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    Sovranità, federalismo e sussidiarietà
	 Il concetto di sovranità è probabilmente uno 
	dei più complessi in scienza politica: se ne è potuti dare una dozzina di 
	differenti definizioni, di cui alcune sono totalmente contraddittorie tra 
	loro. In regola generale, tuttavia, la “sovranità” rinvia a due accezioni 
	principali. Una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, 
	quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere 
	in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della 
	legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità. 
	Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come 
	il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data 
	collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di 
	sovranità popolare, ci si situa nella seconda. Le nozioni di potere e di 
	legittimità si trovano così subito associate a quella di sovranità.
 
	Il concetto di sovranità è probabilmente uno 
	dei più complessi in scienza politica: se ne è potuti dare una dozzina di 
	differenti definizioni, di cui alcune sono totalmente contraddittorie tra 
	loro. In regola generale, tuttavia, la “sovranità” rinvia a due accezioni 
	principali. Una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, 
	quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere 
	in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della 
	legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità. 
	Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come 
	il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data 
	collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di 
	sovranità popolare, ci si situa nella seconda. Le nozioni di potere e di 
	legittimità si trovano così subito associate a quella di sovranità. 
	 Sarebbe però un errore grave credere che l’unica sovranità possibile possa 
	esistere solo nel quadro di uno Stato di tipo classico, cioè di uno 
	Stato-nazione, come sostengono teorici della scuola “realista” come Alan 
	James e F.H. Hinsley, o dei teorici neomarxisti come Justin Rosenberg1. Un 
	tale errore giunge a confondere lo Stato e la nazione, quando invece le due 
	cose non vanno necessariamente di pari passo e, d’altra parte, arriva a far 
	credere che la sovranità sia apparsa solo nel momento in cui le si è data 
	una chiara formulazione nel quadro di una teoria dello Stato. L’affermazione 
	di John Hoffman – secondo cui «la sovranità rappresenta un problema 
	insolubile già da parecchio tempo prima che si volesse associarla ad ogni 
	costo allo Stato»2 – si avvicina molto più alla verità. Anche se la nozione 
	di sovranità non è stata pienamente concettualizzata prima del XVI secolo, 
	non ne consegue che non sia esistita prima in quanto realtà politica. Non ne 
	consegue nemmeno che non la si possa concettualizzare in altra maniera.
 
	Sarebbe però un errore grave credere che l’unica sovranità possibile possa 
	esistere solo nel quadro di uno Stato di tipo classico, cioè di uno 
	Stato-nazione, come sostengono teorici della scuola “realista” come Alan 
	James e F.H. Hinsley, o dei teorici neomarxisti come Justin Rosenberg1. Un 
	tale errore giunge a confondere lo Stato e la nazione, quando invece le due 
	cose non vanno necessariamente di pari passo e, d’altra parte, arriva a far 
	credere che la sovranità sia apparsa solo nel momento in cui le si è data 
	una chiara formulazione nel quadro di una teoria dello Stato. L’affermazione 
	di John Hoffman – secondo cui «la sovranità rappresenta un problema 
	insolubile già da parecchio tempo prima che si volesse associarla ad ogni 
	costo allo Stato»2 – si avvicina molto più alla verità. Anche se la nozione 
	di sovranità non è stata pienamente concettualizzata prima del XVI secolo, 
	non ne consegue che non sia esistita prima in quanto realtà politica. Non ne 
	consegue nemmeno che non la si possa concettualizzare in altra maniera.
	
	 Aristotele – per fare solo il suo esempio – non dice una parola sulla 
	sovranità, ma il fatto che insista sulla necessità di un potere supremo 
	mostra che l’idea non gli era estranea, poiché ogni potere supremo – kuphian 
	aphen presso i greci, summum imperium presso i romani – è per definizione 
	sovrano. La sovranità non è infatti legata né a una particolare forma di 
	governo né a un tipo particolare di organizzazione politica. Al contrario, è 
	inerente a qualsiasi forma di esercizio del comando politico.
 
	Aristotele – per fare solo il suo esempio – non dice una parola sulla 
	sovranità, ma il fatto che insista sulla necessità di un potere supremo 
	mostra che l’idea non gli era estranea, poiché ogni potere supremo – kuphian 
	aphen presso i greci, summum imperium presso i romani – è per definizione 
	sovrano. La sovranità non è infatti legata né a una particolare forma di 
	governo né a un tipo particolare di organizzazione politica. Al contrario, è 
	inerente a qualsiasi forma di esercizio del comando politico.
Il problema della sovranità è riapparso alla fine del Medioevo, da quando si è posta la questione di sapere non più solamente qual è il migliore metodo possibile di governo o quali debbano essere i fini dell’autorità detenuta dal potere, ma a cosa corrisponde il legame politico che unisce un popolo al suo governo, cioè come si debba definire, all’interno di una comunità politica, il rapporto tra governanti e governati.
	La sovranità secondo Bodin
	È a tale questione che ha cercato di rispondere il magistrato francese Jean 
	Bodin (1520-1596) nel suo celebre volume La Repubblica, apparso nel 1576. 
	Bodin non ha inventato la sovranità, ma è stato il primo a farne l’analisi 
	concettuale e a proporne una formulazione sistematica. Egli non si è 
	dedicato a questa impresa a partire dall’osservazione di uno stato di fatto, 
	ma nel contesto di una doppia rivendicazione: il desiderio di restaurazione 
	di un ordine messo a dura prova dalle guerre di religione, e la richiesta di 
	emancipazione da parte dei re francesi nei confronti di qualsiasi forma di 
	vassallaggio verso il Papa o l’imperatore. È per questa ragione che la 
	dottrina di Bodin, per sua stessa natura, costituirà l’ideologia dei 
	nascenti regni territoriali, che cercano di emanciparsi dalla tutela 
	dell’Impero mentre si radica, al livello dei principi, la trasformazione dei 
	rapporti di potere che risultano dalla dominazione dei feudatari da parte 
	del re. 
	 Bodin comincia ricordando, a giusto titolo, che la sovranità (majestas) – di 
	cui fa la chiave di volta di tutto il suo sistema – è un attributo del 
	comando, che costituisce esso stesso uno dei presupposti del politico. Al 
	pari della maggior parte dei suoi contemporanei, egli afferma che un governo 
	è forte solo quando è legittimato, e sottolinea che la sua azione deve 
	sempre restare conforme ad un certo numero di valori determinati dalla 
	giustizia e dalla ragione. Ma allo stesso tempo si rende perfettamente conto 
	che considerazioni di questo genere non sono sufficienti a spiegare 
	pienamente la nozione di potere sovrano. Questa è la ragione per cui 
	dichiara che la fonte del potere proviene dalla legge. Il potere di fare e 
	disfare le leggi, dice, è ciò che appartiene esclusivamente al sovrano, ciò 
	che costituisce il suo contrassegno: il potere di legiferare e il potere di 
	governare sono identici. La conclusione che ne ricava Bodin è radicale: non 
	potendo essere assoggettato egli stesso alle decisioni che prende o ai 
	decreti che emana, il principe è necessariamente al di sopra della legge. È 
	la formula che si trovava già presso i giureconsulti romani: princeps 
	solutus est legibus. «Bisogna – scrive Bodin – che coloro che sono sovrani 
	non siano in alcun modo soggetti ai comandi altrui [...]. Questo perché la 
	legge stabilisce che il principe è sciolto dal potere delle leggi [...]. Le 
	leggi del principe non dipendono che dalla sua pura e semplice volontà»3. È 
	dunque sovrano il potere che un principe possiede di imporre leggi che non 
	vincolano lui stesso, potere per il cui esercizio egli non ha neppure 
	bisogno del consenso dei suoi sudditi, cosa che vuol dire che la sovranità è 
	totalmente indipendente dai sudditi ai quali egli impone la legge. Richelieu 
	dirà più tardi, nello stesso spirito, che «il principe è padrone delle 
	formalità della legge».
 
