di pochi, è di restringerla invece di allargarla. Rientrano in gioco, con queste conclusioni di Goldwater, le analisi che Mises e Hayek, oltre a molti liberali classici e libertarians, avevano svolto durante tutti gli anni '40 negli Stati Uniti, sul pericolo della deriva totalitaria di un potere centrale sempre più dotato di prerogative. «Sotto il manto del Governo federale – sostiene Goldwater – il potere esecutivo e quello giudiziario hanno valicato da molto le loro frontiere costituzionali» (p. 33). E poi, anticipando le sue considerazioni sulla politica estera americana nell'ultima parte del libro, Goldwater commenta sarcasticamente: «Le nostre difese contro l'accentramento a Washington di un potere illimitato sono, temo, nettamente inferiori ai nostri disegni aggressivi contro Mosca».

In sostanza, la prima parte del libro ha il merito di riportare al centro del dibattito politico americano il tema della libertà. La libertà, nello scritto di Goldwater, non ha un significato rituale; incarna il principio della “sovranità dell'individuo” che già negli anni '40 dell'Ottocento era stato esposto da un proto-libertarian americano come Josiah Warren, seguito da una schiera di liberali radicali (Lysander Spooner, Stephen Andrews, William Greene, Benjamin Tucker), che possono essere considerati gli antesignani del libertarianism novecentesco e, più in generale, del conservatorismo post-bellico. Goldwater rappresenta la rottura (o il tentativo di rottura) di una lunga stagione di statalismo che, iniziato con il New Deal agli inizi degli anni '30, era proseguito anche negli anni di Eisenhower, il quale si era guardato bene dall'intaccarlo. Tentativo solo apparentemente fallito, se si pensa che le idee di Goldwater avranno un'influenza lenta ma costante nell'elettorato americano, fino ai risultati odierni. Il nocciolo del pensiero di Goldwater può essere efficacemente riassunto in questo passaggio: «Nessun mutamento sociale e culturale, per quanto desiderabile, dovrebbe essere effettuato dai meccanismi del potere nazionale», se non si vuole intaccare gravemente i diritti individuali come anche i diritti degli Stati, cavallo di battaglia, quest'ultimo, sin dai tempi degli accesi contrasti tra federalisti e coloro – gli anti-federalisti – che si mostravano preoccupati dell'accumulo di potere nel governo centrale. In questo caso, il costante richiamo di Goldwater al dettato della Costituzione appare suggerito più dall'opportunità politica di contrastare lo statalismo di matrice newdealista appellandosi alle autonomie statali garantite dalla Costituzione stessa che dal reale convincimento di molti conservatori che i diritti degli Stati, sanciti dal Bill of Rights, fossero realmente efficaci contro la pervasività del potere centrale6.

A metà degli anni '30, con il New Deal già in azione, era apparso un libro che sarà successivamente il punto di riferimento teorico del pensiero conservatore post-bellico: Our Enemy, the State, di Albert J. Nock, il padre della Old Right americana. In questo libro l'attacco allo Stato, inteso come associazione a delinquere, è spietato. E le tasse, che alimentano l'assistenzialismo statale, sono considerate la forma più barbara di furto ai danni del cittadino. Su questo tema, per la verità, non tutto il movimento conservatore era della stessa opinione. Alcuni ritenevano che una forma leggera di tassazione fosse indispensabile. Al contrario, Goldwater è drastico nel giudizio: «Come può [un uomo] essere libero, se i frutti del suo lavoro non sono a sua disposizione perché ne faccia quel che più vuole, ma vengono trattati, invece, come parte di un fondo comune di ricchezza pubblica? La proprietà e la libertà sono inseparabili: quando il Governo, sotto forma di imposte, porta via la prima, invade anche l'altra».

