L'individualismo comunitario d'America
di Michael Novak
Ideazione di
luglio-agosto 2000

Le istituzioni liberali sono molto più comunitarie di quanto molti pensino. È vero, alcuni pensatori liberali sono eccessivamente individualisti, e nella vita americana vi sono correnti di eccessivo individualismo, come nel Rinascimento italiano e fra i conquistadores dell’America Latina. E tuttavia la vera struttura della vita organizzativa quotidiana negli Stati Uniti ha un aspetto comunitario di cui si prende raramente coscienza. Fino ad oggi il pensiero sociale cattolico non ha colto questa importante realtà. Ed è comprensibile, perché anche molti americani non sono consapevoli del carattere comunitario della vita quotidiana americana. Negli ultimi anni, però, l’inadeguatezza di entrambi i nostri principali partiti politici, sta portando in superficie questa consapevolezza. Negli Stati Uniti, infatti, si fa strada una politica pubblica nuova. Entrambi i partiti si trovano a dover soddisfare necessità, alle quali non rispondono più le loro convinzioni intellettuali tradizionali. Non è per niente chiaro quale partito riuscirà meglio a capire queste nuove necessità e a gestirle. Nessuno dei due partiti può ritornare in toto alle abitudini sorpassate e impraticabili del passato recente. In breve, la politica pubblica che sta emergendo inizia prendendo atto lealmente dell’esistenza di problemi sociali ostinati e riconoscendo che la concezione repubblicana sperimentata di “affidarsi all’individuo” è inadeguata quanto la vetusta convinzione democratica di “lasciar fare allo Stato”. Il pensiero repubblicano in politica pubblica sta diventando meno individualistico e più sociale. Quello dei democratici sta diventando meno statalista, e più incline a rivolgersi ad agenzie sociali diverse dal governo.

Il punto d’incontro di queste due tendenze, che questioni di costi e umanità rendono praticamente inevitabile, è nel concetto delle strutture di mediazione. Siccome questo concetto dipende da due ipotesi sul reale carattere del sistema sociale americano, dobbiamo riflettere sul tipo di personalità realmente promosso dal sistema americano e sul carattere stesso di quel sistema. L’etica inizia in politica, Aristotele ci insegna: l’ethos è forgiato dalla polis. Due luoghi comuni sugli Stati Uniti, spesso condivisi dagli stessi americani, dicono che siamo una nazione di individualisti, con comunità deboli e frammentate, e che siamo un’economia della “libera impresa”, che nel migliore dei casi offre una pallida imitazione delle economie sociali democratiche “miste” di Gran Bretagna e Germania occidentale.

La filosofia pubblica emergente si basa su ipotesi abbastanza diverse. Due di queste possono essere enunciate in maniera succinta: il segreto della psicologia degli americani è che non sono né individualisti né collettivisti; la loro forte tradizione è l’associazione: si organizzano, cooperano e lavorano liberamente insieme. Il sistema sociale degli Stati Uniti è costituito da tre sistemi di istituzioni indipendenti e tuttavia interdipendenti, organizzati lungo assi diverse e persino valori diversi: un sistema politico, un sistema economico, un sistema morale-culturale. La seconda ipotesi necessita alcune spiegazioni. Nella pratica, ciascuno dei tre sistemi che costituiscono il nostro sistema sociale gioca un ruolo importante nel rafforzare e limitare gli altri due. In particolare, uno dei compiti principali del sistema politico è “promuovere il benessere generale”. Il suo ruolo nel promuovere e regolare il commercio e l’industria e nel conferire poteri alle associazioni di cittadini è importantissimo. Il ruolo del sistema economico nell’appagare le aspirazioni materiali di tutti i cittadini, nell’insegnare loro le virtù fondamentali e nel liberarli da obiettivi estetici, religiosi e morali, è indispensabile alla legittimazione del sistema politico. Il sistema americano non è né statalista, né un sistema laissez-faire. In gran parte lo Stato non ha cercato di controllare o di gestire le attività economiche. Ha piuttosto fornito attivamente infrastrutture e condizioni indispensabili che il sistema economico difficilmente avrebbe potuto fornire a se stesso. Questo, poi, suscita la questione centrale dell’economia politica americana: come dovrebbe, in pratica, il sistema americano porsi rispetto alle notevoli capacità americane di associarsi e alla costruzione di istituzioni di mediazione? L’individualismo da solo non è sufficiente e non è conforme al carattere americano. La libera impresa da sola non è sufficiente. Ancora meno uno Stato onnipresente. Frequentemente, discutendo di comunità, gli studenti accettano come modello primario una forma di vita, quella della parentela familiare o del villaggio agricolo, caratteristica delle società premoderne. Questo modello consente loro di parlare del “crollo della comunità”. Perché è evidente che in una società postmoderna le forme precedenti di comunità sono spezzate e aperte. Non segue in maniera altrettanto evidente, però, che l’ideale precedente di comunità rappresenti la forma più alta e che tutte le altre forme debbano essere misurate in base ad essa. Una delle immagini alla base del senso della comunità americano si trova in documenti come The Mayflower Compact. Una consacrata tradizione letteraria e liturgica utilizza l’immagine del patto fra Dio e il suo popolo liberamente scelto che accetta questo come modello originale di questa idea. Il Dio ebreo e cristiano ama per primo gli uomini e viene liberamente amato in risposta. L’ideale di comunità fra Dio e gli uomini, basato sulla libera scelta da entrambe le parti, formò in questo modo l’ideale classico americano della comunità umana.

