Oltre De Felice
di Alessandro Campi
Ideazione di luglio-agosto 2000

Sono passati poco più di quattro anni dalla scomparsa di Renzo De Felice, un tempo più che sufficiente, quantomeno sulla carta, per avviare un bilancio equilibrato, e come tale necessariamente critico, sulla sua imponente opera di storico del fascismo italiano. Così, in realtà, non è stato, se non in maniera ancora molto approssimativa. I suoi studi sul ventennio, come ha dimostrato da ultimo l’eco avuta sulla stampa dal convegno svoltosi a Roma nel maggio di quest’anno (dedicato, molto opportunamente, al tema Interpretazioni su Renzo De Felice), continuano ad essere al centro di polemiche di natura politico-ideologica più che di approfondimenti di taglio scientifico. Nella cultura italiana odierna, la sua articolata ricostruzione del fascismo italiano e della figura mussoliniana, sviluppata in circa un quarantennio di ricerche condotte su fonti documentarie di primissima mano e certo non priva di contraddizioni e di aspetti controversi, è ancora oggetto di pregiudizi ideologici e di passioni politiche, talmente forti da aver quasi impedito una approfondita valutazione del suo lascito scientifico.

Oggi, come già venticinque fa, all’epoca della pubblicazione dell’Intervista sul fascismo e delle furibonde polemiche che l’hanno accompagnata, discuterele tesi  defeliciane significa - non solo sul piano della discussione pubblica, ma, quel che è peggio, anche su quello del confronto scientifico - dover prendere necessariamente partito: tra i difensori ad oltranza del biografo di Mussolini  o nel campo dei suoi accaniti critici. De Felice, sostengono i primi, è stato a lungo vittima di una campagna di diffamazione, vòlta ad impedire che le sue analisi, obiettivamente provocatorie (sul piano politico-intellettuale) ed innovative (sul piano storico), potessero avere una qualche salutare influenza su un’opinione pubblica alla quale, per circa tre decenni, è stata offerta del fascismo una lettura ora demonizzante ora caricaturale, in ogni caso non rispettosa della verità. I secondi, dal canto loro, contestanoche una simile campagna sia mai esistita ed anzi accusano De Felice, e molti dei suoi allievi, di aver perseguito, accanto a quelli scientifici, anche obiettivi di natura ideologica, addirittura di avere teso alla “riabilitazione”, se non politica quantomeno storica e culturale, del fascismo e del suo fondatore. Le critiche degli anti-defeliciani sono spesso, e del tutto legittimamente, di tipo metodologico (gli si imputa, tra l’altro, un utilizzo eccessivo delle fonti fasciste, il ricorso al genere biografico-narrativo, un rozzo positivismo nell’interpretazione dei fatti storici, una scarsa attenzione alle problematiche proprie della storia sociale...), ma non c’è dubbio che il cuore delle loro preoccupazioni sia rappresentato dalle possibili ricadute dei suoi studi sul piano della cultura politica e del senso comune storico, come è dimostrato dalle polemiche sul presunto “revisionismo” defeliciano, che mettendo in discussione il fondamento antifascista del patto costituzionale repubblicano avrebbe addirittura spianato la strada alla destra politica italiana.

A coloro che in Italia si sono occupati e si occupano del cosiddetto “fenomeno fascista”, e che sono animati unicamente dal desiderio di comprendere cosa quest’ultimo ha effettivamente rappresentato nella storia politica del Novecento, riesce in effetti difficile, data una tale situazione, evitare di schierarsi: pro o contro De Felice. E di aderire, quindi, magari controvoglia, o alla vulgata antifascista ed antidefeliciana (a quella che con un imbroglio semantico si è autodefinita la “storiografia democratica”), ovvero alla scolastica defeliciana, non meno ortodossa ed intransigente della prima. In realtà, ad una simile alternativa, a dir poco fuorviante ed improduttiva, è possibile e culturalmente doveroso sottrarsi, tantopiù per chi intenda fare seriamente i conti con l’opera dello storico reatino e valutarne, con serenità, i pregi (grandissimi ed indiscutibili) ed i limiti (che esistono, non vanno sottaciuti e tuttavia non inficiano, come qualcuno vorrebbe, la probità scientifica e la serietà che sono state proprie da sempre del biografo di Mussolini).

