Faziosità e
propensione a dipingere l’avversario in modo caricaturale caratterizzano
spesso le dispute intellettuali. Tali caratteri hanno certamente permeato i
dibattiti degli anni scorsi fra “comunitaristi” e “liberali” (negli Stati
Uniti, terra di origine, ma anche in Europa). Né diversamente vanno le cose
nel caso dell’altro dibattito di moda nella filosofia politica (per molti
versi connesso al precedente) fra “repubblicani” e “liberali”. È uno dei
molti meriti del libro di Sergio Belardinelli, La comunità liberale, di
sgomberare il campo da tali faziosità. Collegandosi alla grande tradizione
classica del liberalismo, quella che, come Belardinelli ricorda, era ben
consapevole delle proprie radici cristiane, ispirandosi all’Illuminismo
scozzese, a Tocqueville e a Lord Acton (e a Hayek fra i contemporanei),
Belardinelli mostra quanto siano inconsistenti e sterili molte di queste
dispute. Poiché il liberalismo classico non è mai stato “anti-comunitario” e
la sua affermazione dei diritti individuali di libertà (basti pensare alle
celebri pagine conclusive di La democrazia in America) non è mai degenerata
in apologia dell’individuo “atomizzato”, senza radici né legami, chiuso o
disinteressato a qualunque idea di bene comune.
A conferma di ciò
possiamo anche osservare che se la libertà “liberale” è certamente più
collocabile, nei termini delle celebri tesi di Isaiah Berlin, sul versante
della “libertà negativa” – la libertà come assenza di impedimenti – che su
quello della “libertà positiva”, è anche vero che una volta che si siano
dati carne e sangue a tale “libertà negativa”, una volta che la si sia
sociologicamente e storicamente collocata, ci si accorge subito che essa non
potrebbe mai sussistere (senza rapidamente degenerare in altro, nella
hobbesiana libertà naturale) se non in certe condizioni: di reciproco
riconoscimento e rispetto fra individui liberi, consapevoli dei propri
diritti ma anche dei propri legami e dei propri doveri. Ne La comunità
liberale lo studioso di Luhmann e, più in generale, della teoria sociale
contemporanea, usa il liberalismo classico come fonte di ispirazione per
l’esame di alcuni dei nodi cruciali intorno a cui si giocano (si guadagnano
o si perdono) le possibilità di una convivenza rispettosa delle libertà in
condizioni di complessità sociale. Così facendo contribuisce a illuminare i
principali dilemmi (si tratti di famiglia, di istituzioni educative, di
Stato sociale o di sfida del multiculturalismo), che attanagliano oggi le
nostre società occidentali, mostra come le diverse sfide ci mettano spesso
di fronte a scelte assai penose (penose perché siamo continuamente chiamati
a inventare percorsi, a volte riuscendoci e a volte no, che non sacrifichino
i legami alla libertà o viceversa), e suggerisce, più che indicare,
soluzioni, sempre peraltro in modo misurato e realistico, nei casi in cui
una qualche soluzione “ragionevole” appaia disponibile.
Spenderò qualche
parola sul problema delle istituzioni politiche, poiché è certo che una
(potenziale) “comunità liberale” non avrebbe alcuna possibilità di
sussistenza senza essere garantita dalla presenza di istituzioni politiche
adeguate. Non è l’unico punto di sofferenza di molte società occidentali ma
è certamente un punto cruciale. Sappiamo che uno degli sviluppi più
drammatici, che si manifesta in modi diversi a seconda delle specificità
nazionali, e che mette a repentaglio la convivenza liberale, è senz’altro
connesso alla erosione della “credenza nella legittimità”, direbbe Weber,
delle istituzioni politiche liberali, alla loro perdita di autorevolezza,
alla loro crescente incapacità di garantire un minimo di certezza del
diritto, agli ostacoli che incontrano, sotto l’incalzare di sfide di varia
natura (progresso tecnologico, impulsi del tipo “tirannia delle
maggioranze”, eccetera) nella tutela dei diritti individuali. Per non
parlare del più generale problema legato all’incertezza, in tempi detti di
globalizzazione, su “chi ormai ha il potere di decidere cosa” (la questione
della sovranità).
