Sarà un cammino appassionante ma difficile
di Roberto Chiarini
Ideazione di luglio-agosto 2005

La proposta del partito unico è stata agitata a lungo come argomento retorico della nuova koinè del maggioritario. Improvvisamente – e un po' inopinatamente, bisogna dire – è diventata immediatamente operativa. Sino a ieri era di volta in volta ventilata come omaggio dovuto alla fresca fede del bipolarismo che per compiersi non può certo escludere, almeno in prospettiva, la formazione di due soli competitori; richiamata come furbesca risposta alla domanda populistica di meno partiti e più governo; espressamente agitata come spada capace di tagliare, una volta per tutte, il cappio del partitismo stretto attorno al collo dello Stato; semplicemente evocata come espediente argomentativo utile a vellicare il pelo del pregiudizio antipolitico, un pregiudizio assai radicato nell'opinione pubblica italiana e di recente sdoganato dall'infamante campo del qualunquismo per divenire uno degli attributi del politicamente corretto – versione post-Tangentopoli; dopo insomma una protratta presenza virtuale, l'idea è calata pesantemente sul tavolo della politica.

Sorpresa doppia perché la proposta del partito unico ha contagiato simultaneamente i due schieramenti. È diventata il chiodo fisso di entrambi i candidati-premier. Non conta che la proposta incontri in alcuni settori di entrambe le coalizioni un'accoglienza fredda, in altri addirittura un'esplicita resistenza. Invece di scoraggiarsi, Prodi e Berlusconi si sono convinti ancor più che quella è un'idea vincente. Mentre il Professore è già stato costretto di fatto a rinviare a tempi migliori la sua attuazione, il Cavaliere sembra deciso a bruciare le tappe in vista del prossimo imminente appuntamento elettorale.

Che sia un'idea apprezzabile, si può convenire. Che sia vincente è legittimo nutrire qualche dubbio. Certamente è difficoltosa. Val la pena pertanto di esaminare da vicino tutti gli incagli che la trattengono. Militano anzitutto a favore di uno scetticismo di fondo nei confronti della proposta una serie di obiezioni attinte a quella che un po' enfaticamente potremmo chiamare la “lezione della storia” o, più modestamente, la saggezza tratta dall'esperienza. Prima obiezione: in un paese storicamente malato di partitismo, in un paese per di più refrattario ad ogni cura tanto da aver raddoppiato la sua frammentazione dopo l'energico trattamento subìto col maggioritario, altrove portatore del bipartitismo, avrebbe del miracoloso che si passasse in un batter d'occhio dall'attuale quindicina ad una sola coppia di partiti. Seconda: come dar torto a chi, come Mastella o la Colli, osserva che gli elettori non si appassionano alle beghe sul partito unico, ma piuttosto alle difficoltà del presente ed alle incertezze sul futuro? Terza: l'esperienza anche recente dimostra che, elettoralmente parlando, la somma è sempre minore del totale dei singoli addendi. Quarta: gli accorpamenti di partiti anche prossimi per posizionamento parlamentare e per tradizione politica non sono mai facili, soprattutto non sono mai premianti sul piano elettorale.

Potremmo continuare con le obiezioni che di prammatica si oppongono, e con buona ragione, a qualsiasi più o meno fervido proponente l'unificazione di partiti. Ma queste sono obiezioni che valgono di massima sempre, indifferentemente dalla congiuntura politica del momento e per qualsiasi famiglia di partito, soprattutto nel nostro paese, storico terreno di cultura della militanza e dell'appartenenza di partito. Ma ci sono altre obiezioni: di sistema e di metodo.

Sono rare nella storia delle democrazie occidentali le stagioni propizie alla nascita di nuove formazioni politiche. Perché si rompa la crosta che impedisce l'emersione di nuovi soggetti ci deve essere un qualche sommovimento profondo della società – non importa se economico, culturale, religioso o d'altra natura, come ad esempio un pesante scompenso nella distribuzione del reddito o una grave distorsione delle opportunità economiche di singoli o di ceti, o ancora un'insopportabile penalizzazione di intere aree sociali o territoriali – un sommovimento che favorisca la formazione di nuove soggettività politiche. È allora specificatamente che sorgono imprenditori della politica incentivati ad intercettare la nuova domanda e motivati a dar vita a nuovi partiti.