Che De Felice sia stato duramente attaccato, insultato e deliberatamente frainteso, nel corso della sua vita e finanche dopo morto, è un fatto, che non fa certo onore ad alcune frange del ceto intellettuale italiano. Ma potevano le sue tesi ed il suo approccio lasciare indifferenti nell’infuocato clima politico-ideologico degli anni Sessanta e Settanta? Per molti versi, egli ha pagato - mostrando peraltro un coraggio intellettuale ed una forza d’animo rari tra gli studiosi italiani - lo scotto di chi per primo ed in maniera solitaria si avventura su nuovi percorsi di ricerca, demolendo certezze acquisite e rendite di posizione: nel nostro caso, le certezze e le rendite della storiografia e della cultura politica antifasciste. Si comprendono così, dal punto di vista della storia culturale italiana del dopoguerra, molti degli attacchi e delle critiche che gli sono stati indirizzati soprattutto da studiosi di formazione azionista e marxista. Ma ciò detto, ha senso considerare De Felice un “perseguitato”, come fanno alcuni suoi estimatori, molti dei quali ben inseriti nel circuito massmediale del nostro Paese? Può definirsi tale uno studioso che ha svolto un ruolo di primissimo piano - per molti versi egemonico - nella storiografia italiana del secondo dopoguerra?

Nel corso della sua attività di ricercatore, De Felice ha avuto accesso, spesso prioritario, agli archivi, privati e pubblici, più importanti; ha visto le sue opere pubblicate dagli editori più in vista;è stato accademicamente un “barone”, come testimoniano i molti suoi allievi attivi attualmente nelle università italiane; ha fondato e diretto una delle più importanti riviste storiche italiane, Storia contemporanea, palestra per almeno due generazioni di ricercatori; ha svolto un ruolo di primo piano in campo editoriale, consigliando e “filtrando” la gran parte della letteratura sul fascismo apparsa in Italia negli ultimi trent’anni; ha disposto di autorevoli tribune per i suoi interventi pubblici (dalla Rai ai principali quotidiani e settimanali); è stato oggetto di centinaia di interviste, recensioni e commenti; è stato, ed è, lo studioso più noto e citato a livello internazionale tra quanti in Italia si sono occupati nel dopoguerra di fascismo; e tutto ciò senza contare che le sue opere - da sempre molto lette e vendute - vengono continuamente ristampate e offerte all’attenzione degli studiosi e del pubblico colto.

Può dirsi seriamente una “vittima” un intellettuale che è stato così al centro del dibattito scientifico e culturale? Certo che no. E nemmeno si può pretendere che il metodo e le analisi defeliciane vengano attaccati o difesi in blocco, secondo un “prendere o lasciare” che poco ha a che vedere con lo spirito della ricerca scientifica. Ciò che occorre, in verità, è porsi nei confronti del lascito intellettuale defeliciano in una posizione obiettiva e critica al tempo stesso, con il fine di farlo fruttificare quanto più possibile, valorizzandone talune acquisizioni, superandone e criticandone altre, mettendone in evidenza, ove occorra, certi limiti obiettivi, di natura metodologica e, soprattutto, interpretativa.

Se è vero che sulle dispute intellettuali è spesso il tempo a dettare il giusto verdetto, si può ben dire che De Felice abbia alla fine avuto ampiamente ragione della maggior parte dei suoi, spesso superficiali ed in malafede, detrattori. Se congiura e discriminazione ci sono state nei suoi confronti, bisogna riconoscere che esse hanno sortito effetti assai miseri. A ben vedere, a dispetto di qualunque polemica, molte delle sue idee - la distinzione tra “fascismo movimento” e“fascismo regime”, il nesso esistente tra fascismo e ceti medi, la matrice rivoluzionaria e di sinistra del fascismo delle origini, la delicata questione del “consenso”, le differenze esistenti tra fascismo e nazionalsocialismo e quelle tra fascismo e neo-fascismo - non sono più oggetto di rifiuto pregiudiziale tra gli studiosi (tra quelli, è ovvio, non accecati dalla passione ideologica), semmai di critica e di discussione, come è giusto che sia in simili questioni. Anche il senso comunestorico, per definizione poco permeabile ai giudizi della storiografia accademica, sembra aver fatto proprie, con il trascorrere del tempo, alcune delle acquisizioni defeliciane. Gli italiani, oggi, a dispetto di certi eccessi postumi di antifascismo provenienti dal mondo intellettuale di matrice radical-azionista ed ex-comunista, eccessi dettati perlopiù da esigenze strumentali e contingenti di lotta politica, guardano ormai all’esperienza storica del fascismo con occhi complessivamente diversi da quelli di un tempo; e ciò soprattutto per merito di De Felice, che ha come costretto i suoi connazionali ad un serio esame di coscienza che ha portato questi ultimi, strada facendo, a maturare una memoria del loro passato meno accomodante ma al tempo stesso più aderente alla realtà (sta in ciò la valenza etico-politica della lezione defeliciana, così spesso, e giustamente, richiamata dai suoi allievi).