Paragonate alle società tradizionali del “vecchio mondo”, le comunità del “nuovo mondo” vivono senza dubbio condizioni uniche di sradicamento, mobilità e volontarietà. Gli immigrati hanno dovuto “rompere” con le comunità d’origine per poter costruire nuove comunità in un nuovo paese. Ma, quasi senza eccezioni, hanno costruito nuove comunità, non solo su zone di frontiera ma nei quartieri cittadini. È abbastanza vero che l’enfatizzazione del diritto di ogni individuo a perseguire la felicità personale, all’inizio specificatamente americana, ha indotto una nuova euforia negli individui, istruiti in gran parte a lasciare il seno familiare e a “farsi strada nel mondo”. Forse perché le vecchie comunità avevano legami molto forti, bisognava scatenare grande energia simbolica per incoraggiare i giovani a “staccarsi” dalle famiglie e “farsi strada da soli”. Così il cow-boy, persino il gangster, l’outsider, il solitario, il “Marlboro man”, sono diventati simboli americani forti e caratteristici.

Questo simbolo dell’uomo solitario è stato incarnato nella realtà abbastanza spesso da risultare credibile. E tuttavia, esso racconta solo una piccola parte dell’esperienza americana. A parte il mito, l’individualista americano è fortemente comunitario. Penso che poche culture al mondo promuovano nei loro giovani tanta abitudine alla cooperazione, alla solidarietà, al lavoro di squadra, all’organizzazione e ad altre virtù sociali come quella americana. Tocqueville aveva già notato questa caratteristica nel 1835, una caratteristica forse necessaria per fondare un nuovo continente. Quasi tutti i compiti erano troppo impegnativi per un solo uomo o una sola famiglia. Per sopravvivere era indispensabile cooperare. L’etica associativa dell’ebraismo e del cristianesimo ne ha rafforzato l’importanza. Esiste un paese o una città americana che non abbia il suo premio annuale alla “fratellanza”?

Fraternizzando e associandosi, gli americani non violavano un’etica, piuttosto la rispettavano e non solo per la sopravvivenza fisica, ma anche per quella spirituale. I filosofi americani come Josiah Royce e John Dewey si distinguono a livello internazionale per le loro acute e dettagliate riflessioni sulla centralità della comunità nella vita degli uomini. L’ideale americano della comunità, però, non è mai stato collettivista, incentrato sullo Stato o onniavvolgente. Se, da una parte, gli americani non sono individualisti, essi comunque non apprezzano la totale appartenenza ad una sola istituzione. Non c’è una religione sovrastante alla quale aderiscono tutti. Anche se la lingua inglese e il patrimonio delle istituzioni politiche britanniche hanno dato al paese la sua spina dorsale culturale, non esiste un particolare orizzonte etnico o culturale rigidamente adottato e la stessa cultura comune è plasmata dai continui contributi di molte culture. La proporzione continentale degli Stati Uniti comporta interessi, esperienze e percezioni personali disparati. Lo sviluppo del commercio e dell’industria ha ulteriormente diviso il paese in valori e interessi distinti e competitivi. Il numero delle associazioni di cui fanno parte molti cittadini è sorprendente. Organizzazioni disparate come i veterani di guerre straniere, i Lyons Club, le associazioni genitori-insegnanti, i boy scout, le girl scout, le leghe di atletica e una moltitudine di associazioni di volontari della United Way e tutti i comitati, le organizzazioni e le attività promosse da una moltitudine di Chiese, costringono molti americani a partecipare a riunioni, tenendoli occupati dopo la scuola o il lavoro quasi quanto durante la settimana lavorativa.

Esiste una terza via fra individualismo e collettivismo. Fra l’individualista e il collettivista c’è l’individuo comunitario. Gli americani superano l’individualismo non attaccandosi in tutto allo Stato o a un altro istituto collettivo, ma costruendo diverse associazioni e comunità. Essere chiusi in se stessi, indifferenti agli altri, ostili o freddi non è un ideale americano. Persino manuali come Looking out for number one e Assertiveness Training premettono che imparare tali comportamenti viola l’indole comune.