C'è stato bisogno – per limitarci al caso del nostro paese – che si incubasse la frustrazione di intere generazioni di italiani impedite nella loro autorealizzazione percepita come indissolubilmente legata all'indipendenza della propria nazione perché prendesse forma un partito liberale; che insorgesse “la questione sociale” perché sbocciasse il movimento socialista; che i cattolici si sentissero vittime di un'insopportabile discriminazione culturale e civile perché si mobilitassero politicamente; che si consumasse il trauma militare, civile, sociale e culturale della “grande guerra” perché dal nulla venissero alla luce e, nella sorpresa generale, in meno di un triennio prendessero il potere, le camicie nere.

Ripristinata la democrazia, per cinquant'anni – e che cinquant'anni! – a fronte appunto della rivoluzione sociale, culturale, quasi antropologica compiutasi nel nostro paese sull'onda del “miracolo economico” spicca per contrasto la conferma non solo della mappa politica disegnata all'indomani della guerra ma quasi della sua inossidabilità elettorale, tanto che ancora nel '92 la distribuzione del voto per aree di partito – democristiani, socialisti, comunisti insieme a post-comunisti – risulta non scostarsi molto da quella di mezzo secolo prima, come se nulla di rilevante appunto fosse successo. Non sono mancati nella lunga fase di trasformazioni consumata affacci di nuovi partiti ma questi o sono quasi immediatamente falliti (come il Partito d'azione, ricco d'idee ma poverissimo di voti) o sono stati per così dire riassorbiti (il pensiero va all'Uomo qualunque, ricco di seguito elettorale ma povero di identità tanto da afflosciarsi letteralmente su se stesso alla prima seria prova parlamentare cui è chiamato sul finire del '47 nel corso della quale passa armi e bagagli al campo governativo). Non sono mancate nemmeno esperienze di unificazioni (con i socialisti ripetutamente, e infruttuosamente, protagonisti assoluti) ma queste o sono riuscite largamente al di sotto delle aspettative (classico il caso del Psu, sorto dalla confluenza di Psi e Psdi nel 1966 e prontamente scioltosi tre anni dopo, sull'onda dell'insuccesso elettorale subito nel '68) o sono risultate assai deludenti (come per l'abbraccio dei monarchici con il Msi nel 1972) o non sono mai decollate (protagonisti a più riprese ancora i socialisti, oltre a radicali, liberali e repubblicani).

Non è mancata una grossa eccezione – la Lega Nord – ma in questo caso la regola del sommovimento sociale che deve compiersi alle spalle perché l'emersione di un nuovo soggetto politico abbia possibilità di successo è stata rispettata. La “frattura territoriale” incubata per un secolo e più, da sempre rimasta latente per il predominio di formazioni a forte vocazione nazionale o addirittura internazionale è da ultimo riemersa con forza dando libero sfogo a un mix di sentimenti anti-centralistici e di pregiudizi anti-politici assai radicati in molte aree del Nord per quanto poveri di elaborazione culturale da parte di una classe politica decisa a capitalizzare quel patrimonio potenziale.

Con ciò veniamo direttamente alle novità che preludono all'oggi. Che al tornante degli ultimi anni Novanta si sia rotta la crosta politica e nella voragine sia sprofondato un pezzo sostanzioso del sistema di partiti protagonista del primo cinquantennio repubblicano (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) e che nel tracollo si sia vista collassare almeno l'identità, se non materialmente l'organizzazione, degli altri vecchi partiti sopravvissuti (in particolare quelle del Msi-Dn e del Pci), questo sì, lo si può affermare. Non si può, però, dire che alle nostre spalle si sia consumato nelle viscere della società un terremoto di profondità e di portata analogo a quelli sopra-ricordati. È bene allora partire da questo dato, dalla riflessione sui caratteri di questo limitato ma devastante big bang per considerare a dieci anni di distanza le opportunità concrete e le difficoltà da affrontare nella costruzione di nuovi soggetti politici.