	Bodin comincia ricordando, a giusto titolo, che la sovranità (majestas) – di 
	cui fa la chiave di volta di tutto il suo sistema – è un attributo del 
	comando, che costituisce esso stesso uno dei presupposti del politico. Al 
	pari della maggior parte dei suoi contemporanei, egli afferma che un governo 
	è forte solo quando è legittimato, e sottolinea che la sua azione deve 
	sempre restare conforme ad un certo numero di valori determinati dalla 
	giustizia e dalla ragione. Ma allo stesso tempo si rende perfettamente conto 
	che considerazioni di questo genere non sono sufficienti a spiegare 
	pienamente la nozione di potere sovrano. Questa è la ragione per cui 
	dichiara che la fonte del potere proviene dalla legge. Il potere di fare e 
	disfare le leggi, dice, è ciò che appartiene esclusivamente al sovrano, ciò 
	che costituisce il suo contrassegno: il potere di legiferare e il potere di 
	governare sono identici. La conclusione che ne ricava Bodin è radicale: non 
	potendo essere assoggettato egli stesso alle decisioni che prende o ai 
	decreti che emana, il principe è necessariamente al di sopra della legge. È 
	la formula che si trovava già presso i giureconsulti romani: princeps 
	solutus est legibus. «Bisogna – scrive Bodin – che coloro che sono sovrani 
	non siano in alcun modo soggetti ai comandi altrui [...]. Questo perché la 
	legge stabilisce che il principe è sciolto dal potere delle leggi [...]. Le 
	leggi del principe non dipendono che dalla sua pura e semplice volontà»3. È 
	dunque sovrano il potere che un principe possiede di imporre leggi che non 
	vincolano lui stesso, potere per il cui esercizio egli non ha neppure 
	bisogno del consenso dei suoi sudditi, cosa che vuol dire che la sovranità è 
	totalmente indipendente dai sudditi ai quali egli impone la legge. Richelieu 
	dirà più tardi, nello stesso spirito, che «il principe è padrone delle 
	formalità della legge».
	 È per questa ragione di potenza legislativa, prosegue Bodin, che l’autorità 
	suprema non può che essere unica e assoluta, da cui la sua definizione della 
	sovranità come «potere assoluto e perpetuo di una repubblica»4, cioè come 
	potere illimitato nell’ordine degli affari umani. La sovranità è una potenza 
	assoluta in quanto che il sovrano non è sottomesso alle leggi, ma al 
	contrario le emana e le abroga a suo piacimento – e, al contrario, la 
	facoltà di produrre la legge esige che la sovranità sia assoluta – egli «non 
	può sedersi in commissione», dice Bodin, poiché il potere di legiferare non 
	si può spartire. Tutte le altre prerogative del sovrano dipendono da questa 
	affermazione iniziale. Se ne deduce che la caratteristica fondamentale della 
	sovranità è quella che conferisce al principe, che non segue altra regola 
	che la sua propria volontà, il potere di non essere vincolato o dipendente 
	da nessuno, non essendo il suo potere né delegato, né temporaneo, né 
	responsabile nei confronti di chicchessia. Poiché, se dovesse trovarsi a 
	dipendere da un altro che non sia lui, all’interno o all’esterno (dello 
	Stato), non avrebbe più il potere di fare la legge. Non sarebbe più sovrano.
 
	È per questa ragione di potenza legislativa, prosegue Bodin, che l’autorità 
	suprema non può che essere unica e assoluta, da cui la sua definizione della 
	sovranità come «potere assoluto e perpetuo di una repubblica»4, cioè come 
	potere illimitato nell’ordine degli affari umani. La sovranità è una potenza 
	assoluta in quanto che il sovrano non è sottomesso alle leggi, ma al 
	contrario le emana e le abroga a suo piacimento – e, al contrario, la 
	facoltà di produrre la legge esige che la sovranità sia assoluta – egli «non 
	può sedersi in commissione», dice Bodin, poiché il potere di legiferare non 
	si può spartire. Tutte le altre prerogative del sovrano dipendono da questa 
	affermazione iniziale. Se ne deduce che la caratteristica fondamentale della 
	sovranità è quella che conferisce al principe, che non segue altra regola 
	che la sua propria volontà, il potere di non essere vincolato o dipendente 
	da nessuno, non essendo il suo potere né delegato, né temporaneo, né 
	responsabile nei confronti di chicchessia. Poiché, se dovesse trovarsi a 
	dipendere da un altro che non sia lui, all’interno o all’esterno (dello 
	Stato), non avrebbe più il potere di fare la legge. Non sarebbe più sovrano.
	 La sovranità bodiniana è dunque assolutamente esclusiva: ponendo il re in 
	veste di legislatore unico, conferisce allo Stato una competenza originaria 
	e illimitata. Pertanto, uno Stato sovrano si definisce come uno Stato il cui 
	principe non dipende da nessun altro se non da se stesso. Questo implica che 
	la nazione si costituisca in Stato, e anche che si identifichi con questo 
	Stato. Per Bodin, un paese può certo esistere per la sua storia, la sua 
	cultura, la sua identità o i suoi costumi, ma politicamente non esiste fin 
	tanto che non si costituisce in Stato, e in Stato sovrano. La sovranità 
	diventa allora il potere assoluto che fonda la repubblica in entità politica 
	essa stessa unica e assoluta. Lo Stato deve essere uno e indivisibile, dal 
	momento che dipende interamente dal monopolio legislativo detenuto dal 
	sovrano. Le autonomie locali non possono essere ammesse che nella misura in 
	cui esse non restringono l’autonomia del principe. Nei fatti, poi, esse non 
	finiranno mai di essere sempre più limitate. Lo Stato diventa così una 
	monade, mentre il sovrano si ritrova “diviso dal popolo”, vale a dire 
	collocato in un isolamento che confina con il solipsismo.
 
	La sovranità bodiniana è dunque assolutamente esclusiva: ponendo il re in 
	veste di legislatore unico, conferisce allo Stato una competenza originaria 
	e illimitata. Pertanto, uno Stato sovrano si definisce come uno Stato il cui 
	principe non dipende da nessun altro se non da se stesso. Questo implica che 
	la nazione si costituisca in Stato, e anche che si identifichi con questo 
	Stato. Per Bodin, un paese può certo esistere per la sua storia, la sua 
	cultura, la sua identità o i suoi costumi, ma politicamente non esiste fin 
	tanto che non si costituisce in Stato, e in Stato sovrano. La sovranità 
	diventa allora il potere assoluto che fonda la repubblica in entità politica 
	essa stessa unica e assoluta. Lo Stato deve essere uno e indivisibile, dal 
	momento che dipende interamente dal monopolio legislativo detenuto dal 
	sovrano. Le autonomie locali non possono essere ammesse che nella misura in 
	cui esse non restringono l’autonomia del principe. Nei fatti, poi, esse non 
	finiranno mai di essere sempre più limitate. Lo Stato diventa così una 
	monade, mentre il sovrano si ritrova “diviso dal popolo”, vale a dire 
	collocato in un isolamento che confina con il solipsismo.
	 Come è evidente, questa nuova teoria è di importanza capitale. Da una parte, 
	essa separa società civile e società politica, divisione di cui il pensiero 
	politico farà grande uso a partire dal XVIII secolo. Dall’altra parte, getta 
	le basi dello Stato-nazione moderno, che questa teoria caratterizza per la 
	natura indivisibile e assoluta del suo potere. Con Bodin, la teoria politica 
	entra pienamente nella modernità. La sovranità secondo Bodin è soprattutto 
	inseparabile dall’idea di una società politica che cancella le appartenenze 
	e le fedeltà particolari, e si insedia sulle rovine delle comunità concrete. 
	Implicitamente, il legame sociale è già ridotto da Bodin ad un contratto 
	governativo che chiama in causa esclusivamente degli individui, che, cioè, 
	elude ogni mediazione tra i membri e il potere. Questa soluzione di 
	continuità tra le comunità prepolitiche e l’unità politica propriamente 
	detta sarà realizzata dalla monarchia assoluta, poi dallo Stato-nazione, che 
	si definisce prima di ogni altra cosa per il suo carattere di omogeneità, 
	sia naturale (omogeneità culturale o etnica) che acquisita (tramite la 
	relegazione delle differenze collettive nella sfera privata). Inoltre, dato 
	il suo egualitarismo implicito, dovuto al fatto che il modello poggia su un 
	legame diretto e incondizionato tra governanti e governati, la concezione 
	bodiniana preannuncia già la ridefinizione del popolo, che si ritiene ora 
	composto unicamente da atomi individuali, tutti quanti posti ad uguale 
	distanza dal potere sovrano.
 
	Come è evidente, questa nuova teoria è di importanza capitale. Da una parte, 
	essa separa società civile e società politica, divisione di cui il pensiero 
	politico farà grande uso a partire dal XVIII secolo. Dall’altra parte, getta 
	le basi dello Stato-nazione moderno, che questa teoria caratterizza per la 
	natura indivisibile e assoluta del suo potere. Con Bodin, la teoria politica 
	entra pienamente nella modernità. La sovranità secondo Bodin è soprattutto 
	inseparabile dall’idea di una società politica che cancella le appartenenze 
	e le fedeltà particolari, e si insedia sulle rovine delle comunità concrete. 
	Implicitamente, il legame sociale è già ridotto da Bodin ad un contratto 
	governativo che chiama in causa esclusivamente degli individui, che, cioè, 
	elude ogni mediazione tra i membri e il potere. Questa soluzione di 
	continuità tra le comunità prepolitiche e l’unità politica propriamente 
	detta sarà realizzata dalla monarchia assoluta, poi dallo Stato-nazione, che 
	si definisce prima di ogni altra cosa per il suo carattere di omogeneità, 
	sia naturale (omogeneità culturale o etnica) che acquisita (tramite la 
	relegazione delle differenze collettive nella sfera privata). Inoltre, dato 
	il suo egualitarismo implicito, dovuto al fatto che il modello poggia su un 
	legame diretto e incondizionato tra governanti e governati, la concezione 
	bodiniana preannuncia già la ridefinizione del popolo, che si ritiene ora 
	composto unicamente da atomi individuali, tutti quanti posti ad uguale 
	distanza dal potere sovrano.
	 Non è difficile scorgere il fondamento religioso di questa dottrina: il modo 
	in cui Bodin concepisce il potere politico non è che una trasposizione in 
	chiave laica del modo assolutista in cui Dio esercita il suo potere, e in 
	cui il Papa regna sulla cristianità, e questo nonostante Bodin rigetti la 
	concezione medievale che faceva del potere una semplice delegazione 
	dell’autorità di Dio. Per Bodin, il principe non si accontenta infatti di 
	detenere un potere “di diritto divino”. Dandosi lui stesso il potere di fare 
	e disfare le leggi a suo piacimento, egli agisce alla stessa maniera di Dio. 
	Egli forma in lui solo un tutto separato, che domina il corpo sociale così 
	come Dio domina il cosmo. In modo simile viene affrontato il tema della 
	rettitudine assoluta del sovrano, che non è che una trasposizione nella 
	sfera politica del Dio cartesiano che può tutto ciò che vuole, ma non 
	saprebbe volere il male. Quindi, dalla sovranità si passa alla pura e 
	semplice infallibilità. Bodin, in altri termini, desacralizza la sovranità 
	togliendola a Dio, ma la risacralizza immediatamente in una forma profana: 
	egli parte dalla sovranità monopolistica e assoluta di Dio per arrivare alla 
	sovranità monopolistica e assoluta dello Stato. Tutta la nascente modernità 
	poggia su questa ambiguità: da un lato, il potere politico comincia a 
	secolarizzarsi; dall’altro il sovrano, ormai identificato con lo Stato, 
	diviene una persona dotata di un potere politico quasi divino, conferma 
	esemplare della tesi di Carl Schmitt secondo cui «tutti i concetti pregnanti 
	della teoria moderna dello Stato sono dei concetti teologici 
	secolarizzati»5. È importante qui notare che la teoria bodiniana della 
	sovranità non implica un tipo di regime particolare. Bodin preferisce la 
	monarchia, poiché il potere lì è per natura più concentrato, ma lui 
	sottolinea che l’esercizio della sovranità così concepita è ugualmente 
	compatibile con il potere di un’aristocrazia, così come con la democrazia, 
	benché in questo caso il rischio di una divisione del potere sia più grande.
 
