Sono passati poco più di
quattro anni dalla scomparsa di Renzo De Felice, un tempo più che
sufficiente, quantomeno sulla carta, per avviare un bilancio
equilibrato, e come tale necessariamente critico, sulla sua imponente opera
di storico del fascismo italiano. Così, in realtà, non è stato, se non in
maniera ancora molto approssimativa. I suoi studi sul ventennio, come ha
dimostrato da ultimo l’eco avuta sulla stampa dal convegno svoltosi a Roma
nel maggio di quest’anno (dedicato, molto opportunamente, al tema
Interpretazioni su Renzo De Felice), continuano ad essere al centro di
polemiche di natura politico-ideologica più che di approfondimenti di taglio
scientifico. Nella cultura italiana odierna, la sua articolata ricostruzione
del fascismo italiano e della figura mussoliniana, sviluppata in circa un
quarantennio di ricerche condotte su fonti documentarie di primissima mano e
certo non priva di contraddizioni e di aspetti controversi, è ancora oggetto
di pregiudizi ideologici e di passioni politiche, talmente forti da aver
quasi impedito una approfondita valutazione del suo lascito scientifico.
Oggi, come già venticinque fa, all’epoca della pubblicazione dell’Intervista
sul fascismo e delle furibonde polemiche che l’hanno accompagnata,
discuterele tesi defeliciane significa - non solo sul piano della
discussione pubblica, ma, quel che è peggio, anche su quello del confronto
scientifico - dover prendere necessariamente partito: tra i difensori ad
oltranza del biografo di Mussolini o nel campo dei suoi accaniti critici.
De Felice, sostengono i primi, è stato a lungo vittima di una campagna di
diffamazione, vòlta ad impedire che le sue analisi, obiettivamente
provocatorie (sul piano politico-intellettuale) ed innovative (sul piano
storico), potessero avere una qualche salutare influenza su un’opinione
pubblica alla quale, per circa tre decenni, è stata offerta del fascismo una
lettura ora demonizzante ora caricaturale, in ogni caso non rispettosa della
verità. I secondi, dal canto loro, contestanoche una simile campagna sia mai
esistita ed anzi accusano De Felice, e molti dei suoi allievi, di aver
perseguito, accanto a quelli scientifici, anche obiettivi di natura
ideologica, addirittura di avere teso alla “riabilitazione”, se non politica
quantomeno storica e culturale, del fascismo e del suo fondatore. Le
critiche degli anti-defeliciani sono spesso, e del tutto legittimamente, di
tipo metodologico (gli si imputa, tra l’altro, un utilizzo eccessivo delle
fonti fasciste, il ricorso al genere biografico-narrativo, un rozzo
positivismo nell’interpretazione dei fatti storici, una scarsa attenzione
alle problematiche proprie della storia sociale...), ma non c’è dubbio che
il cuore delle loro preoccupazioni sia rappresentato dalle possibili
ricadute dei suoi studi sul piano della cultura politica e del senso comune
storico, come è dimostrato dalle polemiche sul presunto “revisionismo”
defeliciano, che mettendo in discussione il fondamento antifascista del
patto costituzionale repubblicano avrebbe addirittura spianato la strada
alla destra politica italiana.
A coloro che in Italia si sono occupati e si occupano del cosiddetto
“fenomeno fascista”, e che sono animati unicamente dal desiderio di
comprendere cosa quest’ultimo ha effettivamente rappresentato nella storia
politica del Novecento, riesce in effetti difficile, data una tale
situazione, evitare di schierarsi: pro o contro De Felice. E di aderire,
quindi, magari controvoglia, o alla vulgata antifascista ed
antidefeliciana (a quella che con un imbroglio semantico si è autodefinita
la “storiografia democratica”), ovvero alla scolastica defeliciana, non meno
ortodossa ed intransigente della prima. In realtà, ad una simile
alternativa, a dir poco fuorviante ed improduttiva, è possibile e
culturalmente doveroso sottrarsi, tantopiù per chi intenda fare seriamente i
conti con l’opera dello storico reatino e valutarne, con serenità, i pregi
(grandissimi ed indiscutibili) ed i limiti (che esistono, non vanno
sottaciuti e tuttavia non inficiano, come qualcuno vorrebbe, la probità
scientifica e la serietà che sono state proprie da sempre del biografo di
Mussolini).