Grazie alla loro competenza in materia sociale, gli americani sono in grado di affrontare le necessità sociali, superando l’individualismo e lo statalismo. Grazie al rispetto reciproco fra il sistema economico e quello politico, ciascuno con le sue forze e le sue debolezze, gli americani sono in grado di mantenere un governo attivo senza tuttavia designarlo come agenzia principale per la gestione e l’amministrazione di vasti programmi sociali. Un governo esteso deve imparare a cedere quanto più è possibile le attività che implicano la gestione manageriale. Allo stesso tempo deve catalizzare altri enti sociali, aiutandoli a svolgere meglio e in maniera più efficiente i compiti necessari. Il principio americano è di dar modo agli individui di raggiungere la loro indipendenza attraverso gli enti locali. In molti casi il governo ha il compito di offrire all’individuo questa possibilità. Senza di esso sarebbe impossibile liberare molte energie sociali. Così l’ideale americano di economia politica dipende dalla saggezza e dalla forza d’assedio di un governo attivo che deve rimuovere gli ostacoli, fornire assistenza e operarsi per liberare le molteplici energie del settore privato. Un sistema politico che non fa niente non riuscirebbe a “promuovere il benessere generale”. Un sistema politico che fa tutto lo soffocherebbe. Trovare le tecniche che diano davvero potere ai cittadini rappresenta il cuore di una saggia economia politica.

Economia politica
Nei suoi discorsi sullo sviluppo mondiale, il presidente Ronald Reagan ha colto l’occasione per predicare agli altri ciò che aveva funzionato per gli americani: la “magia del mercato”, la libertà, l’inventiva. Emblematiche le sue osservazioni sul ruolo del sistema politico americano nel promuovere lo sviluppo: «Le persone libere creano liberi mercati che innescano uno sviluppo dinamico generalizzato e questa è la chiave, ma non è tutto. Qualcos’altro ci ha aiutato a creare queste opportunità di crescita e di appagamento personale ineguagliate. Un forte senso della cooperazione, la libera associazione fra gli individui, radicata nelle istituzioni della famiglia, la Chiesa, la scuola, la stampa e gruppi di volontari di ogni tipo. Anche il governo ha avuto un ruolo importante. Ha contribuito a sradicare la schiavitù e altre forme di discriminazione. Ha aperto le frontiere facendo cose come l’Homestead Act (legge del 1862 che assegnava ai coloni 160 acri di terra ciascuno per la coltivazione n.d.t.) e la elettrificazione delle zone rurali. Ed ha contribuito a dare una sensazione di sicurezza a coloro che, pur senza averne colpa, non erano in grado di mantenersi. Il governo e le imprese private si completano a vicenda. Hanno continuato e possono e devono continuare a coesistere e cooperare. Ma dobbiamo sempre chiederci: il governo sta lavorando per liberare e dare potere all’individuo? Sta creando incentivi per spingere la gente a produrre, risparmiare, investire a trarre profitto da rischi legittimi e onesti sforzi? Incoraggia ciascuno di noi a tentare di raggiungere l’impossibile? O cerca di obbligare, comandare e costringere la gente alla sottomissione e alla dipendenza?»

La concezione specificatamente americana dell’economia politica non immagina un sistema economico libero da solo, né uno Stato onnicompetente. Nel modello americano – realizzato meglio nella pratica che nella teoria astratta – il sistema politico e quello economico sono distinti, ma sotto molti aspetti anche interdipendenti. Le aziende che forniscono le utenze rappresentano una forma di attività semiprivata e semipubblica. Alcune aziende – capitaneria di porto, l’autorità della Valle del Tenessee, le Poste e molte altre – hanno carattere esclusivamente pubblico, pur non essendo soggette al diretto controllo quotidiano del sistema politico. Senza la regolamentazione del governo, inoltre, mancherebbero quelle regole alla competizione, che consentono di fare un gioco pulito. Elencare tutti i modi in cui il sistema politico modifica, sostiene e regola industrie private di tipo estremamente diverso, ci porterebbe fuori tema. Ma è importante notare che, nella pratica, i rapporti fra il sistema politico americano e il suo dinamico sistema economico nella sua sconcertante diversità sono estremamente complesse. Persino nelle pagine di The Federalist, Madison e Hamilton avevano giustamente compreso che uno dei principali compiti della classe dirigente politica era quello di creare le condizioni adatte ad un’economia fiorente e varia. Dall’altra parte, uno dei compiti principali della classe dirigente imprenditoriale è quello di coltivare i tipi di prosperità, progresso economico, equità e senso della comunità essenziali per una politica democratica. Né la politica né l’economia da sole sono sufficienti. Il capitalismo democratico nella sua concezione non è né socialista né un regime di laissez-faire. È una forma di economia politica, un insieme di sistemi coordinati, non subordinati. Da una parte, lo Stato non cerca di assorbire e alla fine di subordinare l’intera economia. Dall’altra parte, ogni industria o impresa è soggetta a responsabilità politiche espresse da sanzioni giuridiche, usi e autolimitazioni.

