“Avete una bella
lingua suadente, peccato non parlarne neppure un po’”. Il tassista polacco,
cui faccio questa confidenza in inglese, all’una di notte, nel gelo di una
Stettino buia come la pece, sembra avere afferrato il mio mistero. “Lingua?
Ragazze? Conosco un pub dove incontrare tante ragazze. Vuole?”. Ecco: uno si
arma di taccuino e macchina fotografica e percorre in treno, automobile, bus
le strade sconosciute della Nuova Europa, per raccontarne la vita fuori dai
soliti cliché e, alla fine di tutto, si ritrova al punto di partenza. Il
luogo comune delle ragazze dell’Est disponibili a spolpare uno straniero in
un pub torna per bocca di un assonnato tassista, al quale avrei fatto meglio
a mettere in mano gli zloty indicati dal tassametro per chiudere una banale
conversazione in monosillabi protrattasi sino al cono di luce del mio
albergo.
Stettino sarà pure famosa per un pugno di ragazze che sbarcano il lunario in
un pub. Ma il mistero per cui un giornalista italiano abbandona i tepori di
una Berlino ancora ubriaca dalle bollicine di capodanno e si spinge fino ai
meno dodici gradi dell’inverno baltico, è tutto in una frase pronunciata da
Sir Winston Churchill, poco dopo la seconda guerra mondiale, nel marzo del
1946 a Fulton, in Missuri. “Da Stettino nel Mar Baltico a Trieste
nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa sul Continente”. Quella cortina
di ferro, fatta di filo spinato, vite spezzate, amori divisi, passioni
separate, ha segnato la vita della nostra gioventù fino al giorno in cui, il
9 novembre 1989, tutto finì d’un colpo: giù il Muro a Berlino, giù il filo
spinato lungo i confini tra le due Europe della Guerra Fredda. Quindici anni
dopo si aprono anche le ultime frontiere e l’altra metà del Continente si
unisce alla nostra in un abbraccio politico denso di retorica e foriero a un
tempo di speranze e preoccupazioni.
Viaggiando senza confini
Per questo si è deciso di far partire il viaggio nella Nuova Europa da
Stettino e l’assenza del filo spinato è il viatico migliore per addentrarsi
nelle terre dei vicini ritrovati. Ogni qual volta le durezze della
transizione metteranno in dubbio il processo politico avviato nel 1989,
basterà ricordare ai lettori l’atmosfera da prigione che si viveva di fronte
ad ogni confine della Guerra Fredda: le tre ore passate in angoscioso
silenzio sul treno nella terra di nessuno tra Berlino Est e Berlino Ovest,
nel 1986, con i Vopos che smontavano pezzi di vagone per snidare improbabili
fuggitivi; i militari con cani lupo al guinzaglio che, sulle piattaforme
ferroviarie della Germania Est, controllavano i passeggeri scesi dai treni
giunti dall’Ovest; lo sguardo perduto di un ungherese, compagno occasionale
di viaggio, bloccato nel 1987 al confine tra Ungheria e Austria per
“ulteriori accertamenti”. E poi la notte trascorsa nel 1988 sul treno
Praga-Copenaghen, assieme a una squadra di giovanissimi calciatori
cecoslovacchi diretti in Germania Est per partecipare a un “torneo della
fratellanza”. Parlammo di auto, moto, musica e moda e di quanto guadagnasse
il calciatore che a quei tempi accendeva i sogni di tutti, Maradona: un
mondo di balocchi che svanì appena l’allenatore indicò il cartello della
stazione di Rostock, la città sede del torneo. Scesero mesti, mentre il loro
affabulatore occidentale proseguiva oltrecortina portandosi nello zaino
sogni, balocchi e la maglia azzurra di Dieguito.
Era qui la cortina di ferro
Accadevano anche cose ben più gravi, lungo quei confini, nei decenni
precedenti: tanti tentativi di fuga verso la libertà finiti tragicamente tra
manette e pallottole. Oggi, invece, sulla piccola littorina che parte da
Agermünde, nel Nord-est della Germania, in direzione Stettino la frontiera
quasi non si avverte. Il controllo di polizia è divenuto poco più che una
formalità: un’occhiata distratta al passaporto sul lato tedesco, un
controllo elettronico con tanto di scanner portatile sul lato polacco. Ci
scappa pure un timbro per la vanità del viaggiatore: è ormai raro che alle
frontiere degli Stati dell’ex Europa dell’Est i poliziotti si attardino con
i timbri. Guardo fuori dal finestrino: era qui la cortina di ferro. Oggi non
v’è più traccia di barriere, né di casematte o torri di frontiera o vedette.
