Le sette vite del Caimano
di Mario Sechi
Ideazione di maggio-giugno 2006

In preda alla sbornia da exit poll i leader dell’Unione il pomeriggio del 10 aprile si esibivano nella teoria della “fine dell’era Berlusconi”. Qualche ora dopo, quel castello di pensieri in aria cascava miseramente sul risultato elettorale. Quello vero, non quello immaginario e immaginato. L’era Berlusconi non è finita, il berlusconismo come fenomeno della società politica italiana non è in archivio e le analisi (si fa per dire) pre e post voto degli anti-berlusconiani continuano ad essere dei ferrivecchi che non aprono nessuna porta.
Aveva capito tutto Francesco Rutelli, alla vigilia del voto, quando avvertiva gli alleati: “Non ci sarà un dopo Berlusconi”. Aveva intuito lo scenario ma sotto sotto sperava che quel sospetto non divenisse l’incubo della notte elettorale. Così invece è stato e i primi vagiti dell’Unione di lotta e di governo sull’interpretazione del successo di Forza Italia e del suo leader fanno ben sperare per il futuro: ancora una volta non hanno capito cosa pensa l’Italia che ha scelto il Cavaliere.
Il principe del soliloquio, Eugenio Scalfari, il 16 aprile ha dedicato la sua messa domenicale al paese spaccato in due e già dal titolo il suo articolo prometteva faville: “Metà Italia s’è turata il naso”. Leggere il Fondatore è un imperativo quando uno vuol capire le idee che circolano nella sinistra. Scalfari, al contrario di quel che si pensa, non è affatto il teorico del pensiero radical chic, è invece colui che da par suo mette il belletto al common sense del popolo della sinistra de’ noantri. Trasforma il pensiero ruspante in articoli prolissi al termine dei quali ci si gratta la testa e si chiama l’interprete.
Appropriandosi di un motto di Indro Montanelli, Scalfari offre la sua visione del problema sin dalle prime righe, cogliendo un foglio dal suo epistolario: «Un lettore ci ha scritto nei giorni scorsi: “Sono abbastanza colto, ho letto più o meno gli stessi libri e ascoltato le stesse musiche dei miei amici di sinistra (ne ho più d’uno), viaggio all’estero per lavoro e per diporto; insomma sono un italiano come milioni di altri, ma non ho mai votato e mai voterò per la sinistra. Non mi appartiene e non le appartengo. Non so spiegare perché ma questo è il mio modo di sentire”. Ebbene, non è un caso sporadico quello del nostro lettore, anzi è molto diffuso tra le due inconciliabili metà della mela italiana, il che rende assai difficile governare questo nostro paese».
Avete letto bene: non è un caso sporadico. Apprendiamo con gioia che Scalfari ha realizzato che nel centrodestra ci sono persone colte che non votano per la sua parte politica. Quel non è un caso sporadico però tradisce il pregiudizio della superiorità morale e culturale della sinistra. È questo pregiudizio che non consente agli “intellettuali illuministi” di far luce sulla realtà del berlusconismo, le ragioni per cui la metà del popolo italiano preferisce il Cavaliere al Professore.