	Non è difficile scorgere il fondamento religioso di questa dottrina: il modo 
	in cui Bodin concepisce il potere politico non è che una trasposizione in 
	chiave laica del modo assolutista in cui Dio esercita il suo potere, e in 
	cui il Papa regna sulla cristianità, e questo nonostante Bodin rigetti la 
	concezione medievale che faceva del potere una semplice delegazione 
	dell’autorità di Dio. Per Bodin, il principe non si accontenta infatti di 
	detenere un potere “di diritto divino”. Dandosi lui stesso il potere di fare 
	e disfare le leggi a suo piacimento, egli agisce alla stessa maniera di Dio. 
	Egli forma in lui solo un tutto separato, che domina il corpo sociale così 
	come Dio domina il cosmo. In modo simile viene affrontato il tema della 
	rettitudine assoluta del sovrano, che non è che una trasposizione nella 
	sfera politica del Dio cartesiano che può tutto ciò che vuole, ma non 
	saprebbe volere il male. Quindi, dalla sovranità si passa alla pura e 
	semplice infallibilità. Bodin, in altri termini, desacralizza la sovranità 
	togliendola a Dio, ma la risacralizza immediatamente in una forma profana: 
	egli parte dalla sovranità monopolistica e assoluta di Dio per arrivare alla 
	sovranità monopolistica e assoluta dello Stato. Tutta la nascente modernità 
	poggia su questa ambiguità: da un lato, il potere politico comincia a 
	secolarizzarsi; dall’altro il sovrano, ormai identificato con lo Stato, 
	diviene una persona dotata di un potere politico quasi divino, conferma 
	esemplare della tesi di Carl Schmitt secondo cui «tutti i concetti pregnanti 
	della teoria moderna dello Stato sono dei concetti teologici 
	secolarizzati»5. È importante qui notare che la teoria bodiniana della 
	sovranità non implica un tipo di regime particolare. Bodin preferisce la 
	monarchia, poiché il potere lì è per natura più concentrato, ma lui 
	sottolinea che l’esercizio della sovranità così concepita è ugualmente 
	compatibile con il potere di un’aristocrazia, così come con la democrazia, 
	benché in questo caso il rischio di una divisione del potere sia più grande.
	 È ugualmente significativo che l’emergere di una sovranità indivisibile, che 
	esclude qualsiasi limite e qualsiasi controllo, vada di pari passo con un 
	massiccio intervento di giuristi al servizio dello Stato. Erede diretto dei 
	legisti del XIII secolo, i cui lavori permisero alla dinastia capetingia di 
	imporsi sui feudatari, Bodin ricollega, come si è visto, il potere politico 
	alla capacità di fare la legge. Egli aggiunge che il sovrano, quand’anche 
	non sia vincolato alle leggi che lui emana, in compenso può esserlo tramite 
	un contratto che avrebbe sottoscritto, sia con un potere straniero nel caso 
	di un trattato, sia con l’insieme dei suoi sudditi mediante quella che ora 
	si chiama una Costituzione. «Questo – sottolinea Julien Freund – porta Bodin 
	a considerare in fin dei conti la sovranità non più come un fenomeno di 
	potenza e di forza, ma di diritto»6. È questo che permetterà ad alcuni 
	liberali di richiamarsi a Bodin.
 
	È ugualmente significativo che l’emergere di una sovranità indivisibile, che 
	esclude qualsiasi limite e qualsiasi controllo, vada di pari passo con un 
	massiccio intervento di giuristi al servizio dello Stato. Erede diretto dei 
	legisti del XIII secolo, i cui lavori permisero alla dinastia capetingia di 
	imporsi sui feudatari, Bodin ricollega, come si è visto, il potere politico 
	alla capacità di fare la legge. Egli aggiunge che il sovrano, quand’anche 
	non sia vincolato alle leggi che lui emana, in compenso può esserlo tramite 
	un contratto che avrebbe sottoscritto, sia con un potere straniero nel caso 
	di un trattato, sia con l’insieme dei suoi sudditi mediante quella che ora 
	si chiama una Costituzione. «Questo – sottolinea Julien Freund – porta Bodin 
	a considerare in fin dei conti la sovranità non più come un fenomeno di 
	potenza e di forza, ma di diritto»6. È questo che permetterà ad alcuni 
	liberali di richiamarsi a Bodin.
	L’assolutismo rivoluzionario
	La concezione della sovranità caratteristica della monarchia assoluta è 
	stata interamente conservata dalla Rivoluzione francese, che si è limitata a 
	riferirla alla nazione. Da ciò la difficoltà contro cui la repubblica non ha 
	mai cessato di cozzare per conciliare i due primi articoli della 
	Dichiarazione dei diritti, che affermano il primato dei diritti universali 
	dell’individuo, con il terzo, che fa della nazione la sola autorità che 
	abbia competenza della sua competenza: «Il principio di ogni sovranità 
	risiede essenzialmente nella nazione; nessun corpo, nessun individuo può 
	esercitare alcuna autorità che non ne derivi espressamente».
	 È uno dei meriti del libro pubblicato di recente da Ladan Boroumand7 quello 
	di avere stabilito, attraverso un esame minuzioso dei testi, non solo la 
	continuità dell’idea della sovranità assoluta dall’Antico Regime alla 
	Rivoluzione, ma anche che l’affermazione rivoluzionaria del primato della 
	sovranità nazionale non risale al 1792 o al 1793, vale a dire alla salita al 
	potere del partito giacobino, ma precisamente agli esordi stessi del 
	movimento.
 
	È uno dei meriti del libro pubblicato di recente da Ladan Boroumand7 quello 
	di avere stabilito, attraverso un esame minuzioso dei testi, non solo la 
	continuità dell’idea della sovranità assoluta dall’Antico Regime alla 
	Rivoluzione, ma anche che l’affermazione rivoluzionaria del primato della 
	sovranità nazionale non risale al 1792 o al 1793, vale a dire alla salita al 
	potere del partito giacobino, ma precisamente agli esordi stessi del 
	movimento.
Il momento chiave a questo riguardo va fatto risalire alla decisione unilaterale del Terzo Stato di avviare, nel maggio 1789, il processo di verifica dei mandati dei deputati, decisione che dà il via al processo di trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale e fa accedere i deputati alla sovranità politica.
	 Il dibattito che scaturisce allora mira a sapere se il Terzo Stato deve 
	costituirsi in Assemblea del popolo o in Assemblea della nazione. La mozione 
	di Siéyès, che invita i comuni a proclamarsi “Assemblea nazionale”, si 
	oppone a quella di Mirabeau, che propone il nome di “Assemblea dei 
	rappresentanti del popolo”. Il contrasto tra le due mozioni palesa un 
	rivelatore imbarazzo sulla definizione della nazione. Alla fine, è la 
	proposta di Siéyès a prevalere, mentre quella di Mirabeau sarà respinta in 
	quanto, si dice, attenta al diritto della nazione. Ora, secondo Siéyès, la 
	nazione è «un corpo di associati che vivono sotto una legge comune», corpo 
	rigorosamente omogeneo, il cui fondamento è privato di ogni determinazione 
	prepolitica. È a questo corpo, e solo ad esso, che la sovranità deve essere 
	rapportata: «La nazione esiste prima di ogni cosa, è l’origine di tutto. La 
	sua volontà è sempre legale, è la legge stessa»8. Il 17 giungo 1789, Siéyès 
	fa dunque adottare la denominazione di “Assemblea nazionale” con la 
	motivazione, in particolar modo, che la rappresentanza della nazione non può 
	essere che “una e indivisibile”. Presumendo che la volontà generale non si 
	formi che in seno al corpo legislativo, ne risulta che la rappresentanza 
	nazionale a sua volta è la nazione. Da questo istante, la sovranità diviene 
	appannaggio della nazione, ed è “dall’alto” che viene trasferita 
	all’Assemblea: la nazione corrisponde ormai allo spazio di sovranità 
	collettiva che si incarna nell’Assemblea nazionale. Fondamentalmente, la 
	sovranità rivoluzionaria non proviene dunque all’origine dal corpo 
	elettorale, ma rappresenta un semplice trasferimento della sovranità regale: 
	la nazione è stata sancita sovrana, ha rappresentato un fatto compiuto ed 
	una legittimità acquisita anche prima che sia stato discusso lo statuto del 
	cittadino.
 