Tornano in mente le immagini troppo presto ingiallite dei doganieri
ungheresi, che nell’estate del 1989 tranciavano con le cesoie chilometri e
chilometri di filo spinato, raccolto in rotoli aggrovigliati simili a covoni
di ferro. Adesso l’occhio si perde all’orizzonte tra campi gelati di cereali
e coltivazioni di barbabietole ricoperte da un sottile strato di brina,
senza più capire se quello spaventapasseri che si scorge in lontananza è in
territorio tedesco o polacco.
La dogana più ridicola d’Europa
Confini e frontiere, limes di lacrime e dolore ai tempi della Guerra Fredda,
possono diventare anche luoghi comici, quindici anni dopo. Capita in
Slovacchia, percorrendo la strada statale che da Povazska Bystrica conduce
al confine con la Repubblica Ceca. Pochi chilometri di curve sull’altopiano
che a nord s’inerpica sulla catena dei Monti Tatra, cari a Papa Wojtyla, e a
ovest degrada verso le dolci colline di Moravia. Ad un certo punto una fila
di auto e camion ci obbliga a rallentare, quindi a fermarci. Il cartello
indica duemila metri alla frontiera. Oltre i Tir s’indovina la lunga
barriera degli uffici doganali, con tanto di soldatini compiti che
controllano passaporti, patenti, carte verdi e bagagliai. In questo luogo,
quindici anni fa non c’era nulla e tra qualche anno, quando l’approdo a
Schengen completerà il processo di integrazione dei nuovi membri nella Ue,
non ci sarà più nulla. E’ la barriera doganale più ridicola che si possa
incontrare in tutto il Continente: otto gabbiotti freschi di vernice
sormontati da tetti in lamiera, fari per la notte, casette per l’accoglienza
di doganieri e cambiavalute. Le hanno tirate su in fretta e furia nel 1993,
quando la Cecoslovacchia cessò di esistere, germinando due Stati gemelli, la
ricca Repubblica Ceca e la irrequieta Slovacchia. L’orgoglio nazionalista lo
misuri attraversando questo casello: sguardi accigliati, controlli ruvidi,
mostrine in vista per i poliziotti di frontiera slovacchi; sorrisi, scambio
d’auguri in inglese e certificazione d’italianità sulla fiducia per i
poliziotti cechi. Chi sta meglio, evidentemente, non ha bisogno di mostrare
la faccia feroce.
L’orgoglio baltico
Stettino è l’anticamera del ritrovato orgoglio baltico. Dalla Polonia alla
Lettonia e all’Estonia, da Danzica a Riga e a Tallin(che ogni tanto
rispolvera l’antico nome di Reval), il Mar Baltico ritrova il suo braccio
orientale. Il miracolo ha risvegliato l’attivismo un po’ sopito di Svezia e
Finlandia e ha rimesso in moto l’economia dei porti tedeschi, da Amburgo a
Lubecca, da Rostock a Stralsund. La modernità, in Europa, si nutre di
passato e nelle librerie antiquarie dei porti polacchi e lettoni è tutto un
rifiorire di pubblicazioni sulla Lega anseatica, di mappe d’epoca o di
riproduzioni che testimoniano la ricchezza dei commerci baltici e la gelosa
autonomia delle sue città. Più ti avvicini alla Russia e più il passato
torna prepotentemente a ricostruire scenari, appartenenze, identità.
L’Unione Europea e la Nato sono oggi per le Repubbliche baltiche quello che
fu nel Trecento la Lega anseatica: la casa comune dell’Occidente, alla quale
questi popoli sentono di appartenere.