Che De Felice sia stato duramente attaccato, insultato e deliberatamente
frainteso, nel corso della sua vita e finanche dopo morto, è un fatto, che
non fa certo onore ad alcune frange del ceto intellettuale italiano. Ma
potevano le sue tesi ed il suo approccio lasciare indifferenti
nell’infuocato clima politico-ideologico degli anni Sessanta e Settanta? Per
molti versi, egli ha pagato - mostrando peraltro un coraggio intellettuale
ed una forza d’animo rari tra gli studiosi italiani - lo scotto di chi per
primo ed in maniera solitaria si avventura su nuovi percorsi di ricerca,
demolendo certezze acquisite e rendite di posizione: nel nostro caso, le
certezze e le rendite della storiografia e della cultura politica
antifasciste. Si comprendono così, dal punto di vista della storia culturale
italiana del dopoguerra, molti degli attacchi e delle critiche che gli sono
stati indirizzati soprattutto da studiosi di formazione azionista e
marxista. Ma ciò detto, ha senso considerare De Felice un “perseguitato”,
come fanno alcuni suoi estimatori, molti dei quali ben inseriti nel circuito
massmediale del nostro Paese? Può definirsi tale uno studioso che ha svolto
un ruolo di primissimo piano - per molti versi egemonico - nella
storiografia italiana del secondo dopoguerra?
Nel corso della sua attività di ricercatore, De Felice ha avuto accesso,
spesso prioritario, agli archivi, privati e pubblici, più importanti; ha
visto le sue opere pubblicate dagli editori più in vista;è stato
accademicamente un “barone”, come testimoniano i molti suoi allievi attivi
attualmente nelle università italiane; ha fondato e diretto una delle più
importanti riviste storiche italiane, Storia contemporanea, palestra
per almeno due generazioni di ricercatori; ha svolto un ruolo di primo piano
in campo editoriale, consigliando e “filtrando” la gran parte della
letteratura sul fascismo apparsa in Italia negli ultimi trent’anni; ha
disposto di autorevoli tribune per i suoi interventi pubblici (dalla Rai ai
principali quotidiani e settimanali); è stato oggetto di centinaia di
interviste, recensioni e commenti; è stato, ed è, lo studioso più noto e
citato a livello internazionale tra quanti in Italia si sono occupati nel
dopoguerra di fascismo; e tutto ciò senza contare che le sue opere - da
sempre molto lette e vendute - vengono continuamente ristampate e offerte
all’attenzione degli studiosi e del pubblico colto.
Può dirsi seriamente una “vittima” un intellettuale che è stato così al
centro del dibattito scientifico e culturale? Certo che no. E nemmeno si può
pretendere che il metodo e le analisi defeliciane vengano attaccati o difesi
in blocco, secondo un “prendere o lasciare” che poco ha a che vedere con lo
spirito della ricerca scientifica. Ciò che occorre, in verità, è porsi nei
confronti del lascito intellettuale defeliciano in una posizione obiettiva e
critica al tempo stesso, con il fine di farlo fruttificare quanto più
possibile, valorizzandone talune acquisizioni, superandone e criticandone
altre, mettendone in evidenza, ove occorra, certi limiti obiettivi, di
natura metodologica e, soprattutto, interpretativa.
Se è vero che sulle dispute intellettuali è spesso il tempo a dettare il
giusto verdetto, si può ben dire che De Felice abbia alla fine avuto
ampiamente ragione della maggior parte dei suoi, spesso superficiali ed in
malafede, detrattori. Se congiura e discriminazione ci sono state nei suoi
confronti, bisogna riconoscere che esse hanno sortito effetti assai miseri.
A ben vedere, a dispetto di qualunque polemica, molte delle sue idee - la
distinzione tra “fascismo movimento” e“fascismo regime”, il nesso esistente
tra fascismo e ceti medi, la matrice rivoluzionaria e di sinistra del
fascismo delle origini, la delicata questione del “consenso”, le differenze
esistenti tra fascismo e nazionalsocialismo e quelle tra fascismo e
neo-fascismo - non sono più oggetto di rifiuto pregiudiziale tra gli
studiosi (tra quelli, è ovvio, non accecati dalla passione ideologica),
semmai di critica e di discussione, come è giusto che sia in simili
questioni. Anche il senso comunestorico, per definizione poco permeabile ai
giudizi della storiografia accademica, sembra aver fatto proprie, con il
trascorrere del tempo, alcune delle acquisizioni defeliciane. Gli italiani,
oggi, a dispetto di certi eccessi postumi di antifascismo provenienti dal
mondo intellettuale di matrice radical-azionista ed ex-comunista, eccessi
dettati perlopiù da esigenze strumentali e contingenti di lotta politica,
guardano ormai all’esperienza storica del fascismo con occhi
complessivamente diversi da quelli di un tempo; e ciò soprattutto per merito
di De Felice, che ha come costretto i suoi connazionali ad un serio esame di
coscienza che ha portato questi ultimi, strada facendo, a maturare una
memoria del loro passato meno accomodante ma al tempo stesso più aderente
alla realtà (sta in ciò la valenza etico-politica della lezione defeliciana,
così spesso, e giustamente, richiamata dai suoi allievi).