Nel trentennio che sta immediatamente dietro di noi, certo, il volto della società italiana è stato ridisegnato. L'Italia di oggi ha subìto una trasformazione profonda che ne ha alterato alcuni dei suoi caratteri tradizionali. La classe operaia, sia come formazione sociale che come soggetto politico, ha perso terreno e, in gran parte, anche centralità politica. Al suo posto si è fatto largo il ceto medio segnalatosi sia come protagonista di un “nuovo rinascimento economico” sia, e soprattutto, come titolare di un nuovo protagonismo sociale, portatore in proprio di una protesta, se non proprio di una domanda politica. Non sono mancati nemmeno i segni di un bradisismo in atto sotto i piedi della politica che ha portato a delegittimare partiti e sistema dei partiti, ad erodere la loro capacità di rappresentare interessi e di interpretare volontà, offrendo spazi prima impensabili a forme di protesta ed a concrete nuove presenze politiche. Caduta verticale della militanza e della stessa affiliazione partitica, crescente astensionismo elettorale, emersione del fenomeno leghista sono i principali indizi di questo cedimento del sistema politico.

C'è voluta però Tangentopoli, ossia una mazzata della magistratura, perché la rivoluzione politica si compisse: una rivoluzione di natura esogena, non promossa in proprio dalla politica ma dall'esterno. Una rivoluzione di natura esogena nel senso che l'iniziativa è venuta da un potere per definizione non politico, per di più con intenti espressamente bellicosi; ma esogena anche nel senso che non si è attuata in forza di una cultura elaborata all'interno del mondo politico, capace alla fine di esprimersi in un nuovo soggetto politico. In altri termini essa ha avuto la forza di decapitare l'intera area dei partiti di governo, ma non di insediare una singola formazione dotata di una cultura, di un'identità e di un programma alternativi. C'è stata l'eliminazione della tradizionale “offerta” politica, non la strutturazione di una nuova “domanda”, che è rimasta in parte latente, in parte per così dire virtuale, senza riuscire cioè ad emergere con un profilo definito e con un piglio da protagonista. La stabilizzazione si è attuata in tal modo in ragione di una semplice operazione di marketing attuata da un imprenditore che ha operato con successo sulla politica l'intervento che di norma si attua in economia quando c'è una domanda sul mercato non soddisfatta. Non ha creato insomma una nuova domanda. Ha predisposto con grande prontezza, sì, ma si è limitato a questo, un mix di personale, di organizzazione, di rappresentanza che erano venuti a mancare ad un elettorato rimasto orfano della sua rappresentanza.

Molti degli ingredienti utili a dar corpo ad una nuova domanda politica non mancavano. Venivano da lontano, da quella rivoluzione silenziosa che ha portato la società italiana a conformarsi alla cosiddetta cultura post-materialistica: una cultura propria di una società post-fordista, contraddistinta da un'aspirazione ad una nuova qualità della vita, all'autorealizzazione, al riconoscimento dei diritti e dei meriti individuali, alla promozione di un'etica civica della responsabilità e della partecipazione non mediata dai partiti. Perché tale domanda si strutturasse e un nuovo partito riuscisse nell'impresa di ridisegnare la geografia elettorale di un intero segmento dello spettro politico riassorbendo al proprio interno vecchie presenze e magari costringendo le altre a fare i conti con la propria iniziativa, c'era bisogno di un lungo e poderoso lavoro di definizione e di elaborazione.

È dopo un terremoto che agli urbanisti si presenta l'occasione irripetibile di ripensare una città. Molto più difficile coltivare questa ambizione a ricostruzione compiuta. Fuor di metafora, per quanto il terremoto politico dei primi anni Novanta fosse mancante di una spinta irresistibile normalmente operante quando si mettono in moto sommovimenti profondi della società, per quanto esso sia avvenuto senza che nel territorio sottostante si fossero profilate vere soggettività sociali e, tanto meno, politiche (Lega a parte) ma solo suggestioni informali, per il solo fatto di aver fatto franare gran parte dei partiti e del sistema partitico repubblicano, aveva permesso ad umori (su tutti la polemica antipartitocratica), a rivendicazioni (a partire dalla richiesta di un sollievo fiscale), ad orientamenti (come “meno Stato più mercato”), persino ad interessi in parte già conformati (per tutti “il popolo delle partite iva”) latenti da tempo, di venire alla luce. E con ciò implicitamente aveva tracciato le linee di una possibile nuova formazione politica. C'era bisogno di architetti in grado di dar forma e forza a quella potenzialità.