	Il dibattito che scaturisce allora mira a sapere se il Terzo Stato deve 
	costituirsi in Assemblea del popolo o in Assemblea della nazione. La mozione 
	di Siéyès, che invita i comuni a proclamarsi “Assemblea nazionale”, si 
	oppone a quella di Mirabeau, che propone il nome di “Assemblea dei 
	rappresentanti del popolo”. Il contrasto tra le due mozioni palesa un 
	rivelatore imbarazzo sulla definizione della nazione. Alla fine, è la 
	proposta di Siéyès a prevalere, mentre quella di Mirabeau sarà respinta in 
	quanto, si dice, attenta al diritto della nazione. Ora, secondo Siéyès, la 
	nazione è «un corpo di associati che vivono sotto una legge comune», corpo 
	rigorosamente omogeneo, il cui fondamento è privato di ogni determinazione 
	prepolitica. È a questo corpo, e solo ad esso, che la sovranità deve essere 
	rapportata: «La nazione esiste prima di ogni cosa, è l’origine di tutto. La 
	sua volontà è sempre legale, è la legge stessa»8. Il 17 giungo 1789, Siéyès 
	fa dunque adottare la denominazione di “Assemblea nazionale” con la 
	motivazione, in particolar modo, che la rappresentanza della nazione non può 
	essere che “una e indivisibile”. Presumendo che la volontà generale non si 
	formi che in seno al corpo legislativo, ne risulta che la rappresentanza 
	nazionale a sua volta è la nazione. Da questo istante, la sovranità diviene 
	appannaggio della nazione, ed è “dall’alto” che viene trasferita 
	all’Assemblea: la nazione corrisponde ormai allo spazio di sovranità 
	collettiva che si incarna nell’Assemblea nazionale. Fondamentalmente, la 
	sovranità rivoluzionaria non proviene dunque all’origine dal corpo 
	elettorale, ma rappresenta un semplice trasferimento della sovranità regale: 
	la nazione è stata sancita sovrana, ha rappresentato un fatto compiuto ed 
	una legittimità acquisita anche prima che sia stato discusso lo statuto del 
	cittadino.
	 La Costituzione del 1791 si spinge ancora oltre. Essa precisa che «la 
	sovranità è indivisibile, inalienabile e imprescrittibile» (titolo III, art. 
	1). In realtà, nell’agosto 1791, durante il dibattito che precedette la 
	redazione finale di questo articolo, una prima versione sottoposta 
	all’Assemblea non attribuiva ancora alla sovranità che la sola qualità di 
	indivisibilità. L’inalienabilità venne aggiunta su richiesta di Robespierre. 
	Il 7 settembre 1791, Siéyès dichiara: «La Francia non deve affatto essere 
	una assemblea di piccole nazioni che si governerebbero separatamente in 
	democrazie; non è affatto una collezione di Stati; è un tutto unico, 
	composto di parti integranti». Per estensione, il 25 settembre 1792 la 
	repubblica francese è essa stessa proclamata “una e indivisibile”. I corpi 
	intermedi e le collettività di base si vedono così negare definitivamente 
	ogni propria legittimità. Un anno più tardi, la denuncia giacobina del 
	“pericolo federalista” non mancherà di riprendere questa argomentazione. È 
	in funzione dello stesso principio che i rivoluzionari si sforzeranno di far 
	scomparire i “patois”, e chiederanno la soppressione delle vecchie province 
	e la loro sostituzione con dei dipartimenti geometricamente uguali9.
 
	La Costituzione del 1791 si spinge ancora oltre. Essa precisa che «la 
	sovranità è indivisibile, inalienabile e imprescrittibile» (titolo III, art. 
	1). In realtà, nell’agosto 1791, durante il dibattito che precedette la 
	redazione finale di questo articolo, una prima versione sottoposta 
	all’Assemblea non attribuiva ancora alla sovranità che la sola qualità di 
	indivisibilità. L’inalienabilità venne aggiunta su richiesta di Robespierre. 
	Il 7 settembre 1791, Siéyès dichiara: «La Francia non deve affatto essere 
	una assemblea di piccole nazioni che si governerebbero separatamente in 
	democrazie; non è affatto una collezione di Stati; è un tutto unico, 
	composto di parti integranti». Per estensione, il 25 settembre 1792 la 
	repubblica francese è essa stessa proclamata “una e indivisibile”. I corpi 
	intermedi e le collettività di base si vedono così negare definitivamente 
	ogni propria legittimità. Un anno più tardi, la denuncia giacobina del 
	“pericolo federalista” non mancherà di riprendere questa argomentazione. È 
	in funzione dello stesso principio che i rivoluzionari si sforzeranno di far 
	scomparire i “patois”, e chiederanno la soppressione delle vecchie province 
	e la loro sostituzione con dei dipartimenti geometricamente uguali9.
	 La nozione di popolo riceve parallelamente una definizione totalmente 
	astratta, l’unica che sia suscettibile di accordarsi con l’idea di nazione 
	di cui si è affermata subito la priorità. È la condizione necessaria perché 
	il popolo possa a sua volta essere dichiarato “sovrano”. «Se come realtà 
	oggettiva – scrive Ladan Boroumand – il popolo non poteva essere ammesso 
	alla sfera della sovranità della nazione, entità metafisica per eccellenza, 
	la sua metamorfosi in un essere ideale lo autorizza a partecipare alla 
	logica della sovranità nazionale, senza mettere in pericolo l’esistenza 
	trascendente della nazione, incarnata dalla Rappresentanza»10. Ora, 
	quest’ultima viene concepita essa stessa come la manifestazione di un 
	principio di unità e “indivisibilità” del popolo, che esclude del tutto 
	l’idea di un popolo composto da comunità particolari e di entità distinte. 
	L’idea di nazione, posta come un essere unitario e trascendente la cui unità 
	e indivisibilità sono necessariamente indipendenti da qualsiasi principio ad 
	essa esterno, finisce allora per sovrapporsi alla nozione di popolo fino a 
	sostituirvisi, inaugurando una tradizione che il diritto pubblico francese, 
	da allora, non ha smesso di perpetuare. Infine, la concezione rivoluzionaria 
	della sovranità rende nazionalità e cittadinanza sinonimi: ormai non c’è più 
	del “nazionale” che non sia cittadino (salvo la privazione dei suoi diritti 
	civici) né del cittadino che non sia “nazionale”. Il popolo è talmente tanto 
	“indivisibile” e unitario che è divenuto pura astrazione. È per tale ragione 
	che la Francia, ancora oggi, non è uno Stato federale e non può riconoscere 
	l’esistenza di un popolo corso o bretone.
 
	La nozione di popolo riceve parallelamente una definizione totalmente 
	astratta, l’unica che sia suscettibile di accordarsi con l’idea di nazione 
	di cui si è affermata subito la priorità. È la condizione necessaria perché 
	il popolo possa a sua volta essere dichiarato “sovrano”. «Se come realtà 
	oggettiva – scrive Ladan Boroumand – il popolo non poteva essere ammesso 
	alla sfera della sovranità della nazione, entità metafisica per eccellenza, 
	la sua metamorfosi in un essere ideale lo autorizza a partecipare alla 
	logica della sovranità nazionale, senza mettere in pericolo l’esistenza 
	trascendente della nazione, incarnata dalla Rappresentanza»10. Ora, 
	quest’ultima viene concepita essa stessa come la manifestazione di un 
	principio di unità e “indivisibilità” del popolo, che esclude del tutto 
	l’idea di un popolo composto da comunità particolari e di entità distinte. 
	L’idea di nazione, posta come un essere unitario e trascendente la cui unità 
	e indivisibilità sono necessariamente indipendenti da qualsiasi principio ad 
	essa esterno, finisce allora per sovrapporsi alla nozione di popolo fino a 
	sostituirvisi, inaugurando una tradizione che il diritto pubblico francese, 
	da allora, non ha smesso di perpetuare. Infine, la concezione rivoluzionaria 
	della sovranità rende nazionalità e cittadinanza sinonimi: ormai non c’è più 
	del “nazionale” che non sia cittadino (salvo la privazione dei suoi diritti 
	civici) né del cittadino che non sia “nazionale”. Il popolo è talmente tanto 
	“indivisibile” e unitario che è divenuto pura astrazione. È per tale ragione 
	che la Francia, ancora oggi, non è uno Stato federale e non può riconoscere 
	l’esistenza di un popolo corso o bretone.
	 Così, nella Rivoluzione come nell’Antico Regime, si ritrova la stessa 
	concezione della sovranità come “potere assoluto ed eterno” di una 
	repubblica fonte di tutti i diritti e di tutti i doveri del cittadino. La 
	sovranità dei giacobini non soffre di restrizioni maggiori di quella di Jean 
	Bodin. I rivoluzionari denunciano il “federalismo” negli stessi termini che 
	utilizzava la monarchia assoluta, per esempio, quando rimproverava ai 
	protestanti di volere “dividere” (cantonner) la Francia ad immagine della 
	Svizzera. I rivoluzionari scagliano l’anatema e lottano contro i 
	particolarismi locali nello stesso modo in cui il potere regale si sforzava 
	con ogni mezzo di ridurre l’autonomia dei feudatari. Per legittimare la 
	giustizia rivoluzionaria, avanzano gli stessi argomenti di Richelieu quando 
	difendeva il potere discrezionale del principe. Con la Rivoluzione, la 
	sovranità nazionale si oppone all’assolutismo regale non rinnegando 
	l’assolutismo, ma trasferendo alla nazione le prerogative assolute del re.
 
