Garantire il bene comune
di Angelo Panebianco
Ideazione di
luglio-agosto 2000

Faziosità e propensione a dipingere l’avversario in modo caricaturale caratterizzano spesso le dispute intellettuali. Tali caratteri hanno certamente permeato i dibattiti degli anni scorsi fra “comunitaristi” e “liberali” (negli Stati Uniti, terra di origine, ma anche in Europa). Né diversamente vanno le cose nel caso dell’altro dibattito di moda nella filosofia politica (per molti versi connesso al precedente) fra “repubblicani” e “liberali”. È uno dei molti meriti del libro di Sergio Belardinelli, La comunità liberale, di sgomberare il campo da tali faziosità. Collegandosi alla grande tradizione classica del liberalismo, quella che, come Belardinelli ricorda, era ben consapevole delle proprie radici cristiane, ispirandosi all’Illuminismo scozzese, a Tocqueville e a Lord Acton (e a Hayek fra i contemporanei), Belardinelli mostra quanto siano inconsistenti e sterili molte di queste dispute. Poiché il liberalismo classico non è mai stato “anti-comunitario” e la sua affermazione dei diritti individuali di libertà (basti pensare alle celebri pagine conclusive di La democrazia in America) non è mai degenerata in apologia dell’individuo “atomizzato”, senza radici né legami, chiuso o disinteressato a qualunque idea di bene comune.

A conferma di ciò possiamo anche osservare che se la libertà “liberale” è certamente più collocabile, nei termini delle celebri tesi di Isaiah Berlin, sul versante della “libertà negativa” – la libertà come assenza di impedimenti – che su quello della “libertà positiva”, è anche vero che una volta che si siano dati carne e sangue a tale “libertà negativa”, una volta che la si sia sociologicamente e storicamente collocata, ci si accorge subito che essa non potrebbe mai sussistere (senza rapidamente degenerare in altro, nella hobbesiana libertà naturale) se non in certe condizioni: di reciproco riconoscimento e rispetto fra individui liberi, consapevoli dei propri diritti ma anche dei propri legami e dei propri doveri. Ne La comunità liberale lo studioso di Luhmann e, più in generale, della teoria sociale contemporanea, usa il liberalismo classico come fonte di ispirazione per l’esame di alcuni dei nodi cruciali intorno a cui si giocano (si guadagnano o si perdono) le possibilità di una convivenza rispettosa delle libertà in condizioni di complessità sociale. Così facendo contribuisce a illuminare i principali dilemmi (si tratti di famiglia, di istituzioni educative, di Stato sociale o di sfida del multiculturalismo), che attanagliano oggi le nostre società occidentali, mostra come le diverse sfide ci mettano spesso di fronte a scelte assai penose (penose perché siamo continuamente chiamati a inventare percorsi, a volte riuscendoci e a volte no, che non sacrifichino i legami alla libertà o viceversa), e suggerisce, più che indicare, soluzioni, sempre peraltro in modo misurato e realistico, nei casi in cui una qualche soluzione “ragionevole” appaia disponibile.

Spenderò qualche parola sul problema delle istituzioni politiche, poiché è certo che una (potenziale) “comunità liberale” non avrebbe alcuna possibilità di sussistenza senza essere garantita dalla presenza di istituzioni politiche adeguate. Non è l’unico punto di sofferenza di molte società occidentali ma è certamente un punto cruciale. Sappiamo che uno degli sviluppi più drammatici, che si manifesta in modi diversi a seconda delle specificità nazionali, e che mette a repentaglio la convivenza liberale, è senz’altro connesso alla erosione della “credenza nella legittimità”, direbbe Weber, delle istituzioni politiche liberali, alla loro perdita di autorevolezza, alla loro crescente incapacità di garantire un minimo di certezza del diritto, agli ostacoli che incontrano, sotto l’incalzare di sfide di varia natura (progresso tecnologico, impulsi del tipo “tirannia delle maggioranze”, eccetera) nella tutela dei diritti individuali. Per non parlare del più generale problema legato all’incertezza, in tempi detti di globalizzazione, su “chi ormai ha il potere di decidere cosa” (la questione della sovranità).