A dire il vero, Forza Italia al suo sorgere nutrì un proposito ambizioso sia politico che organizzativo: dar vita a quello che nella storia d'Italia non c'è mai stato (e, a dire il vero, non si è mai tentato di fare seriamente), e cioè ad una “grande destra”, leale alle istituzioni ed integrata nell'Occidente, fautrice di un alleggerimento del fardello pubblico e di una modernizzazione economica, una grande destra chiamata ora partito liberale di massa ora partito dei moderati ora partito conservatore. Inadempienze e insufficienze soggettive dei suoi dirigenti a parte, sulla strada di un partito nuovo, capace di fondere l'esistente e di diventare protagonista assoluto di uno dei due poli dell'erigenda democrazia dell'alternanza si frapponevano comunque alcuni gravi ostacoli.

Nell'immediato ostava la presenza di agguerriti antagonisti. Una presenza antica e tenace – il Msi-Dn – che per quanto, anzi proprio perché prontamente rifondato, diventava sì spendibile ad una politica di alleanze ma ostile ad ogni assorbimento. Una presenza molto più recente ma non meno radicata sul territorio e fortificata di una identità agguerrita, per certi versi addirittura anti-sistemica: la Lega Nord. A latere, la presenza di uno spezzone della diaspora democristiana e al proprio interno spezzoni del naufragio dei partiti governativi – altri democristiani e poi socialisti, socialdemocratici, repubblicani – ciascuno con un proprio bagaglio ideale e programmatico.

Dal più lontano passato ereditava un deficit gravissimo di irradiamento nella società, di personale dirigente, di elaborazione culturale. Nell'emergenza si è supplito – e l'operazione ha avuto un successo insperato ed imprevisto, anche dai suoi avversari – con il ricorso ad un personale prestato dal privato – Publitalia in testa – agli slogan, ad una mobilitazione volontaristica informale. In prospettiva c'era da compiere un vasto lavoro insieme di fantasia e di fondazione: un lavoro tanto più impegnativo quanto più si era prolungata nella storia nazionale – anomalia delle anomalie nostrane – la latitanza-ghettizzazione-autoesclusione di una destra strutturata, con tutto il carico di insufficienze, carenze, ritardi che questo passato non può non comportare in fatto di uomini, di competenze, di risorse organizzative, anche solo di presenze, nel vasto ed articolato mosaico di poteri di cui si compone una società complessa. Tra tutte, la sfida più difficile era – e resta – quella di ricomprendere, comporre e superare le molteplici e per certi versi antagoniste culture politiche di riferimento della galassia destra. Ci sono le tante, diverse anime compresenti nell'attuale centrodestra che presentano non pochi problemi di compatibilità: cattolicesimo tradizionalista vs. laicismo, conservatorismo compassionevole vs. liberalismo individualista, statalismo assistenzialista vs. liberismo privatistico, protezionismo delle merci e delle culture vs. liberoscambismo mondialista. Ma soprattutto ci sono almeno quattro culture ormai talmente solidificatesi in identità da farsi forti anche di memorie divise del passato nazionale, senza dire degli interessi sociali e territoriali che ad esse si sono collegati: la statalista/nazionalista tradizionale della destra di matrice nostalgica, la federalista/antiunitaria propria del leghismo settentrionale, la cattolico moderata/repubblicana di stampo democratico-cristiano, infine la liberale/filo-occidentale insieme di ispirazione laica e cattolica.

Al presente, a distanza di dieci anni dello sprofondamento della Prima Repubblica, il progetto di dar vita ad un partito unico della destra è diventato insieme più agevole e più difficile. Più agevole perché nel frattempo esso può disporre di una presenza se non altro sedimentata e collaudata. Più difficile perché, a monte, gli è venuta meno la spinta delle origini che è sempre di grande aiuto per vincere le inevitabili resistenze al cambiamento e, a valle, deve fare i conti con la presenza ormai consolidatasi di soggetti antagonisti che, come tutte le organizzazioni vive e vegete, non vedono di buon occhio la prospettiva di suicidarsi.
Propositi generosi non sono impossibili solo perché ostici. Certo che non si possono coltivare illudendosi di perseguirli ricorrendo a scorciatoie o ad improvvisazioni.

 

Roberto Chiarini, ordinario di Storia dei partiti politici all'Università di Milano. Ha compiuto numerosi studi storici sulla destra in Italia.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006