	Così, nella Rivoluzione come nell’Antico Regime, si ritrova la stessa 
	concezione della sovranità come “potere assoluto ed eterno” di una 
	repubblica fonte di tutti i diritti e di tutti i doveri del cittadino. La 
	sovranità dei giacobini non soffre di restrizioni maggiori di quella di Jean 
	Bodin. I rivoluzionari denunciano il “federalismo” negli stessi termini che 
	utilizzava la monarchia assoluta, per esempio, quando rimproverava ai 
	protestanti di volere “dividere” (cantonner) la Francia ad immagine della 
	Svizzera. I rivoluzionari scagliano l’anatema e lottano contro i 
	particolarismi locali nello stesso modo in cui il potere regale si sforzava 
	con ogni mezzo di ridurre l’autonomia dei feudatari. Per legittimare la 
	giustizia rivoluzionaria, avanzano gli stessi argomenti di Richelieu quando 
	difendeva il potere discrezionale del principe. Con la Rivoluzione, la 
	sovranità nazionale si oppone all’assolutismo regale non rinnegando 
	l’assolutismo, ma trasferendo alla nazione le prerogative assolute del re.
	 «Certo – come scrive Mona Ozouf – gli uomini della Rivoluzione rompono con 
	il vecchio mondo, inventando una società di individui liberi ed uguali. In 
	realtà, avevano ereditato dall’assolutismo un’idea molto più antica e più 
	rigida: quella della sovranità della nazione, corpo mitico che trascende 
	l’ordine degli individui. E questa idea ritrova molto velocemente la sua 
	efficacia, in quanto la sovranità assoluta della nazione viene a colmare lo 
	spazio lasciato vacante [...]. Lo stesso Terrore, lungi dall’essere 
	l’espediente della disperazione escogitato da una Repubblica in pericolo, si 
	inscrive nella logica di questo “prestito” dell’Antico Regime»11. Il 
	Terrore, infatti, se viola in assoluta evidenza il diritto naturale degli 
	individui, non viola in alcun modo il diritto della nazione, che al 
	contrario intende garantire e presentare. «Le similitudini tra l’assolutismo 
	e il giacobinismo si chiariscono» – scrive ancora Ladaman Boroumand – «se i 
	riflessi e gli espedienti politici sono gli stessi a monte e a valle del 
	1789, è perché, infatti, sono informati da uno stesso principio: la 
	sovranità della nazione»12.
 
	«Certo – come scrive Mona Ozouf – gli uomini della Rivoluzione rompono con 
	il vecchio mondo, inventando una società di individui liberi ed uguali. In 
	realtà, avevano ereditato dall’assolutismo un’idea molto più antica e più 
	rigida: quella della sovranità della nazione, corpo mitico che trascende 
	l’ordine degli individui. E questa idea ritrova molto velocemente la sua 
	efficacia, in quanto la sovranità assoluta della nazione viene a colmare lo 
	spazio lasciato vacante [...]. Lo stesso Terrore, lungi dall’essere 
	l’espediente della disperazione escogitato da una Repubblica in pericolo, si 
	inscrive nella logica di questo “prestito” dell’Antico Regime»11. Il 
	Terrore, infatti, se viola in assoluta evidenza il diritto naturale degli 
	individui, non viola in alcun modo il diritto della nazione, che al 
	contrario intende garantire e presentare. «Le similitudini tra l’assolutismo 
	e il giacobinismo si chiariscono» – scrive ancora Ladaman Boroumand – «se i 
	riflessi e gli espedienti politici sono gli stessi a monte e a valle del 
	1789, è perché, infatti, sono informati da uno stesso principio: la 
	sovranità della nazione»12.
	La sovranità e le comunità
	
	 La concezione bodiniana della sovranità in successione, ha ispirato la 
	monarchia assoluta, il giacobinismo rivoluzionario, il nazional-statalismo, 
	l’ideologia repubblicana, i fascismi e i regimi totalitari. Ciò spiega il 
	perché oggi la si possa ritrovare professata da famiglie politiche per altri 
	versi totalmente opposte: “nazionalisti” repubblicani e nazionalisti 
	xenofobi, rivoluzionari e controrivoluzionari, “sovranisti” di destra e di 
	sinistra, avendo in comune tutte queste famiglie il fatto di essere 
	particolarmente attaccate alla nozione di sovranità e, soprattutto, di 
	credere che non la si possa concepire se non nella forma stabilita da Jean 
	Bodin. Eppure è un’idea completamente diversa della sovranità quella che si 
	trova esposta, agli inizi del XVII secolo, dal Johannes Althusius nella sua 
	opera principale, la Politica methodice digesta (1603).
 
	La concezione bodiniana della sovranità in successione, ha ispirato la 
	monarchia assoluta, il giacobinismo rivoluzionario, il nazional-statalismo, 
	l’ideologia repubblicana, i fascismi e i regimi totalitari. Ciò spiega il 
	perché oggi la si possa ritrovare professata da famiglie politiche per altri 
	versi totalmente opposte: “nazionalisti” repubblicani e nazionalisti 
	xenofobi, rivoluzionari e controrivoluzionari, “sovranisti” di destra e di 
	sinistra, avendo in comune tutte queste famiglie il fatto di essere 
	particolarmente attaccate alla nozione di sovranità e, soprattutto, di 
	credere che non la si possa concepire se non nella forma stabilita da Jean 
	Bodin. Eppure è un’idea completamente diversa della sovranità quella che si 
	trova esposta, agli inizi del XVII secolo, dal Johannes Althusius nella sua 
	opera principale, la Politica methodice digesta (1603).
	 Avversario di Bodin, Althusius (1557-1638) si basa su Aristotele per 
	descrivere l’uomo come un essere sociale, incline per natura alla 
	solidarietà mutuale e alla reciprocità (la veicolazione dei beni, dei 
	servizi e dei diritti). La scienza politica a suo giudizio consiste nella 
	descrizione metodica delle condizioni della vita sociale, da cui il nome di 
	“simbiotico” che lui utilizza per caratterizzare il suo modo di procedere. 
	Rigettando l’idea di un individuo autosufficiente, Althusius afferma che la 
	società è sempre prima in rapporto ai suoi membri (o “simbionti”), e che si 
	costituisce mediante una serie di patti politici e sociali conclusi in 
	successione l’un l’altro, che procedono a partire dalla base, da una 
	moltitudine di associazioni (o “consociazioni”) autonome, naturali e 
	istituzionali, pubbliche e private: famiglie e nuclei familiari, gilde e 
	corporazioni, comunità civili e collegi secolari, città e province eccetera. 
	Queste “consociazioni” si incastrano le une nelle altre in un ordine che va 
	dal più semplice al più complesso. Gli individui vi contrattano ad ogni 
	livello, non in quanto atomi individuali, ma come membri di una comunità già 
	esistente, e questa non abbandona mai la totalità dei suoi diritti a 
	beneficio di una società più vasta. Althusius riprende qui la nozione di 
	rappresentanza in un senso totalmente diverso dal pensiero contrattualista: 
	il contratto sociale, a suo giudizio, non è un atto unico che nasce da 
	libere volontà individuali, ma una “alleanza” (foedus) che integra in un 
	processo continuo di comunicazione “simbiotica” degli individui definiti in 
	primo luogo dalle loro appartenenze.
 
	Avversario di Bodin, Althusius (1557-1638) si basa su Aristotele per 
	descrivere l’uomo come un essere sociale, incline per natura alla 
	solidarietà mutuale e alla reciprocità (la veicolazione dei beni, dei 
	servizi e dei diritti). La scienza politica a suo giudizio consiste nella 
	descrizione metodica delle condizioni della vita sociale, da cui il nome di 
	“simbiotico” che lui utilizza per caratterizzare il suo modo di procedere. 
	Rigettando l’idea di un individuo autosufficiente, Althusius afferma che la 
	società è sempre prima in rapporto ai suoi membri (o “simbionti”), e che si 
	costituisce mediante una serie di patti politici e sociali conclusi in 
	successione l’un l’altro, che procedono a partire dalla base, da una 
	moltitudine di associazioni (o “consociazioni”) autonome, naturali e 
	istituzionali, pubbliche e private: famiglie e nuclei familiari, gilde e 
	corporazioni, comunità civili e collegi secolari, città e province eccetera. 
	Queste “consociazioni” si incastrano le une nelle altre in un ordine che va 
	dal più semplice al più complesso. Gli individui vi contrattano ad ogni 
	livello, non in quanto atomi individuali, ma come membri di una comunità già 
	esistente, e questa non abbandona mai la totalità dei suoi diritti a 
	beneficio di una società più vasta. Althusius riprende qui la nozione di 
	rappresentanza in un senso totalmente diverso dal pensiero contrattualista: 
	il contratto sociale, a suo giudizio, non è un atto unico che nasce da 
	libere volontà individuali, ma una “alleanza” (foedus) che integra in un 
	processo continuo di comunicazione “simbiotica” degli individui definiti in 
	primo luogo dalle loro appartenenze.
	 La società globale, alla quale Althusius dà il nome di “comunità simbiotica 
	integrale”, si definisce in questa prospettiva come un’organizzazione 
	ascendente di comunità plurali,costituite a loro volta sulla base di 
	associazioni anteriori e di appartenenze multiple, e che dispongono di 
	potere che si sovrappongono gli uni agli altri. Il corpo politico è il 
	risultato di questo processo di inglobamento comunitario, in cui ciascun 
	livello trae la sua legittimità e la sua capacità di azione dal rispetto 
	dell’autonomia dei livelli inferiori13. L’azione pubblica mira ad articolare 
	a tutti i livelli la solidarietà mutuale e l’autonomia degli attori 
	collettivi, il cui consenso deve essere reso possibile ed organizzato in una 
	dialettica aperta del generale e del particolare, essendo l’idea 
	fondamentale quella che «ciò che dipende da tutti deve essere anche da tutti 
	approvato» («quod omnes tangit, ab omnibus approbetur»). Si può parlare in 
	questo caso di “sistema ascendente di federalizzazione consecutiva”14, o 
	ancora di “democrazia consociativa” (Arendt, Lijphart).
 