Se ne parla abitualmente sotto l’etichetta “crisi della politica”. Ma bisogna intendersi. Sarebbe assurdo, e comunque prematuro, secondo me, parlare di crisi della “democrazia”: la democrazia, intesa come formula politica basata sul principio della sovranità popolare, ancorché sfidata dai processi di internazionalizzazione dell’economia, non è realmente in discussione, nessuno la contesta, tutti si inchinano di fronte ad essa, perfino di fronte ai suoi aspetti meno piacevoli, più apertamente volgari. È invece la dimensione “liberale” delle istituzioni politiche quella più sfidata, quella più a rischio. Ed è sfidata quotidianamente, nella pratica delle democrazie esistenti, dalla continua tentazione di soluzioni illiberali, demagogicamente efficaci, per i problemi pubblici, vecchi e nuovi. Così come è sfidata sul piano teorico. Proprio perché, come ricorda Belardinelli, quella liberale è una proposta “fredda” che parla alla ragione ma non scalda i cuori, il tradizionale antiliberalismo occidentale resiste sotto nuove spoglie. Pur ammirando in taluni casi (Skinner, Pettit) la raffinatezza e la dottrina con cui vengono confezionati i nuovi contenitori delle vecchie idee, penso francamente che di questo tipo sia buona parte di ciò che passa oggi per “repubblicanesimo”.

Difficile non scorgere, tra una citazione di Cicerone e una di Machiavelli o di Rousseau, tra una disquisizione e l’altra sulla “libertà come assenza di dominio” la vecchia domanda di una regolamentazione minuziosa, asfissiante, che, gira e volta, solo lo Stato può assicurare, di tutti gli aspetti della vita sociale, riguardino essi l’ufficio, la fabbrica, il letto matrimoniale, o una gita sociale all’aria aperta: dal momento che rapporti di potere (o dominio) sono presenti sempre, in ogni tipo di interazione sociale, come assicurare davvero la libertà intesa, niente meno, come “assenza di dominio” senza eliminare la libertà tout court? È in qualche modo il grande paradosso della nostra età: la grande espansione dei compiti dello Stato che si è realizzata nel secolo testè trascorso, in gran parte sotto l’impulso e il pungolo dei pubblici delle democrazie di massa, ha finito per minarne l’efficienza e, contemporaneamente, per erodere molti dei paletti che la tradizione liberale ci aveva consegnato a salvaguardia delle libertà. La perdita di efficienza e di autorevolezza delle istituzioni, a sua volta, diventa il pretesto per chiedere aumenti di regolamentazione in sempre nuovi ambiti della vita associata, che finiscono per aggravare ulteriormente la crisi di efficienza e quella di legittimità.

In realtà, quando si pretende che una istituzione faccia troppe cose, alla fine le farà male tutte, e ne ricaverà disprezzo generalizzato. Da qui anche, almeno in parte, la crisi delle istituzioni liberali, e il diffondersi di un atteggiamento puramente strumentale nei confronti di tali istituzioni (così come di qualunque altra istituzione): se serve il mio interesse immediato ne rispetto le regole, altrimenti no. La crisi delle istituzioni liberali, in altre parole, accresce i costi di transazione, diffonde atteggiamenti opportunistici, incoraggia il free-riding, e, secondo le logiche del feedback positivo, questi fenomeni ne accentuano la crisi. Per questo resto fermo nell’idea che la ricetta liberale dello Stato minimo sia decisamente migliore di quella “repubblicana”. Il problema, d’altra parte, non è, come pensano certi estremisti anarco-liberali, quello di eliminare il governo. Il problema è di ricondurlo a fare poche, essenziali, cose. Se le istituzioni tornano a fare poche cose, è possibile anche che, prima o poi, tornino a farle bene. E se le istituzioni tornano a fare bene il poco (ma essenziale) che loro compete, anche i cittadini possono col tempo autoeducarsi ad un atteggiamento meno strumentale e predatorio nei loro confronti. A lungo andare, alcuni di loro potrebbero perfino riscoprire il piacere (repubblicano?) che si può trarre dal prestare una qualche attenzione alle questioni del bene comune.

 

 

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