Il miracolo di Tallin
Le torri di Tallin raccontano questa storia e guardano fiduciose verso nord
e verso ovest, in direzione di Finlandia, Svezia e Germania. Dalla
Scandinavia è arrivata la cambiale in bianco che i dirigenti estoni hanno
saputo incassare: in pochi anni hanno rimesso in moto la piccola repubblica,
curando la malata economia statalizzata con dosi da cavallo di libero
mercato. Nessun altro paese del vecchio blocco orientale ha riformato così
in fretta e così in profondità: e nessun paese è cresciuto tanto
rapidamente. L’Estonia avrebbe avuto le carte in regola per entrare in
Europa già anni fa: l’apertura del mercato ha attirato l’interesse degli
investitori stranieri, il sostenuto livello di crescita quello degli
economisti. Svedesi e finlandesi hanno allungato le loro reti digitali, i
tedeschi le rotte commerciali. L’Estonia ha rafforzato la propria leadership
all’interno delle tre Repubbliche post-sovietiche trainando l’intera area
verso Bruxelles. Orgoglio, indipendenza, attivismo, modernità sembrano
essere i marchi storici dell’impresa baltica: la Lega anseatica del
Ventunesimo secolo è salpata, spostando verso nord-est il baricentro
dell’Europa, quella Nuova e quella Vecchia.
Sulle strade della Mitteleuropa
Più a sud non stanno proprio a guardare. Se il Baltico rinasce sulla memoria
dell’epopea anseatica, l’Europa di mezzo risorge su quella della
Mitteleuropa. Spazi austeri, case linde, odore di pulito, vociare sommesso:
benvenuti a Veszprem, nel cuore della Pannonia. A una manciata di chilometri
dal carnaio del lago Balaton, la Rimini ungherese dove le famiglie tedesche
dell’Est e dell’Ovest s’incontravano d’estate approfittando del più
tollerante comunismo kadariano, una collina si staglia netta dal mare di
spighe di grano. Lassù, isolata e algida, s’è arroccata Veszprem, cittadina
medievale che un recente restauro ha restituito all’ammirazione dei
visitatori. Stradine acciottolate, torri panoramiche, palazzi imbiancati e
chiese barocche fanno di questo centro, ancora poco battuto dal turismo di
massa, una vera e propria perla che simboleggia la laboriosità del popolo
ungherese. Gente solida che non perde occasione per rimarcare l’antica
appartenenza a uno spazio geopolitico e culturale: l’Europa, loro, ce
l’hanno nel sangue da sempre.
La memoria di Budapest
Provare per credere: Budapest, l’impero austro-ungarico, la grande
tradizione ebraica, la musica etnica con artisti che hanno segnato la scena
folk continentale, Irén Lovász, Ferenc Sánta, Márta Sebestyén, Ferenc Tobak
e le sonorità gioiose o malinconiche della musica gitana. Il 1956, la
rivolta di Budapest, il popolo in armi sceso per le strade a combattere il
comunismo in nome di un Occidente che non arrivò mai. Il ricordo di quei
morti e di quelle giornate è sobrio, senza eccessi: qualche lapide nel
centro commerciale, lumini accesi nei giorni dell’anniversario, memoriali e
bandiere nei pressi del bel palazzo del Parlamento, che si specchia bianco e
merlato nelle acque placide del Danubio.
Il padre di tutti i fiumi
Il fiume d’Europa accompagna l’ascesa di Budapest al rango delle grandi
capitali del Continente. Il ponte delle catene, che lo solca con solida
eleganza, legando la metà storica di Buda con quella più moderna e
commerciale di Pest, osserva sfilare i bateau mouche illuminati, traboccanti
di turisti sognanti. L’Ungheria era già pronta a cavalcare il mercato prima
che il comunismo al goulash inventato da queste parti implodesse senza
lasciare rimpianti. Oggi Budapest offre il volto chic di una sontuosa
capitale d’Occidente: gli alberghi lussuosi hanno occupato i più bei palazzi
del lungofiume e le catene multinazionali del Four Season o del Marriott
gareggiano con hotel di charme come lo storico Geller, che per reggere il
passo ha da poco restaurato a suon di miliardi la storica sala da bagno
termale. I prezzi sono alle stelle, lo shopping nelle eleganti vie del
centro prosciuga le carte di credito. Per trovare il benessere diffuso alla
classe media, però, bisogna uscire dalla cerchia dorata del centro storico e
imboccare una di quelle autostrade che portano alle città satellite. La
tangenziale è un susseguirsi di centri commerciali e shopping mall delle più
grandi catene francesi, tedesche, svedesi e americane. Vestiti, arredamento,
alimentari, computer, elettrodomestici, tutto è in vendita per la gioia
degli ungheresi che accorrono a frotte per partecipare alla grande sagra del
consumo. Non c’è nulla da spiegare a questa gente, il capitalismo lo hanno
nel dna, ancora pochi anni e da queste parti cominceranno a guardare tutti
dall’alto in basso.