	La società globale, alla quale Althusius dà il nome di “comunità simbiotica 
	integrale”, si definisce in questa prospettiva come un’organizzazione 
	ascendente di comunità plurali,costituite a loro volta sulla base di 
	associazioni anteriori e di appartenenze multiple, e che dispongono di 
	potere che si sovrappongono gli uni agli altri. Il corpo politico è il 
	risultato di questo processo di inglobamento comunitario, in cui ciascun 
	livello trae la sua legittimità e la sua capacità di azione dal rispetto 
	dell’autonomia dei livelli inferiori13. L’azione pubblica mira ad articolare 
	a tutti i livelli la solidarietà mutuale e l’autonomia degli attori 
	collettivi, il cui consenso deve essere reso possibile ed organizzato in una 
	dialettica aperta del generale e del particolare, essendo l’idea 
	fondamentale quella che «ciò che dipende da tutti deve essere anche da tutti 
	approvato» («quod omnes tangit, ab omnibus approbetur»). Si può parlare in 
	questo caso di “sistema ascendente di federalizzazione consecutiva”14, o 
	ancora di “democrazia consociativa” (Arendt, Lijphart).
	 Secondo Althusius, la sovranità o “maestà” appartiene al popolo, e giammai 
	cessa di appartenergli. È imprescrittibile poiché risiede in modo 
	inalienabile nella comunità popolare e poiché «non esiste un potere assoluto 
	personale all’interno di una comunità». Il popolo può delegarla, ma non 
	privarsene. «Il diritto di maestà – scrive Althusius – non può essere 
	ceduto, abbandonato o alienato da colui che ne è il proprietario [...]. 
	Questo diritto è stato sancito da tutti coloro i quali fanno parte del reame 
	e da ciascuno di essi. Sono loro che lo fanno nascere; senza di essi, questo 
	diritto non può essere né sancito né mantenuto». «Io ho ricollegato alla 
	politica i diritti di maestà. Ma io li ho attribuiti al regno, ovvero alla 
	repubblica o al popolo», precisa ancora Althusius, che aggiunge che non ha 
	«cura dei clamori di Bodin».
 
	Secondo Althusius, la sovranità o “maestà” appartiene al popolo, e giammai 
	cessa di appartenergli. È imprescrittibile poiché risiede in modo 
	inalienabile nella comunità popolare e poiché «non esiste un potere assoluto 
	personale all’interno di una comunità». Il popolo può delegarla, ma non 
	privarsene. «Il diritto di maestà – scrive Althusius – non può essere 
	ceduto, abbandonato o alienato da colui che ne è il proprietario [...]. 
	Questo diritto è stato sancito da tutti coloro i quali fanno parte del reame 
	e da ciascuno di essi. Sono loro che lo fanno nascere; senza di essi, questo 
	diritto non può essere né sancito né mantenuto». «Io ho ricollegato alla 
	politica i diritti di maestà. Ma io li ho attribuiti al regno, ovvero alla 
	repubblica o al popolo», precisa ancora Althusius, che aggiunge che non ha 
	«cura dei clamori di Bodin».
	 Lungi dal rescindere ogni legame col popolo, la sovranità dunque dal popolo 
	emana direttamente. Il principe non occupa il suo ufficio che per 
	derivazione dal diritto permanente del popolo ad autogovernarsi. Egli non 
	possiede altra autorità che quella di essere investito dal popolo, non sotto 
	forma di un trasferimento di potere che il popolo abbandonerebbe a suo 
	profitto, ma mediante la delega di un potere che il popolo non cessa in 
	alcun momento di possedere, intrinsecamente e sostanzialmente. In altri 
	termini, il principe esercita il suo potere sotto il controllo del popolo, e 
	non ne può fare uso che al servizio del bene comune, che rimane la sua 
	finalità principale. Il principe non comanda dunque alla società come se ne 
	fosse slegato o indipendente. Non è il proprietario della sovranità, ma il 
	suo depositario: lui non gode che dei diritti di questa sovranità. Si 
	ritroverà la stessa idea in Rousseau, ma con una differenza essenziale: 
	mentre Rousseau, che non ammette che una società fondamentalmente unitaria e 
	omogenea, fa derivare dalla sua teoria della volontà generale il rifiuto 
	assoluto di ogni “società parziale”15, il sistema di Althusius si fonda sul 
	rispetto di tutte le appartenenze e la rappresentanza di tutte le identità 
	particolari.
 
	Lungi dal rescindere ogni legame col popolo, la sovranità dunque dal popolo 
	emana direttamente. Il principe non occupa il suo ufficio che per 
	derivazione dal diritto permanente del popolo ad autogovernarsi. Egli non 
	possiede altra autorità che quella di essere investito dal popolo, non sotto 
	forma di un trasferimento di potere che il popolo abbandonerebbe a suo 
	profitto, ma mediante la delega di un potere che il popolo non cessa in 
	alcun momento di possedere, intrinsecamente e sostanzialmente. In altri 
	termini, il principe esercita il suo potere sotto il controllo del popolo, e 
	non ne può fare uso che al servizio del bene comune, che rimane la sua 
	finalità principale. Il principe non comanda dunque alla società come se ne 
	fosse slegato o indipendente. Non è il proprietario della sovranità, ma il 
	suo depositario: lui non gode che dei diritti di questa sovranità. Si 
	ritroverà la stessa idea in Rousseau, ma con una differenza essenziale: 
	mentre Rousseau, che non ammette che una società fondamentalmente unitaria e 
	omogenea, fa derivare dalla sua teoria della volontà generale il rifiuto 
	assoluto di ogni “società parziale”15, il sistema di Althusius si fonda sul 
	rispetto di tutte le appartenenze e la rappresentanza di tutte le identità 
	particolari.
	 La sovranità, peraltro, non è assoluta, ma al contrario ripartita o 
	suddivisa. Ispirandosi a sua volta al modello imperiale, alle antiche 
	“libertà” comunali germaniche e ai meccanismi di funzionamento mutuali e 
	cooperativi delle antiche città anseatiche, Althusius prevede che a ciascun 
	gradino della società si debbano trovare due tipi di organi, quelli che 
	rappresentano le comunità inferiori, che sono fondati per trattenere al loro 
	livello quanto più potere possono esercitare concretamente, e quelli che 
	rappresentano i livelli superiori, le cui attribuzioni sono sempre limitate 
	dai primi. Ciascun livello nomina i suoi dirigenti, che sono anche i suoi 
	rappresentanti al livello superiore, sulla base di una delega di potere che 
	gli può essere revocata in ogni momento. Essendo le deleghe sempre 
	condizionali, il potere del livello superiore poggia sul consenso dei 
	livelli inferiori. Lo Stato è così superiore a ciascuno dei livelli che si 
	trovano al di sotto di esso, ma non all’insieme che formano stando riuniti. 
	Lo stesso principe, come si è visto, esercita il suo potere sovrano per 
	delega, sulla base di un patto reciproco in cui viene considerato come il 
	mandatario e il popolo (la “comunità simbiotica”) come il mandante. Il 
	potere del principe, allora, è certamente un potere supremo, poiché è quello 
	il cui ambito giurisdizionale è il più vasto, ma non è certo meno limitato 
	dall’autonomia delle “consociazioni”, che gli impediscono di attentare ai 
	poteri particolari di cui esse godono. Il principio della sovranità viene 
	conservato, ma subordinato al consenso degli associati.
 