È difficile delimitare linee puramente teoriche che indichino i limiti precisi del sistema politico e di quello economico. E tuttavia industria per industria, caso per caso, vi è una costante assegnazione dei diritti e delle responsabilità. È relativamente facile individuare gli errori da entrambe le parti, anche se gli interessati cercano di difendere strenuamente la loro posizione. Quello che non si può negare è che il sistema politico e quello economico, egualmente, hanno ciascuno la loro integrità e la loro zona d’azione, anche se in casi particolari si dibatte appassionatamente sulle dimensioni del campo di gioco.

Comunemente si descrive quello americano come un sistema “misto” che non è una forma pura di capitalismo né di socialismo. A fianco all’espressione “economia politica”, io preferisco metterci “capitalismo democratico”. L’ideale del capitalismo democratico non è un sistema di libere imprese del tutto indipendente o il laissez-faire; né è l’ideale del socialismo democratico. Il capitalismo democratico non è una cosa a metà strada, né un “misto” fra socialismo e laissez-faire. È di diritto un ideale distinto.

Nel pensiero socialista democratico vi è la tendenza a dare allo Stato, o quanto meno al sistema politico, il potere definitivo sul sistema economico. Nel pensiero liberista e laissez-faire vi è la tendenza a subordinare lo Stato al sistema economico e il tessuto sociale alla vita reale dell’individuo solitario. L’ideale del capitalismo democratico, invece, prevede due sistemi coordinati, per alcuni aspetti indipendenti e per altri dipendenti l’uno dall’altro, ma in nessun caso uno subordinato all’altro.

Esiste una serie di problemi che, forse più di altri, dal 1955 in poi hanno spinto il sistema americano verso l’ideale socialista. Sono i problemi della “rete di sicurezza”, raccolti sotto la voce “Stato sociale”. Come al solito di fronte a un problema sociale, alcuni critici si sono rivolti all’individuo, mentre altri si sono rivolti ad un ente statale. Dalla previdenza sociale ai sussidi per le famiglie con figli a carico, dall’assistenza agli handicappati ai sussidi di disoccupazione, le questioni sono state risolte quasi sempre incrementando l’attività dello Stato. Perché, per loro natura, i problemi sociali superano le capacità dell’individuo solitario. Ma questo vuol dire che lo Stato è il più adatto per risolverli in maniera manageriale?

Le strutture di mediazione
È innegabile che una grande società deve affrontare problemi che travolgono l’individuo solo. È innegabile che le soluzioni dei problemi sociali devono essere sociali. Da questo non segue necessariamente che lo Stato è l’unico ente sociale, il più efficiente, il più economico o il più sensibile. Vi sono molti altri enti sociali oltre allo Stato, alcuni già esistenti, alcuni ancora da inventare.

Le dimensioni dell’improvvisa crescita delle spese federali nel settore dello Stato sociale sono impressionanti. Nel 1955 i sussidi federali per i diritti degli individui ammontavano a 20 miliardi di dollari, il 21 per cento dell’intera spesa. Nel 1970 questa cifra aveva raggiunto circa i 70 miliardi di dollari, il 31,8 per cento. Nel 1980 era cresciuta ancora fino a raggiungere i 270 miliardi di dollari, vale a dire il 46 per cento. Le previsioni per il 1984 superano di poco i 400 miliardi di dollari, il 52,7 per cento dell’intera spesa e non è prevedibile che questa escalation si arresti.

Non tutti questi soldi, ovviamente, vanno agli indigenti. Tutti i cittadini pensionati, per esempio, hanno diritto a ricevere i contributi che hanno coscienziosamente pagato durante gli anni lavorativi. E tuttavia, se solo nel 1984 sono stati spesi 400 miliardi per eliminare la povertà, i cittadini possono a ragione chiedersi perché eliminare la povertà costi così tanto. Non esistono metodi più economici e più efficaci?