Si può dunque accettare, stando così le cose, l’idea che occorra spingersi
oltre De Felice sul terreno di studi che gli è stato proprio,
lasciando dunque da parte polemiche e discussioni che rischiano di apparire
anacronistiche nei toni e nei contenuti oltreché irrimediabilmente
provinciali. De Felice è stato il maggior storico del fascismo italiano,
alla cui conoscenza ha apportato un contributo fondamentale ed
irrinunciabile dal punto di vista documentario e, per certi versi,
interpretativo. Ma - ecco il punto - non si è mai posto in maniera organica
e convinto il problema di una lettura complessiva ed in chiave globale del
“fenomeno fascista”, problema che, invece, è sempre stato - ed è ancora
oggi, forse più di prima - al centro delle riflessioni di gran parte degli
studiosi internazionali del fascismo. Questi ultimi, da un lato hanno
considerato la nascita dei movimenti fascisti l’espressione dei radicali
cambiamenti politico-istituzionali e socio-culturali prodottisi sulla scena
politica europea a cavaliere tra Ottocento e Novecento (drammaticamente
accelerati dal primo conflitto mondiale), dall’altro si sono interrogati
sulla capacità di irradiazione che il fascismo ha avuto anche al di fuori
dei confini europei e ben oltre l’arco cronologico compreso tra le due
guerre mondiali.
Il nominalismo defeliciano, la sua insistenza sulle peculiarità nazionali
della creatura politica mussoliniana, non sono stati, ovviamente, casuali o
frutto di insensibilità. La sua riottosità nell’affrontare il tema del
fascismo in una prospettiva generalizzante ha obbedito, nel suo caso, ad un
complesso di legittime ragioni: per cominciare, alla sua formazione di
storico puro, ligio ai documenti ed ai fatti e per abito mentale quindi poco
incline agli schematismi (accusare uno storico di non essere stato anche uno
scienziato sociale ha, in effetti, poco senso); poi ad una comprensibile
prudenza intellettuale, considerato da un lato lo stato delle conoscenze
empiriche sul fascismo negli anni in cui egli ha iniziato le sue ricerche e
dall’altro gli abusi interpretativi e le semplificazioni, tipici soprattutto
della storiografia marxista, a proposito di un “fascismo internazionale”
considerato mera espressione del potere della grande borghesia.
Da molti anni, l’approccio prevalente nella letteratura internazionale sul
fascismo (che lo stesso De Felice in un’occasione ha riconosciuto essere, in
generale, più avanzata di quella italiana) è, per l’appunto, quello
comparativo, teso ad individuare, a partire dalle singole manifestazioni
nazionali del fenomeno fascista, gli elementi di comunanza e di similitudine
in forza dei quali classificare il fascismo alla stregua di una vera e
propria famiglia politico-ideologica, che ha impregnato di sé la storia del
Novecento. Se è vero, come ha opportunamente sottolineato Emilio Gentile (il
più originale ed innovativo tra gli studiosi formatisi alla scuola
defeliciana), “che per procedere alla individuazione degli elementi
costitutivi di una definizione del fenomeno fascista inteso come
fenomeno sovranazionale, si debba partire dalla definizione del fascismo
italiano”, essendo stato quest’ultimo la matrice storica ed ideologica di
tutti i fascismi comparsi successivamente sulla scena politica, è pur vero
che per avanzare in direzione di una interpretazione scientificamente
plausibile ed esaustiva del cosiddetto “fascismo generico” occorre che le
fondamentali acquisizioni storiografiche defelicianerelative alle origini ed
allo sviluppo del fascismo mussoliniano vengano integrate con quelle
relative agli altri fascismi e quindi rielaborate ed organizzate con gli
strumenti d’analisi propri delle scienze sociali.