	La sovranità, peraltro, non è assoluta, ma al contrario ripartita o 
	suddivisa. Ispirandosi a sua volta al modello imperiale, alle antiche 
	“libertà” comunali germaniche e ai meccanismi di funzionamento mutuali e 
	cooperativi delle antiche città anseatiche, Althusius prevede che a ciascun 
	gradino della società si debbano trovare due tipi di organi, quelli che 
	rappresentano le comunità inferiori, che sono fondati per trattenere al loro 
	livello quanto più potere possono esercitare concretamente, e quelli che 
	rappresentano i livelli superiori, le cui attribuzioni sono sempre limitate 
	dai primi. Ciascun livello nomina i suoi dirigenti, che sono anche i suoi 
	rappresentanti al livello superiore, sulla base di una delega di potere che 
	gli può essere revocata in ogni momento. Essendo le deleghe sempre 
	condizionali, il potere del livello superiore poggia sul consenso dei 
	livelli inferiori. Lo Stato è così superiore a ciascuno dei livelli che si 
	trovano al di sotto di esso, ma non all’insieme che formano stando riuniti. 
	Lo stesso principe, come si è visto, esercita il suo potere sovrano per 
	delega, sulla base di un patto reciproco in cui viene considerato come il 
	mandatario e il popolo (la “comunità simbiotica”) come il mandante. Il 
	potere del principe, allora, è certamente un potere supremo, poiché è quello 
	il cui ambito giurisdizionale è il più vasto, ma non è certo meno limitato 
	dall’autonomia delle “consociazioni”, che gli impediscono di attentare ai 
	poteri particolari di cui esse godono. Il principio della sovranità viene 
	conservato, ma subordinato al consenso degli associati.
	 In Althusius, la sovranità non è dunque in alcun modo sinonimo di 
	onnicompetenza, come in Bodin. Essa rappresenta solamente il livello di 
	potere che dispone delle più ampie capacità di decisione e di esecuzione. Il 
	sovrano non è colui che può fare qualsiasi cosa a suo piacimento, senza 
	dover rendere conto a chicchessia. È colui che dispone di un potere più 
	esteso che quello degli altri, ma lo può usare solo fintanto che questo 
	potere gli viene riconosciuto o concesso. A tutti i livelli esiste uno 
	“scambio di sovranità”, vale a dire una differenziazione di istanze, una 
	divisione di competenze che procedono dal gradino più basso verso il gradino 
	più elevato. Mentre la sovranità bodiniana è al tempo stesso una piramide ed 
	una circonferenza la cui intera superficie è ordinata verso il centro, la 
	sovranità in Althusius è di tipo “labirintico”: poggiando sul principio 
	essenziale secondo cui “il vassallo del mio vassallo non è mio vassallo”, 
	essa implica la pluralità, l’autonomia, l’intreccio di livelli di potere e 
	di autorità.
 
	In Althusius, la sovranità non è dunque in alcun modo sinonimo di 
	onnicompetenza, come in Bodin. Essa rappresenta solamente il livello di 
	potere che dispone delle più ampie capacità di decisione e di esecuzione. Il 
	sovrano non è colui che può fare qualsiasi cosa a suo piacimento, senza 
	dover rendere conto a chicchessia. È colui che dispone di un potere più 
	esteso che quello degli altri, ma lo può usare solo fintanto che questo 
	potere gli viene riconosciuto o concesso. A tutti i livelli esiste uno 
	“scambio di sovranità”, vale a dire una differenziazione di istanze, una 
	divisione di competenze che procedono dal gradino più basso verso il gradino 
	più elevato. Mentre la sovranità bodiniana è al tempo stesso una piramide ed 
	una circonferenza la cui intera superficie è ordinata verso il centro, la 
	sovranità in Althusius è di tipo “labirintico”: poggiando sul principio 
	essenziale secondo cui “il vassallo del mio vassallo non è mio vassallo”, 
	essa implica la pluralità, l’autonomia, l’intreccio di livelli di potere e 
	di autorità.
	Comunità e sussidiarietà
	
	 Il modello bodiniano ha prevalso a partire dai trattati di Westfalia (1648), 
	ed è su questo modello che si è costruito lo Stato-nazione, la forma più 
	tipica della politia della modernità. Ma in realtà, come osserva Chantal 
	Delsoi, «della sovranità di Bodin non regge ormai che la facciata. Nella 
	situazione attuale, non ha più né esistenza concreta né legittimità 
	riconoscibile»16. L’idea di Stato-nazione, che ha regnato in Europa dalla 
	pace di Westfalia fino alla prima metà del XX secolo, arriva oggi al suo 
	termine, dopo che due guerre mondiali ne hanno già sperimentato i limiti. 
	L’erosione dall’alto come dal basso delle capacità dello Stato-nazione segna 
	la fine della modernità, ovvero, in termini politici, l’uscita dall’epoca 
	westfaliana. Finirla con ciò che si è potuto chiamare il “male di Bodin”17 
	implica, dunque, non il rinunciare alla sovranità, ma il riformularla in una 
	nuova ottica, ispirata alle proposte di Althusius. La sovranità del tipo 
	althusiano ha già ispirato in passato alcune costruzioni imperiali o 
	multinazionali. Se ne ritrova l’eco anche in teorici dell’austromarxismo 
	come Otto Bauer e Karl Renner, sostenitori di uno «Stato federativo delle 
	nazionalità»18, in cui la sovranità si trova suddivisa a differenti livelli 
	della vita politica. Ma è soprattutto il federalismo che appare oggi come il 
	più suscettibile di tradurre nei fatti l’idea di una sovranità strettamente 
	associata ai princìpi di autonomia e sussidiarietà, seguendo la consegna di 
	Jacques Maritain che, essendo pronunciato negli anni Trenta per l’Europa 
	federale, raccomandava di sostituire alla «statolatria che imperversa ai 
	giorni nostri» il riconoscimento da parte degli Stati di «un’autonomia 
	relativa più forte che quella che esiste oggi alle comunità più ristrette, 
	alle “piccole patrie” contenute al loro interno»19.
 
	Il modello bodiniano ha prevalso a partire dai trattati di Westfalia (1648), 
	ed è su questo modello che si è costruito lo Stato-nazione, la forma più 
	tipica della politia della modernità. Ma in realtà, come osserva Chantal 
	Delsoi, «della sovranità di Bodin non regge ormai che la facciata. Nella 
	situazione attuale, non ha più né esistenza concreta né legittimità 
	riconoscibile»16. L’idea di Stato-nazione, che ha regnato in Europa dalla 
	pace di Westfalia fino alla prima metà del XX secolo, arriva oggi al suo 
	termine, dopo che due guerre mondiali ne hanno già sperimentato i limiti. 
	L’erosione dall’alto come dal basso delle capacità dello Stato-nazione segna 
	la fine della modernità, ovvero, in termini politici, l’uscita dall’epoca 
	westfaliana. Finirla con ciò che si è potuto chiamare il “male di Bodin”17 
	implica, dunque, non il rinunciare alla sovranità, ma il riformularla in una 
	nuova ottica, ispirata alle proposte di Althusius. La sovranità del tipo 
	althusiano ha già ispirato in passato alcune costruzioni imperiali o 
	multinazionali. Se ne ritrova l’eco anche in teorici dell’austromarxismo 
	come Otto Bauer e Karl Renner, sostenitori di uno «Stato federativo delle 
	nazionalità»18, in cui la sovranità si trova suddivisa a differenti livelli 
	della vita politica. Ma è soprattutto il federalismo che appare oggi come il 
	più suscettibile di tradurre nei fatti l’idea di una sovranità strettamente 
	associata ai princìpi di autonomia e sussidiarietà, seguendo la consegna di 
	Jacques Maritain che, essendo pronunciato negli anni Trenta per l’Europa 
	federale, raccomandava di sostituire alla «statolatria che imperversa ai 
	giorni nostri» il riconoscimento da parte degli Stati di «un’autonomia 
	relativa più forte che quella che esiste oggi alle comunità più ristrette, 
	alle “piccole patrie” contenute al loro interno»19.
	 Vera chiave di volta del sistema di Althusius, il principio di sussidiarietà 
	esige che le decisioni vengano sempre prese al più basso livello possibile, 
	da parte di coloro che ne subiscono più direttamente le conseguenze. Tale 
	principio, allora, implica che le unità politiche più piccole detengano 
	delle competenze autonome sostanziali e che siano allo stesso tempo 
	rappresentate collettivamente ai livelli di potere più elevati. Non si 
	tratta in questo caso di decentralizzare. Nella decentralizzazione, il 
	potere locale non è mai titolare che di quella quota di autorità che il 
	potere centrale decide di concedergli: non rappresenta che una delega di 
	questo potere centrale, che resta il nocciolo sostanziale della vita 
	pubblica in una appercezione strettamente piramidale della società. Con la 
	sussidiarietà, il movimento è inverso: il livello locale delega ai gradini 
	superiori solo le responsabilità e i compiti di cui non può farsi 
	direttamente carico, fa risalire al livello superiore solo le competenze che 
	non può assumersi, mentre risolve con i propri mezzi tutti i problemi che 
	può effettivamente risolvere, assumendosi in prima persona le conseguenze 
	delle sue decisioni e delle sue scelte. La sussidiarietà rappresenta dunque 
	una divisione di competenze secondo il criterio della sufficienza o 
	dell’insufficienza: ogni livello di autorità conserva le competenze per le 
	quali è sufficiente. Ne consegue per esempio che ciascuna comunità, 
	piuttosto che vedersi imporre una offerta standardizzata di beni e di 
	servizi, deve poter decidere liberamente per proprio conto i beni e i 
	servizi che reputa le siano necessari.
 