Supponiamo, per esempio, di accettare la stima estrema secondo la quale 34 milioni di americani senza sussidi vivrebbero al di sotto della soglia di povertà ufficiale per una famiglia di quattro persone non dedita ad attività agricola, cioè 9862 dollari all’anno. Quanto dovrebbe costare, in termini strettamente matematici, fare in modo che tutti i cittadini indigenti ricevano denaro sufficiente a portarli al di sopra di quella soglia? Per semplicità, dividiamo il numero di individui indigenti in unità familiari di quattro persone ciascuna. Il risultato è 8,5 milioni di famiglie. Trasferire direttamente 10.000 dollari a queste famiglie costerebbe circa 85 miliardi di dollari (10.000 dollari moltiplicato per 8,5 milioni di famiglie). In senso strettamente matematico, la povertà si potrebbe eliminare spendendo una piccola parte di quanto si spende attualmente. Il reale “deficit di povertà” nel 1982 – il divario fra quanto il povero realmente guadagna e la cifra necessaria a portare tutti al di sopra della soglia di povertà – era di 45 miliardi di dollari.

Non è per niente scontato, quindi, che le attuali strategie per eliminare la povertà seguano il percorso più diretto, efficace ed economicamente vantaggioso. In realtà esistono forti contraddizioni nelle recenti correnti di pensiero tese ad eliminare la povertà. Da una parte, la povertà viene descritta più facilmente in termini economici: un tot di dollari per una famiglia non agricola di quattro persone. Dall’altra parte, i sussidi del governo sono ideati principalmente per affrontare particolari crisi che possono colpire i cittadini. Vi sono programmi per l’assistenza medica, per i buoni viveri; per famiglie con figli a carico; per integrare l’affitto; e per molti altri pagamenti in contanti e non. Ciascuno di questi programmi ha i suoi criteri, la sua burocrazia, il suo apparato amministrativo e le sue funzioni di automonitoraggio. Qui sorgono due problemi. Primo, misurare i servizi non in denaro, specialmente l’assistenza medica, è estremamente difficile. Secondo, i metodi utilizzati dalle numerose agenzie amministrative costano molto di più dei pagamenti diretti in denaro agli indigenti. Ricevendo direttamente il denaro, costoro potrebbero selezionare meglio – e in maniera molto più indipendente – le loro priorità.

I problemi sociali della povertà sono sufficientemente evidenti. Altrettanto sono le responsabilità della società nell’affrontare questi problemi. Finora abbiamo citato due fattori che sconsigliano di scegliere il governo federale come agenzia per soddisfare queste necessità. Uno è la continua escalation dei costi. L’altra, connessa, riguarda l’efficienza del governo come agenzia per l’attività pratica. Il fattore dei costi impone un principio realistico. Ma è il secondo fattore che incoraggia a cercare altre agenzie, oltre a quelle governative, per svolgere i compiti necessari. Tutti sono d’accordo sul fatto che una buona società dovrebbe offrire una “rete di protezione” ai cittadini meno fortunati. Più volte in Congresso sono stati proposti pagamenti diretti in denaro per gli indigenti, un reddito annuale garantito. Finora, però, questo approccio diretto non è stato adottato.

Quindi è stata presa in considerazione un’altra idea. Se non vengono adottati i trasferimenti in denaro attraverso qualche forma di reddito annuo garantito e se la strategia di ricorrere a numerose agenzie governative per affrontare numerose crisi specifiche causa costi incontrollabili, non esistono altre agenzie sociali in grado di affrontare queste innegabili necessità sociali? In tutte le società esistono molte agenzie sociali oltre allo Stato. Poiché esse mediano fra l’individuo e lo Stato e mitigano la vulnerabilità degli individui lasciati a se stessi, queste agenzie vengono chiamate istituzioni “mediatrici” o “mitigatrici”. Fra esse vi sono le chiese, le scuole, i sindacati, le confraternite, le organizzazioni di quartiere e altre organizzazioni volontarie di ogni sorta.

Sorge quindi la domanda: cosa fa il governo federale per dare potere – o per evirare – queste strutture di mediazione? Questo pericolo di evirazione era stato previsto da Tocqueville: «Al di sopra di questa razza di uomini c’è un potere immenso e tutelare, che da solo si assume il compito di garantire le sue gratificazioni e di vegliare sul suo fato. Questo potere è assoluto, minuzioso, regolare, previdente e dolce. Sarebbe come l’autorità di un genitore se, come quell’autorità, il suo obiettivo fosse quello di preparare gli uomini alla maturità; ma al contrario, cerca di tenerli in un’infanzia perpetua: è ben felice che i cittadini gioiscano, a patto che non pensino ad altro che a gioire. Un governo così lavora volentieri per la loro felicità, ma esige di essere l’unico agente e l’unico arbitro di tale felicità; si preoccupa della loro sicurezza, prevede e provvede alle loro necessità, facilita i loro piaceri, gestisce le loro preoccupazioni principali, dirige i loro affari, regola la discendenza della proprietà e suddivide la loro eredità: cosa rimane se non risparmiare loro tutta la preoccupazione di pensare e il fastidio di vivere?... Il potere supremo, quindi, copre la superficie della società con una rete fitta e uniforme di piccole regole complicate, che le menti più originali e i caratteri più energici non riescono a penetrare per innalzarsi al di sopra della massa. La volontà dell’uomo non viene distrutta, ma ammorbidita, piegata e guidata; esso raramente obbliga gli uomini ad agire, ma ne impedisce costantemente le azioni. Tale potere non distrugge, ma impedisce l’esistenza; non esercita tirannia, ma comprime, snerva, spegne e istupidisce un popolo, finché una nazione si riduce a non essere meglio di un gregge di animali pavidi e industriosi, del quale il governo è il pastore».