Tassazione/assistenzialismo: due facce della stessa medaglia statalista. Così, lo Stato assistenziale, subordinando l'individuo allo Stato, introduce in maniera subdola, sotto forma di benefici, una sorta di collettivizzazione strisciante. La ricchezza privata diviene ricchezza pubblica; la sua redistribuzione provoca una vera e propria ingiustizia sociale, perché umilia i più capaci e i più meritevoli a vantaggio di un settore parassitario sempre più vasto. Disastrosi i suoi effetti psicologici: «[L'assistenzialismo] trasforma l'individuo da un essere spirituale, dignitoso, industre, con fiducia in se stesso, in una creatura animale dipendente senza che se ne renda nemmeno conto». In queste pagine di Goldwater è espressa senza mezzi termini una concezione della società che sembrava ormai un ricordo del passato. Riprendendo i principi originari del liberalismo americano, Goldwater temerariamente scrive un manifesto politico di una violenza concettuale inusitata dopo tanti anni di conformismo statalista. Il suo coraggio porterà i conservatori americani a sostenere con entusiasmo la sua candidatura alle presidenziali del 1964, mentre da parte dei liberals si scatenerà una campagna di denigrazione forsennata sul tipo di quella messa in atto contro il senatore Joe McCarthy.

L'ultima parte del manifesto di Goldwater riguarda la politica estera, o meglio la politica americana contro il comunismo sovietico. Queste pagine rappresentano la rottura definitiva con le concezioni isolazioniste della Old Right. Del resto, la stessa posizione oscillante di Taft che, nonostante le sue convinzioni isolazioniste, aveva votato a favore della “dottrina Truman” e di altre iniziative di impegno americano in Europa, faceva capire che la minaccia comunista in Europa e nel mondo non lasciava più spazio per posizioni di isolazionismo. La contraddizione tra l'anti-comunismo senza riserve della Old Right ed il suo rifiuto di qualsiasi impegno militare americano in Europa contro il comunismo era divenuta palese. Inoltre, l'accusa di tradimento mossa dai conservatori nei confronti dell'amministrazione Truman a proposito della “perdita della Cina” li poneva in una posizione tanto contraddittoria da essere insostenibile; né, d'altra parte, di fronte alla minaccia globale comunista poteva reggere ancora la distinzione – tradizionale per i Repubblicani – tra gli interessi strategici americani nell'Asia-Pacifico e quelli nell'Europa, secondo una visione ideologica anti-europea tipica dei Repubblicani. Goldwater approfondisce la frattura intervenuta tra le file dei conservatori a proposito della guerra di Corea e ri-orienta le posizioni conservatrici decisamente a favore di un impegno massiccio anti-comunista degli Stati Uniti a livello globale.

La critica alle debolezze dell'amministrazione Eisenhower verso l'Unione Sovietica è spietata: un segno evidente della delusione dei conservatori nei confronti di una condotta politica giudicata fallimentare al pari di quella di Truman; anzi, erede della precedente. Il comunismo sovietico è una dottrina totalitaria che ha come obiettivo la conquista del mondo; a questa dottrina gli Stati Uniti non possono opporre la ricerca della pace ad ogni costo, ma una lotta senza quartiere per ottenere non la pace, ma la vittoria. «Non possiamo rendere la guerra “impensabile” per definizione […]. Se la guerra è impensabile per noi, ma non per loro – afferma Goldwater – il famoso “equilibrio del terrore” non è un equilibrio, ma uno strumento di ricatto». Un'affermazione che anticipa di due decenni la presa di posizione di Ronald Reagan contro l'“Impero del Male”.

 

Note
1. Cfr. Frank H. Jonas, “The Spirit of Contemporary Politics in the American West”, in The Western Political Quarterly, XVIII, 3, Supplement, September 1965, pp. 5-20.
2. George H. Nash, The Conservative Intellectual Movement in America since 1945, Wilmington, DE, Intercollegiate Studies Institute, 1998, pp. 237-238.
3. Lee Edwards, The Conservative Revolution: The Movement That Remade America , New York , The Free Press, 1999, p. 138.
4. Alan Brinkley, The Problem of American Conservatism, in «The American Historical Review», IC, 2, April 1994, p. 412.
5. Barry Goldwater, Il vero conservatore, Milano, Edizioni del Borghese, 1962, pp. 19-20. D'ora in poi citerò dall'edizione italiana, con qualche lieve modifica.
6. Vale la pena di sottolineare che il capitolo sui diritti degli Stati è inspiegabilmente soppresso nell'edizione italiana.



Antonio Donno, professore di Storia dell'America del Nord all'Università di Lecce.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006