Si può dunque accettare, stando così le cose, l’idea che occorra spingersi oltre De Felice sul terreno di studi che gli è stato proprio, lasciando dunque da parte polemiche e discussioni che rischiano di apparire anacronistiche nei toni e nei contenuti oltreché irrimediabilmente provinciali. De Felice è stato il maggior storico del fascismo italiano, alla cui conoscenza ha apportato un contributo fondamentale ed irrinunciabile dal punto di vista documentario e, per certi versi, interpretativo. Ma - ecco il punto - non si è mai posto in maniera organica e convinto il problema di una lettura complessiva ed in chiave globale del “fenomeno fascista”, problema che, invece, è sempre stato - ed è ancora oggi, forse più di prima - al centro delle riflessioni di gran parte degli studiosi internazionali del fascismo. Questi ultimi, da un lato hanno considerato la nascita dei movimenti fascisti l’espressione dei radicali cambiamenti politico-istituzionali e socio-culturali prodottisi sulla scena politica europea a cavaliere tra Ottocento e Novecento (drammaticamente accelerati dal primo conflitto mondiale), dall’altro si sono interrogati sulla capacità di irradiazione che il fascismo ha avuto anche al di fuori dei confini europei e ben oltre l’arco cronologico compreso tra le due guerre mondiali.

Il nominalismo defeliciano, la sua insistenza sulle peculiarità nazionali della creatura politica mussoliniana, non sono stati, ovviamente, casuali o frutto di insensibilità. La sua riottosità nell’affrontare il tema del fascismo in una prospettiva generalizzante ha obbedito, nel suo caso, ad un complesso di legittime ragioni: per cominciare, alla sua formazione di storico puro, ligio ai documenti ed ai fatti e per abito mentale quindi poco incline agli schematismi (accusare uno storico di non essere stato anche uno scienziato sociale ha, in effetti, poco senso); poi ad una comprensibile prudenza intellettuale, considerato da un lato lo stato delle conoscenze empiriche sul fascismo negli anni in cui egli ha iniziato le sue ricerche e dall’altro gli abusi interpretativi e le semplificazioni, tipici soprattutto della storiografia marxista, a proposito di un “fascismo internazionale” considerato mera espressione del potere della grande borghesia.

Da molti anni, l’approccio prevalente nella letteratura internazionale sul fascismo (che lo stesso De Felice in un’occasione ha riconosciuto essere, in generale, più avanzata di quella italiana) è, per l’appunto, quello comparativo, teso ad individuare, a partire dalle singole manifestazioni nazionali del fenomeno fascista, gli elementi di comunanza e di similitudine in forza dei quali classificare il fascismo alla stregua di una vera e propria famiglia politico-ideologica, che ha impregnato di sé la storia del Novecento. Se è vero, come ha opportunamente sottolineato Emilio Gentile (il più originale ed innovativo tra gli studiosi formatisi alla scuola defeliciana), “che per procedere alla individuazione degli elementi costitutivi di una definizione del fenomeno fascista inteso come fenomeno sovranazionale, si debba partire dalla definizione del fascismo italiano”, essendo stato quest’ultimo la matrice storica ed ideologica di tutti i fascismi comparsi successivamente sulla scena politica, è pur vero che per avanzare in direzione di una interpretazione scientificamente plausibile ed esaustiva del cosiddetto “fascismo generico” occorre che le fondamentali acquisizioni storiografiche defelicianerelative alle origini ed allo sviluppo del fascismo mussoliniano vengano integrate con quelle relative agli altri fascismi e quindi rielaborate ed organizzate con gli strumenti d’analisi propri delle scienze sociali.