Non è possibile che le agenzie sociali del settore privato possano affrontare le necessità sociali in maniera più efficiente, meno costosa e più efficace? Non si potrebbero ridurre i costi se il governo utilizzasse i suoi fondi per consolidare queste organizzazioni non governative, invece di cercare di affrontare tutti i problemi sociali da solo?

Nel contesto pragmatico della vita americana, è probabile che questi programmi inizino a spizzichi, come piccoli esperimenti. Ancora non esiste alcuna grande architettura, anche se la concezione di base guadagna sostenitori. Ecco alcuni esempi di come funzionerebbe questo nuovo approccio.

1. Consideriamo una famiglia con un figlio ritardato. Se il figlio viene ricoverato in un ospedale finanziato dal governo (e in alcuni casi può essere necessario), i costi ammonteranno a 30.000 dollari all’anno o più a persona. Se, invece, la famiglia volesse curare il figlio a casa, sarebbe sufficiente un trasferimento in denaro o un credito fiscale di, per dire, 2.000 dollari. Investiti in un periodo di dieci anni, questi fondi potrebbero servire ad acquistare attrezzature speciali a casa come un attrezzo per lo sviluppo muscolare o altre macchine terapeutiche. Il risparmio per il governo sarebbe enorme. L’affetto generato dall’assistenza familiare, per quanto costoso in termini umani, sarebbe impagabile per tutti quelli coinvolti. Almeno in alcuni casi, inoltre, le parrocchie e altri gruppi sponsorizzano programmi per ritardati e handicappati nelle loro località. Questi programmi sono riusciti a fornire un ambiente quotidiano, a volte offrendo occupazioni retribuite adatte ai partecipanti, di notevole qualità umana, a una frazione del costo della istituzionalizzazione totale. Queste parrocchie e queste agenzie potrebbero a buon diritto richiedere sovvenzioni statali per sostenere le loro spese. Se anche queste sovvenzioni arrivassero a 4.000 dollari annui per ogni handicappato, sarebbe sempre molto meno della istituzionalizzazione completa.

2. Un disegno di legge presentato al Senate Labor e al Comitato per le Risorse Umane permetteva ai contribuenti di scegliere fra un credito o una deduzione fiscale per ogni famiglia che comprendeva una persona a carico di almeno sessantacinque anni. Questo disegno di legge incoraggia le famiglie a prendersi cura dei nonni e degli altri parenti anziani. Dà anche a questi ultimi la soddisfazione di contribuire in maniera significativa al reddito familiare grazie al credito o alla riduzione fiscale. Non tutti gli anziani rientrerebbero in questa categoria, ma un numero significativo sì. Al profondo valore umano di un nucleo familiare multigenerazionale si andrebbe ad aggiungere un forte incentivo. (Sarebbe inoltre fonte una certa assistenza per i bambini per alcune famiglie fortunate).

3. Un altro disegno di legge esenterebbe dalle tasse alcuni fondi d’investimento istituiti a vantaggio dei genitori anziani o di parenti portatori di handicap e offrirebbe una deduzione dei contributi a questi fondi. Sebbene non sia applicabile universalmente, questa possibilità solleverebbe dalle preoccupazioni per la previdenza sociale almeno alcuni milioni di pensionati.

4. Un altro disegno di legge permetterebbe alle aziende, piccole o grandi, di dedurre tutti i contributi diretti a una struttura di assistenza diurna comune per impiegati e datori di lavoro. Una variante di questa disposizione è entrata in vigore con l’Economic Recovery Act del 1981.