Negli ultimi anni della sua vita, De Felice - studioso culturalmente assai
aperto e curioso (come dimostrato dall’attenzione con cui egli ha sempre
seguito gli sviluppi della ricerca internazionale sul fascismo) e di grande
onestà intellettuale (non ha esitato infatti a modificare strada facendo le
proprie posizioni ed i propri convincimenti proprio sulla base delle
suggestioni che gli sono derivate, nel corso degli anni, dalla lettura di
autori quali H. Arendt, G. Germani, E. Nolte, J. Talmon, G. Mosse, F. Furet)
- si è posto più volte il problema di come, per quale via e con quali mezzi,
giungere ad una lettura globale dei movimenti e regimi
nazional-rivoluzionari sorti in Europa dopo la prima guerra mondiale. Pur
tra distinguo e messe in guardia, nei primi anni Ottantaha sostenuto ad
esempio come proprio grazie al ricco accumulo di materiali prodotto dagli
storici si erano finalmente create le condizioni per un “salto culturale”
nell’interpretazione del fascismo. Certo, nessuna delle interpretazioni
avanzate sino a quel momento gli appariva incontrovertibile e convincente,
al tempo stesso considerava un errore credere di saperne abbastanza dal
punto di vista storico su un fenomeno di così vasta portata, ma che fosse
giunto il momento di tentare nuove sintesi interpretative gli era
altrettanto chiaro, a tal punto che certi suoi pensieri, riletti oggi,
suonano quasi come un invito, rivolto alle nuove generazioni di studiosi, a
procedere sulla strada di comparazioni, tipologie, sintesi fenomenologiche e
visioni unitarie finalmente più sofisticate (dal punto di vista scientifico)
e meno ideologicamente condizionate di quelle nei confronti delle quali
egli, a ragione, si è invece sempre mostrato diffidente e scettico.
Assegnare a De Felice, come è giusto e doveroso, la patente di un “classico”
della storiografia significaconsiderare la sua opera il punto di partenza,
imprescindibile dal punto di vista empirico e dei materiali storici ma pur
sempre destinato al superamento sul piano interpretativo, di studi e
ricerche che consentano, in una prospettiva multidisciplinare, una più
adeguata comprensione del fascismo e della sua natura realmente “epocale”.
Poche parole, in conclusione, per presentare l’inedito defeliciano
pubblicato nelle pagine seguenti. Si tratta della trascrizione
dell’intervento pronunciato dallo storico al convegno sul tema“Autoritarismo
e fascismo nei paesi latini” svoltosi a Firenze nel novembre del 1982, sotto
gli auspici dell’Associazione Mediterranea Latino-Americana (AMELA) e della
Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, su iniziativa del
compianto prof. Alberto Spreafico. Proprio ad Anna Spreafico - ed alla
cortese sollecitudine del prof. Hèlgio Trindade, docente presso l’Università
federale di Rio Grande do Sul (Brasile) - dobbiamo se gli atti di
quell’importante incontro, ivi compreso l’intervento di De Felice, sono
stati sottratti all’oblio ed offerti alla disponibilità degli studiosi
(compariranno infatti in volume nella collana “Fascismo/fascismi” da noi
diretta presso l’editore Antonio Pellicani). Il testo defeliciano -
purtroppo incompleto a causa di un incidente avvenuto nella fase della
trascrizione - è nato come replica alla relazione presentata in
quell’occasione dal sociologo spagnolo Juan J. Linz sul tema “Il fascismo in
Europa e in America Latina: uno sguardo comparativo”. Non rivisto
dall’autore, esso presenta l’andamento tipico di un intervento “a braccio”,
con alcune inevitabili ripetizioni e con gli incisi e le disgressioni che
erano peraltro peculiari anche della scrittura defeliciana. Il brano finale
esprime bene la posizione dello storico reatino rispetto al cosiddetto
“fenomemo fascista”, il cui tratto unificante deve essere a suo giudizio
cercato unicamente - stante la suggestione su di lui operata in quegli anni
dall’opera di George L. Mosse - nell’aspetto culturale, nel modo con cui i
diversi fascismi elaborarono e fecero propria, sul piano ideologico e
politico, una concezione della vita, della storia e della politica, una
forma mentis ed uno stile, fortemente segnati dal mito, dal vitalismo e
dal rifiuto del razionalismo di matrice illuministica.
(c)
Ideazione.com (2006)
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