	Vera chiave di volta del sistema di Althusius, il principio di sussidiarietà 
	esige che le decisioni vengano sempre prese al più basso livello possibile, 
	da parte di coloro che ne subiscono più direttamente le conseguenze. Tale 
	principio, allora, implica che le unità politiche più piccole detengano 
	delle competenze autonome sostanziali e che siano allo stesso tempo 
	rappresentate collettivamente ai livelli di potere più elevati. Non si 
	tratta in questo caso di decentralizzare. Nella decentralizzazione, il 
	potere locale non è mai titolare che di quella quota di autorità che il 
	potere centrale decide di concedergli: non rappresenta che una delega di 
	questo potere centrale, che resta il nocciolo sostanziale della vita 
	pubblica in una appercezione strettamente piramidale della società. Con la 
	sussidiarietà, il movimento è inverso: il livello locale delega ai gradini 
	superiori solo le responsabilità e i compiti di cui non può farsi 
	direttamente carico, fa risalire al livello superiore solo le competenze che 
	non può assumersi, mentre risolve con i propri mezzi tutti i problemi che 
	può effettivamente risolvere, assumendosi in prima persona le conseguenze 
	delle sue decisioni e delle sue scelte. La sussidiarietà rappresenta dunque 
	una divisione di competenze secondo il criterio della sufficienza o 
	dell’insufficienza: ogni livello di autorità conserva le competenze per le 
	quali è sufficiente. Ne consegue per esempio che ciascuna comunità, 
	piuttosto che vedersi imporre una offerta standardizzata di beni e di 
	servizi, deve poter decidere liberamente per proprio conto i beni e i 
	servizi che reputa le siano necessari.
	 La sussidiarietà è direttamente antagonista della concezione bodiniana della 
	sovranità che poggia non sul criterio della sufficienza, ma su quello della 
	capacità superiore. In questo schema, lo Stato centrale non fa che 
	richiedere per se stesso tutta l’autorità, poiché si presume che sia sempre 
	eccezionalmente capace per principio. La concezione bodiniana della 
	sovranità è peraltro compatibile tanto con un regime dittatoriale che con un 
	regime democratico. Ma nel secondo caso, la sola possibilità che offre ai 
	cittadini è quella della scelta dei propri rappresentanti. Il principio 
	federalista di sussidiarietà, al contrario, è incompatibile con ogni forma 
	di dittatura, e si spinge molto più avanti anche in democrazia, in quanto 
	riconosce agli individui e ai gruppi non solamente la capacità di scegliersi 
	i propri rappresentanti, ma la capacità di partecipare al loro livello alla 
	vita pubblica, decidendo attraverso loro stessi e per loro stessi. «La 
	società francese di oggi è democratica – nota a questo proposito Chantal 
	Delsol – ma non è sussidiaria, perché lascia troppo poco spazio 
	all’autonomia d’azione dei gruppi costituiti, preferendo fare affidamento 
	sullo Stato centrale per realizzare ciò che è stato deciso 
	democraticamente». Il principio di sussidiarietà implica l’autonomia e la 
	responsabilità, mentre la sovranità bodiniana, che poggia su un postulato di 
	sfiducia nei confronti dei gruppi organizzati, consacra l’eteronomia, 
	l’irresponsabilità e l’assistenzialismo generalizzato.
 
	La sussidiarietà è direttamente antagonista della concezione bodiniana della 
	sovranità che poggia non sul criterio della sufficienza, ma su quello della 
	capacità superiore. In questo schema, lo Stato centrale non fa che 
	richiedere per se stesso tutta l’autorità, poiché si presume che sia sempre 
	eccezionalmente capace per principio. La concezione bodiniana della 
	sovranità è peraltro compatibile tanto con un regime dittatoriale che con un 
	regime democratico. Ma nel secondo caso, la sola possibilità che offre ai 
	cittadini è quella della scelta dei propri rappresentanti. Il principio 
	federalista di sussidiarietà, al contrario, è incompatibile con ogni forma 
	di dittatura, e si spinge molto più avanti anche in democrazia, in quanto 
	riconosce agli individui e ai gruppi non solamente la capacità di scegliersi 
	i propri rappresentanti, ma la capacità di partecipare al loro livello alla 
	vita pubblica, decidendo attraverso loro stessi e per loro stessi. «La 
	società francese di oggi è democratica – nota a questo proposito Chantal 
	Delsol – ma non è sussidiaria, perché lascia troppo poco spazio 
	all’autonomia d’azione dei gruppi costituiti, preferendo fare affidamento 
	sullo Stato centrale per realizzare ciò che è stato deciso 
	democraticamente». Il principio di sussidiarietà implica l’autonomia e la 
	responsabilità, mentre la sovranità bodiniana, che poggia su un postulato di 
	sfiducia nei confronti dei gruppi organizzati, consacra l’eteronomia, 
	l’irresponsabilità e l’assistenzialismo generalizzato.
	 In una tale prospettiva, l’esistenza di comunità o di gruppi di interesse 
	particolari non ostacola la ricerca del bene comune. È, piuttosto, proprio 
	l’estensione delle procedure democratiche che impedisce alle fazioni di 
	imporsi a detrimento dell’interesse generale. La nazione si definisce allora 
	come una comunità di comunità, che non solamente può prendere posto in una 
	comunità più vasta, di tipo sovranazionale, ma in cui le comunità 
	particolari possono ugualmente scegliere parallelamente di avvicinarsi ad 
	altre comunità. Mentre il punto di vista giacobino fa della sovranità il 
	garante dell’unità nazionale, il principio di sussidiarietà fa della 
	preservazione della pluralità una garanzia della sovranità. Allora, 
	un’Europa concepita positivamente – cioè un’Europa federale – non sarà il 
	dissolvente delle sovranità ancora esistenti, ma lo strumento della loro 
	rinascita per mezzo di una sovranità europea pensata e messa in pratica in 
	maniera differente.
 
	In una tale prospettiva, l’esistenza di comunità o di gruppi di interesse 
	particolari non ostacola la ricerca del bene comune. È, piuttosto, proprio 
	l’estensione delle procedure democratiche che impedisce alle fazioni di 
	imporsi a detrimento dell’interesse generale. La nazione si definisce allora 
	come una comunità di comunità, che non solamente può prendere posto in una 
	comunità più vasta, di tipo sovranazionale, ma in cui le comunità 
	particolari possono ugualmente scegliere parallelamente di avvicinarsi ad 
	altre comunità. Mentre il punto di vista giacobino fa della sovranità il 
	garante dell’unità nazionale, il principio di sussidiarietà fa della 
	preservazione della pluralità una garanzia della sovranità. Allora, 
	un’Europa concepita positivamente – cioè un’Europa federale – non sarà il 
	dissolvente delle sovranità ancora esistenti, ma lo strumento della loro 
	rinascita per mezzo di una sovranità europea pensata e messa in pratica in 
	maniera differente. 
(traduzione dal francese di Angelo Mellone)
	Note
	1. A. James, Sovereign Statehodd, Allen & Unwin, London, 1986; F. H. 
	Hinsley, Sovereignty, II ed., Cambridge University Press, 1986; Justin 
	Rosenberg, The Empire of Civil Society, Verso, London, 1994.
	2. Sovereignty, Open University Press, Buckimgham, 1998. Dello stesso 
	autore: Beyond the State, Polity Press, Cambridge, 1995. Cfr. anche Andrew 
	Vincent, Theories of the State, Basil Blackwell, Oxford, 1987, p. 32.
	3. I sei libri della Repubblica.
	4. Ibid., I, 8.
	5. Théologie politique, Gallimard, 1988, pp. 46-47.
	6. Siéyes, Che cos’è il terzo Stato?, p.180.
	7. La guerre des principes. Les 
	assemblées révolutionnaires face aux droits de l’homme et à la souveraineté 
	de la nation, mai 1789-juillet 1794, Ecole des hautes études en sciences 
	sociales, 1999. 
	8. Siéyès, Cos’è il terzo stato? Op. cit., pp.165-166.
	9. R. Debbasch, Le principe révolutionnaire d’unité et d’indivisibilité de 
	la Republique, Economica, 1988; L. Jaume, Le discours jacobin et la 
	democratie, Fayard, 1999.
	10. Op. cit., pp.165-166.
	11. Prefazione a L. Boroumand, op. cit., p.10.
	12. Ibid., p.535.
	13. Su Althusius, cfr. A. de Benoist, “Johannes Althusius, 1557-1638”, in 
	Krisis, marzo 1999, pp.2-34. Cfr. anche C. Delsol, L’Etat subsidiaire, PUF, 
	Paris, 1992; e “Souveraineté et subsdiarieté, ou l’Europa contre Bodin”, in 
	La Revue Tocqueville-The Tocqueville Review, 1998, 2.
	14. T. O. Hueglin, “Le fédéralisme d’Althusius dans un monde 
	post-westphalien”, in L’Europe en formation, primavera 1999, p. 33. Dello 
	stesso autore: Community-Federalism-Subsidiarity, Wilfrid Laurier University 
	Press, Waterloo, 1999.
	15. Il Contratto sociale, II, p. 3.
	16. “Souveraineté et subsidiarité, ou l’Europe contre Bodin”, art. cit., p. 
	53.
	17. H. Mendras, “Le ‘Mal de Bodin’. A la recherce d’une souveraineté 
	perdue”, in Le Débat, maggio-agosto 1999, p. 72.
	18. Cfr. T. Bottomore e P. Goode (a cura di), Austro-Marxism, Clarendon 
	Press, Oxford, 1978; K. Renner, La nation, mythe et réalité, Presses 
	universitaires de Nancy, Nancy, 1998.
	19. “Europe and the Federal Idea”, in The Commonwealth, 19 e 26 aprile 1940, 
	testo citato in: J. Maritain, L’Europe et l’idée fédérale, Mame, Parigi, 
	1993, pp. 15-47. L’incompatibilità del federalismo con l’idea bodiniana di 
	sovranità è stata regolarmente sottolineata, in particolare da H. Laski 
	(Studies in the Problem of Sovereignity, Yale University Press, New Haven, 
	1917; The State in Theory and Practice, George Allen & Unwin, Londra, 1935) 
	e da R. Dahl (Who Governs?, Yale University Press, New Haven, 1961)
	 Alain de Benoist, scrittore e saggista, direttore delle riviste Éléments 
	e Krisis..
	Alain de Benoist, scrittore e saggista, direttore delle riviste Éléments 
	e Krisis..
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