5. L’Economic Recovery Act dell’81 permette anche ai coniugi che lavorano di investire i primi 2.000 dollari guadagnati in un conto individuale per la pensione, esente dalle tasse. Accumulando in tutta una vita lavorativa ad interessi composti, questo fondo offre una somma consistente (spesso 100.000 dollari o più) disponibile al momento della pensione. Questa norma ha due importanti effetti sociali. Poiché oggi più della metà di tutte le coppie sposate ha due redditi, molte famiglie possono essere invogliate ad aggiungere somme considerevoli, per loro esentasse, alle risorse nazionali per l’investimento di capitali. Così si incoraggia il risparmio e si riduce la tendenza a fare affidamento esclusivamente sulle pensioni. Entrambi i coniugi accumuleranno considerevoli risparmi per la pensione.

6. In ogni comunità, rurale e urbana, vi sono associazioni o reti private che si occupano di dare da mangiare agli anziani, di svolgere attività controllate per gli adolescenti e cose simili. È stato scoperto che nei periodi di stress, le persone cercano assistenza prima e più frequentemente presso queste reti locali e personali. Inoltre, si riporta un maggiore tasso di soddisfazione quando ci si rivolge a persone già conosciute nel quartiere, nelle parrocchie e nelle confraternite di cui si fa parte. Fornire un sussidio governativo a queste reti e associazioni locali, che già esistono e funzionano con legami emotivi naturali di diverso tipo, rappresenterebbe un utilizzo efficace di tali fondi. I costi sarebbero di gran lunga inferiori a quelli necessari per istituire copie governative degli enti locali.

7. Due decenni fa, il tasso di disoccupazione giovanile fra i bianchi era più alto che fra i neri. Attualmente la disoccupazione fra i giovani neri è notevolmente più alta. I dati vengono spesso espressi in percentuale: “Il 40 (o 50) per cento di giovani neri è disoccupato”. Espresso in numeri, però, la portata del problema appare più evidente. Con fluttuazioni mensili, i dati forniti dal Ministero del Lavoro raggiungono poco meno di 400.000 giovani neri disoccupati. Considerato in termini semplicistici, con un salario minimo di 6.000 dollari all’anno, impiegare questi 400.000 giovani costerebbe complessivamente 2,4 miliardi di dollari all’anno. Non sembra una cosa impossibile per gli americani rendere disponibile almeno parte di questi salari attraverso le istituzioni locali, che potrebbero dare a questi ragazzi un lavoro produttivo.

È mancato il punto di contatto fra il lavoro da svolgere e il disoccupato che vuole svolgerlo. Il settore che è cresciuto più velocemente nell’economia americana è stato quello dei servizi, con tutte le piccole aziende che spuntano come funghi nel settore. Molte di queste aziende sono adatte unicamente a lavoratori giovani. L’80 per cento di tutti i nuovi lavori viene offerto dalle piccole aziende. Non ho in mente il preciso meccanismo che accelererebbe l’assunzione di un maggior numero di giovani neri attualmente disoccupati. Ma sicuramente crediti o deduzioni fiscali adeguati alle piccole imprese e specifici per quel tipo di impiegati potrebbero aumentarne notevolmente il numero. Insieme a una riduzione di lavoro burocratico, così oneroso per le piccole aziende, e specialmente considerando che si tratta di una forza lavoro che è demograficamente e vocazionalmente abbastanza volubile e precaria (molti frequentano ancora le scuole o altre forme varie di transizione comuni alla tarda adolescenza), gli incentivi ideati a questo scopo sembrerebbero promettenti. Istituzioni come le chiese, le biblioteche e le organizzazioni di volontari sarebbero direttamente coinvolte nel compito di ideare occupazioni per gli adolescenti. La guida degli adulti sembra essere ancora più importante per il training attitudinale che per quello per lavori specifici. La questione tecnica è come mettere in grado queste istituzioni di offrire lavoro concreto, visto che molte di esse, svolgendo attività intense, ne hanno davvero bisogno. Il problema dei programmi del Ceta, che hanno tentato di fare qualcosa di simile ma sotto una pesante copertura statale, sono ben noti. La quantità di denaro speso appare sproporzionato rispetto al numero di persone effettivamente messe a lavoro e alla quantità di salari effettivamente retribuiti. La filosofia del Ceta presuppone un alto grado di gestione governativa. Una filosofia che si affidasse maggiormente alle strutture locali di mediazione, attingendo alle risorse statali come un catalizzatore, comporterebbe una concezione tecnicamente diversa.