Negli ultimi anni della sua vita, De Felice - studioso culturalmente assai aperto e curioso (come dimostrato dall’attenzione con cui egli ha sempre seguito gli sviluppi della ricerca internazionale sul fascismo) e di grande onestà intellettuale (non ha esitato infatti a modificare strada facendo le proprie posizioni ed i propri convincimenti proprio sulla base delle suggestioni che gli sono derivate, nel corso degli anni, dalla lettura di autori quali H. Arendt, G. Germani, E. Nolte, J. Talmon, G. Mosse, F. Furet) - si è posto più volte il problema di come, per quale via e con quali mezzi, giungere ad una lettura globale dei movimenti e regimi nazional-rivoluzionari sorti in Europa dopo la prima guerra mondiale. Pur tra distinguo e messe in guardia, nei primi anni Ottantaha sostenuto ad esempio come proprio grazie al ricco accumulo di materiali prodotto dagli storici si erano finalmente create le condizioni per un “salto culturale” nell’interpretazione del fascismo. Certo, nessuna delle interpretazioni avanzate sino a quel momento gli appariva incontrovertibile e convincente, al tempo stesso considerava un errore credere di saperne abbastanza dal punto di vista storico su un fenomeno di così vasta portata, ma che fosse giunto il momento di tentare nuove sintesi interpretative gli era altrettanto chiaro, a tal punto che certi suoi pensieri, riletti oggi, suonano quasi come un invito, rivolto alle nuove generazioni di studiosi, a procedere sulla strada di comparazioni, tipologie, sintesi fenomenologiche e visioni unitarie finalmente più sofisticate (dal punto di vista scientifico) e meno ideologicamente condizionate di quelle nei confronti delle quali egli, a ragione, si è invece sempre mostrato diffidente e scettico.

Assegnare a De Felice, come è giusto e doveroso, la patente di un “classico” della storiografia significaconsiderare la sua opera il punto di partenza, imprescindibile dal punto di vista empirico e dei materiali storici ma pur sempre destinato al superamento sul piano interpretativo, di studi e ricerche che consentano, in una prospettiva multidisciplinare, una più adeguata comprensione del fascismo e della sua natura realmente “epocale”.

Poche parole, in conclusione, per presentare l’inedito defeliciano pubblicato nelle pagine seguenti. Si tratta della trascrizione dell’intervento pronunciato dallo storico al convegno sul tema“Autoritarismo e fascismo nei paesi latini” svoltosi a Firenze nel novembre del 1982, sotto gli auspici dell’Associazione Mediterranea Latino-Americana (AMELA) e della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, su iniziativa del compianto prof. Alberto Spreafico. Proprio ad Anna Spreafico - ed alla cortese sollecitudine del prof. Hèlgio Trindade, docente presso l’Università federale di Rio Grande do Sul (Brasile) - dobbiamo se gli atti di quell’importante incontro, ivi compreso l’intervento di De Felice, sono stati sottratti all’oblio ed offerti alla disponibilità degli studiosi (compariranno infatti in volume nella collana “Fascismo/fascismi” da noi diretta presso l’editore Antonio Pellicani). Il testo defeliciano - purtroppo incompleto a causa di un incidente avvenuto nella fase della trascrizione - è nato come replica alla relazione presentata in quell’occasione dal sociologo spagnolo Juan J. Linz sul tema “Il fascismo in Europa e in America Latina: uno sguardo comparativo”. Non rivisto dall’autore, esso presenta l’andamento tipico di un intervento “a braccio”, con alcune inevitabili ripetizioni e con gli incisi e le disgressioni che erano peraltro peculiari anche della scrittura defeliciana. Il brano finale esprime bene la posizione dello storico reatino rispetto al cosiddetto “fenomemo fascista”, il cui tratto unificante deve essere a suo giudizio cercato unicamente - stante la suggestione su di lui operata in quegli anni dall’opera di George L. Mosse -  nell’aspetto culturale, nel modo con cui i diversi fascismi elaborarono e fecero propria, sul piano ideologico e politico, una concezione della vita, della storia e della politica, una forma mentis ed uno stile, fortemente segnati dal mito, dal vitalismo e dal rifiuto del razionalismo di matrice illuministica.


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