Se ne parla
abitualmente sotto l’etichetta “crisi della politica”. Ma bisogna
intendersi. Sarebbe assurdo, e comunque prematuro, secondo me, parlare di
crisi della “democrazia”: la democrazia, intesa come formula politica basata
sul principio della sovranità popolare, ancorché sfidata dai processi di
internazionalizzazione dell’economia, non è realmente in discussione,
nessuno la contesta, tutti si inchinano di fronte ad essa, perfino di fronte
ai suoi aspetti meno piacevoli, più apertamente volgari. È invece la
dimensione “liberale” delle istituzioni politiche quella più sfidata, quella
più a rischio. Ed è sfidata quotidianamente, nella pratica delle democrazie
esistenti, dalla continua tentazione di soluzioni illiberali,
demagogicamente efficaci, per i problemi pubblici, vecchi e nuovi. Così come
è sfidata sul piano teorico. Proprio perché, come ricorda Belardinelli,
quella liberale è una proposta “fredda” che parla alla ragione ma non scalda
i cuori, il tradizionale antiliberalismo occidentale resiste sotto nuove
spoglie. Pur ammirando in taluni casi (Skinner, Pettit) la raffinatezza e la
dottrina con cui vengono confezionati i nuovi contenitori delle vecchie
idee, penso francamente che di questo tipo sia buona parte di ciò che passa
oggi per “repubblicanesimo”.
Difficile non
scorgere, tra una citazione di Cicerone e una di Machiavelli o di Rousseau,
tra una disquisizione e l’altra sulla “libertà come assenza di dominio” la
vecchia domanda di una regolamentazione minuziosa, asfissiante, che, gira e
volta, solo lo Stato può assicurare, di tutti gli aspetti della vita
sociale, riguardino essi l’ufficio, la fabbrica, il letto matrimoniale, o
una gita sociale all’aria aperta: dal momento che rapporti di potere (o
dominio) sono presenti sempre, in ogni tipo di interazione sociale, come
assicurare davvero la libertà intesa, niente meno, come “assenza di dominio”
senza eliminare la libertà tout court? È in qualche modo il grande paradosso
della nostra età: la grande espansione dei compiti dello Stato che si è
realizzata nel secolo testè trascorso, in gran parte sotto l’impulso e il
pungolo dei pubblici delle democrazie di massa, ha finito per minarne
l’efficienza e, contemporaneamente, per erodere molti dei paletti che la
tradizione liberale ci aveva consegnato a salvaguardia delle libertà. La
perdita di efficienza e di autorevolezza delle istituzioni, a sua volta,
diventa il pretesto per chiedere aumenti di regolamentazione in sempre nuovi
ambiti della vita associata, che finiscono per aggravare ulteriormente la
crisi di efficienza e quella di legittimità.
In realtà, quando si
pretende che una istituzione faccia troppe cose, alla fine le farà male
tutte, e ne ricaverà disprezzo generalizzato. Da qui anche, almeno in parte,
la crisi delle istituzioni liberali, e il diffondersi di un atteggiamento
puramente strumentale nei confronti di tali istituzioni (così come di
qualunque altra istituzione): se serve il mio interesse immediato ne
rispetto le regole, altrimenti no. La crisi delle istituzioni liberali, in
altre parole, accresce i costi di transazione, diffonde atteggiamenti
opportunistici, incoraggia il free-riding, e, secondo le logiche del
feedback positivo, questi fenomeni ne accentuano la crisi. Per questo resto
fermo nell’idea che la ricetta liberale dello Stato minimo sia decisamente
migliore di quella “repubblicana”. Il problema, d’altra parte, non è, come
pensano certi estremisti anarco-liberali, quello di eliminare il governo. Il
problema è di ricondurlo a fare poche, essenziali, cose. Se le istituzioni
tornano a fare poche cose, è possibile anche che, prima o poi, tornino a
farle bene. E se le istituzioni tornano a fare bene il poco (ma essenziale)
che loro compete, anche i cittadini possono col tempo autoeducarsi ad un
atteggiamento meno strumentale e predatorio nei loro confronti. A lungo
andare, alcuni di loro potrebbero perfino riscoprire il piacere
(repubblicano?) che si può trarre dal prestare una qualche attenzione alle
questioni del bene comune.
(c)
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