Coinvolgere molti cittadini nella gestione delle necessità locali è un bene auspicabile. Cosa può fare il governo per stimolare e catalizzare finanziariamente, questo coinvolgimento? Invece di considerare lo Stato l’agenzia di prima e piena responsabilità, possiamo imparare a considerarlo un’agenzia che delega, che non amministra né svolge molti compiti, ma contribuisce a stimolare altre agenzie a farlo? Stephen Roman e Eugen Loebl nel loro stimolante libro, The Responsible Society, offrono un suggerimento interessante. Coscientemente, cercano di considerare il governo come un agente catalizzante piuttosto che manageriale. A questo scopo, il governo potrebbe creare un fondo per alcuni tipi di attività socialmente necessarie, dal quale le istituzioni potrebbero attingere prestiti a tassi d’interesse molto ridotti. (Esistono già programmi di questo tipo per le attività agricole). Quando l’istituzione ripaga questi debiti, il fondo si riempie. Le istituzioni hanno l’onere di rendere le occupazioni che offrono finanziariamente produttive. Si immagini, per esempio, che la parrocchia locale o un’organizzazione di beneficenza prenda in prestito da questo fondo denaro sufficiente per impiegare dieci giovani come intonacatori, pittori, carpentieri e riparatori sotto supervisione, pagandoli un po’ oltre il salario minimo, per restaurare e riparare i suoi locali. In molti quartieri c’è molto lavoro da fare e qualcuno nella comunità sarebbe disposto a pagare almeno una cifra modesta per questi lavori. È possibile che le imprese locali riescano dove le agenzie governative hanno fallito e spendendo meno.

Un altro suggerimento è quello di rivolgersi più seriamente alle Chiese americane. Praticamente non esiste comunità locale o paese senza la sua Chiesa. La maggior parte di queste svolge già attività sociali di vario tipo. Si dice che le Chiese non sono in grado di affrontare da sole problemi sociali vasti e costosi. Non riescono a raccogliere fondi sufficienti. Non hanno tutte le competenze necessarie. Non riescono a gestire adeguatamente funzioni diverse dalle loro. Nessuno, naturalmente, pensa che le chiese debbano diventare le uniche, o anche solo le più importanti, agenzie sociali del paese. Esse sono però una risorsa importantissima, che si fonda sugli ideali e le energie di più di cento milioni di americani. Come possiamo cambiare il nostro modo di porci di fronte alle necessità sociali, facendo sì che le Chiese possano svolgere le loro attività in maniera più efficiente e più estesa di quanto abbiano fatto finora, e farlo meglio e in maniera meno anonima di quanto possa farlo il governo? L’odierna generazione di ecumenismo e cooperazione che supera molte antiche lacune settarie, offre alla nazione una nuova opportunità. L’abitudine a cooperare, coltivata per circa vent’anni, mette queste istituzioni in una nuova luce nella società americana. Cose prima impossibili oggi sembrano almeno possibili. Non possiamo trarre vantaggio dal momento?

Oggi le forze centripete, che tendono a nazionalizzare, sono forti in America. Ma queste forze non riescono a produrre una politica pubblica tagliata su scala umana, né riescono a comprendere a pieno le realtà locali. La gente di un posto conosce meglio le caratteristiche di quel posto, anche se tutti sentono simultaneamente la pressione delle immagini, gli ideali e gli scopi nazionali. La repubblica non è dov’era vent’anni fa. Sono possibili cose nuove. Una politica pubblica universale in una nazione che è un continente, con condizioni climatiche, basi economiche e culture locali diversissime, dà origine ad abusi e ridicoli sul piano locale. Invece una politica pubblica radicata nelle comunità locali, ma catalizzata e assistita nelle sue necessità da una vigile amministrazione nazionale, si adatta meglio al tessuto della realtà odierna. Il governo nazionale da solo non può gestire una comunità nazionale.

L’ideale del capitalismo democratico è di far collaborare in armonia tre sistemi indipendenti e interdipendenti: il sistema politico, quello economico e quello etico-culturale. Le istituzioni etico-culturali come le Chiese, le scuole, le famiglie e la stampa non possono, da sole, affrontare i nostri problemi sociali. Neanche le istituzioni economiche come le grandi corporazioni, i sindacati e le piccole aziende possono farcela da sole. Lo stesso vale per le istituzioni politiche come le agenzie governative. Se il primo errore è stato quello di affidarsi unicamente agli individui e quello successivo di affidarsi troppo allo Stato, la conoscenza di sé suggerisce un nuovo approccio alla politica pubblica, dando potere ad agenzie sociali che non siano lo Stato. Adottando questo sistema gradualmente e pragmaticamente, selezionando cosa funziona e cosa no, potremo portare avanti l’esperimento americano in un modo al tempo stesso originale e coerente con gli ideali sui quali il paese si fonda.

 

(traduzione dall’americano di Barbara Mennitti)

 

© Transaction Publishers - New Brunswick (Usa) and Oxford (Uk) - da: Catholic Social Thought and Liberal Institutions. Freedom with Justice.

(per gentile concessione dell’autore)

 

Michael Novak, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali presso l’American Enterprise Institute a Washington.

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