Quanto è trendy Praga
La vulgata radical-chic ci ha raccontato in questi anni una Praga devastata
dall’orda capitalistica che l’avrebbe trasformata in una Disneyland a cielo
aperto, a uso e consumo del turismo di massa. Non ci sarebbe più quella
dolce e malinconica atmosfera dei tempi andati, salvaguardata dalla
glaciazione dell’era comunista una volta tanto benefica, soppiantata dalla
frenesia dei grupponi di viaggiatori mordi e fuggi, dei fast food e dei
negozi di souvenir, così uguali a quelli di tante altre città. E invece le
uniche devastazioni sono quelle lasciate dalla spaventosa alluvione
dell’estate 2002, quando l’acqua tracimò dai timidi argini della Moldava e
invase strade, piazze e palazzi. In un anno, però, la città è risorta: i
carpentieri hanno rimesso in piedi le mura, gli imbianchini hanno restituito
colore e lucentezza alle facciate scrostate dall’umidità e Praga ha ripreso
il suo volto elegante di sempre come una dama vestita a festa nel giorno del
suo matrimonio. Altro che malinconia perduta, Praga ha ritrovato il suo
posto nel cuore dell’Europa. Non assomiglia più a quella cartolina falsa e
ingiallita di capitale degli anni Quaranta: in verità il comunismo, lungi
dal preservarne la vera anima, aveva soltando depositato un velo spesso di
polvere sulla sua vita e sulla sua vitalità.
Le migliaia di giovani europei, che l’hanno eletta a nuova capitale trendy
del Continente, ciabattano su e giù per gli stradoni di Piazza San
Venceslao, sfiorando la lapide che commemora l’altro Sessantotto, quello di
Jan Palach e del suo martirio contro i carri armati che soffocarono la
Primavera di Praga. è qui la nuova movida d’Europa, zaino in spalla e
capelli lunghi, come detta la moda un po’ retrò di questo inizio secolo,
musica rock e concerti sinfonici, birra in piazza e caffè nei bistro. Tutto
e il suo contrario, senz’altra ideologia che quella di vivere il presente e
goderselo fino all’ultimo secondo e anche un po’ oltre. Le casette con le
prostitute sono scomparse, al loro posto bed and breakfast a prezzi da
capogiro, trovare una stanza a buon mercato è un’impresa mentre le ragazze
ti guardano con quell’aria un po’ altezzosa di chi la sa ormai lunga e ha
capito che il mondo gira dalla loro parte. Un’esplosione vitale che investe
anche altre capitali vicine. Bratislava è invasa dai giovani che d’estate
prendono d’assalto fino a notte fonda i caffè all’aperto sui viali
principali. Resta l’aria indolente di una piccola capitale della provincia
meridionale dell’impero, accarezzata dal Danubio solcato dalle navi da
crociera tedesche, ma l’atmosfera è frizzante, il vociare incalzante, la
chiacchiera coinvolgente. Nelle piazze del centro le gru meccaniche
celebrano la ricostruzione urbanistica del distretto commerciale: banche,
istituti finanziari, catene alberghiere internazionali innalzano i loro
templi immobiliari scommettendo sul successo di questa città adagiata sulla
rotta fluviale Vienna-Budapest.
La ricostruzione di Varsavia
Mille chilometri più a nord, nella steppa polacca, stesse gru, stesse
impalcature, stessa frenetica attività per la rinascita di Varsavia. Il
centro storico strappato all’oblio voluto dai nazisti, ricostruito pezzo per
pezzo dalla rinomata maestria polacca seguendo la traccia fornita da foto
d’epoca, mattone su mattone. Il quartiere universitario, brulicante di
librerie taverne e caffè a basso prezzo, battuto da alternativi e
intellettuali finalmente liberi di dire la loro. O il nuovo salotto
commerciale, Novi Swiat, la via dello shopping elegante con i negozi alla
moda frequentati dalle dame della società affluente, nuovi ricchi e vecchi
boiardi sopravvissuti all’impatto con il capitalismo. Per ora l’Est si gode
la festa, snobba il vicino Occidente, corre senza freni verso una modernità
a lungo desiderata. Bruxelles è lontana, con le sue supponenze e la sua
prosopopea. Questa parte d’Europa chiede a gran voce di essere conosciuta.
Frequentata. Vissuta. E giudicata senza più pregiudizi.
Pierluigi Mennitti, giornalista, direttore di Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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