Quel plebiscito immaginario
Chi guarda la politica senza il paraocchi ideologico, chi oltre a chiedere la ricevuta parla con i tassisti, chi con gli operai non si limita a dare ordini ma ci discute, chi fa un giro all’università e dà un’occhiata fuori dalle aule magne a una dimen
sione, chi si mette in ascolto di quel volgo disperso che nome non ha, ha capito che il 10 aprile all’apertura dell’urna non ci sarebbe stato nessun plebiscito contro Berlusconi.
La risata che avrebbe dovuto seppellire il Cavaliere ha finito per sommergere lo sciame di sondaggisti, sociologi, politici, maître à penser che fino alla vigilia del voto continuava ad accreditare il centrosinistra di un vantaggio incolmabile.
Quando Berlusconi citava i suoi sondaggi americani che parlavano di sostanziale pareggio, i guru della gauche all’amatriciana dicevano che non erano credibili. La sinistra ha continuato a perseverare negli errori del passato. Fu il democristiano Mino Martinazzoli a ironizzare sui «più recenti sondaggi ci dicono che l’87 per cento dei cinesi vorrebbero Berlusconi imperatore della Cina». È stato il post-democristiano Romano Prodi a bofonchiare «c’è un sondaggio cinese che dà in vantaggio il premier del 28 per cento, e addirittura uno ucraino che lo dà al 106 per cento...». Come si vede, dal giorno in cui Berlusconi decise di scendere in campo, non è cambiato niente: il tono è sempre quello della superiorità antropologica, lo scherno l’unica arma dialettica possibile. È un peccato originale del quale la sinistra (intesa qui in senso non solo politico) non riesce a liberarsi. Il fenomeno Berlusconi sfugge alle classificazioni pavloviane dei circoli intellettuali e politici.
Durante la campagna elettorale, il segnale chiarissimo che il berlusconismo non era finito è arrivato da Vicenza, dal giorno in cui il presidente del Consiglio è piombato a sorpresa (il giorno prima aveva disdetto la sua presenza) al convegno di Confindustria sul futuro del paese. Di fronte agli industriali del Nord-Est Silvio Berlusconi ha ritrovato le radici del suo messaggio politico, è tornato alle origini e il suo “scatto” d’orgoglio di fronte ai poteri forti ha prodotto una valanga che ha sepolto il gotha confindustriale. Il discorso fatto agli imprenditori, quel “mi piace parlarvi così” pronunciato con rabbia, quel parlar chiaro rompendo il registro del politicamente corretto, ha scatenato la reazione della platea: applausi a scena aperta e standing ovation per il Cavaliere. La prima fila del cosiddetto “salotto buono” attonita e imbarazzata.
È un’istantanea destinata a entrare nella storia della politica italiana. Come è destinata ad entrare nel guinness dei fiaschi della comunicazione il tentativo di Confindustria di accreditare l’idea che a Vicenza Berlusconi si fosse portato la claque e quelli che applaudivano fossero dei figuranti a gettone. Quest’ultimo episodio è la spia dell’incomprensione del berlusconismo come fenomeno sociale e politico. Il tentativo maldestro di piegare i fatti a proprio piacimento dando una rappresentazione della realtà distorta. Tanto distorta da apparire ridicola. E infatti la prova che quelle mani che applaudivano non erano un incidente ma qualcosa di più profondo è arrivata puntuale con lo spoglio dei voti: tutto il Nord ha votato in blocco per il centrodestra e gli stessi opinionisti e sociologi che parlavano di fine del berlusconismo si sono ritrovati a scrivere di “questione settentrionale”.
Il paese dipinto dalla propaganda della sinistra e dai suoi analisti di complemento semplicemente non esiste. Quando Berlusconi spiegava nei suoi comizi che l’Italia non è in declino, che è un paese ricco, che le sfide vanno affrontate con più pragmatismo e meno ideologia, veniva bollato come un uomo non più in possesso delle proprie facoltà mentali. E invece Berlusconi sapeva benissimo di parlare al paese reale, cercava di conquistare il cuore e la mente dei suoi potenziali elettori.
Eugenio Scalfari – torniamo ancora a lui perché le sue performance sono una miniera di esempi sul come non si fa politica – ha liquidato lo straordinario recupero di Berlusconi alla voce: c’è stato un grande errore di comunicazione dell’Unione sulla questione tasse. Si tratta di un fatto vero, ma con un pezzettino del mosaico non si può pretendere di vedere lo scenario completo.
Il problema infatti non era quello a valle delle tasse, ma quello a monte di tutto: e cioè che gli italiani sono un popolo di risparmiatori e l’82 per cento delle famiglie ha una casa di proprietà. Non esisteva cioè quel paese dipinto dai cultori della letteratura del declino a tutti costi. Berlusconi aveva bene in mente questo scenario e a quella gente ha parlato. Il suo messaggio era diretto a quella miriade di individui che hanno deciso di “mondialeggiare”, di essere nel mondo, di accettare la sfida, di non piangersi addosso. Mentre Prodi evocava una società dei giusti a prescindere e le manette agli evasori – e quindi automaticamente faceva apparire i piccoli imprenditori come una torma di fuorilegge – Berlusconi sollecitava l’orgoglio e la presenza di questi ultimi. Il berlusconismo in questo senso resta l’esaltazione del self made man, del singolo che si fa da solo, dell’uomo che diffida dello Stato e ha fiducia solo in se stesso. I sociologi à gauche diranno che è il ritratto di un tipo sociale egoista e pure un po’ incolto. E ancora una volta sbaglieranno.

Berlusconi e il berlusconismo
Il berlusconismo non nasce con Berlusconi, è pre-esistente. Il Cavaliere lo ha di volta in volta interpretato. Nei momenti decisivi è riuscito sempre a stabilire la giusta sintonia con questo popolo silenzioso che non ama scendere in piazza ma rispetto al passato è più organizzato e più combattivo. Non ha bisogno di militarizzare la propria azione politica nelle strade perché è una tribù che comunica con Internet e i telefonini. E dove non c’è la maturità tecnologica c’è il porta a porta, il passaparola, un tam tam di parole e sguardi. Non c’è bisogno di sedute di autocoscienza, perché “stare dall’altra parte”, quella che la sinistra giudica sbagliata, è naturale e da molto tempo decisamente più cool che stare con la sinistra giudicata conservatrice.
È vero che quel popolo non si fida a dichiarare il suo voto agli istituti di sondaggi e si comporta così perché si sente distante dall’establishment e dall’apparato dell’informazione a senso unico. Tutti si sentono outsider. Come Berlusconi.
È tollerante nei confronti del conflitto di interessi di Berlusconi perché lo giudica più trasparente, più facile da controllare e giudicare, rispetto alle manovre dei burattinai che di volta in volta hanno giocato a fare i king maker della sinistra.
Quando Berlusconi ha sdoganato la parola “coglioni” in politica, in molti hanno pensato all’autogol dell’ultimo minuto. E invece quella zampata, quell’irriverente rottura del cliché, per la tribù dei berlusconiani è diventato slogan, occasione per arricchire la campagna elettorale di nuove catene di sms, e-mail, cartoline virtuali. La polemica politica si è surriscaldata, il popolo ci ha riso sopra perché la parolaccia fa parte della vita quotidiana, fa parte di quella cosa che si chiama realtà.
Il berlusconismo è rottura dei codici prestabiliti e prestampati. Pensateci bene, la campagna elettorale delle altre due punte, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, è diventata più efficace quando entrambi hanno imboccato una via più berlusconiana: meno minuetti e più azione incisiva. Meno cortesie istituzionali e più unghie nel dibattito. Non è una questione di livello dei toni, ma di registro linguistico. L’arte di parlare al popolo è complicata. La storia è piena di dotti oratori, ma assai scarsa di leader capaci di interpretare gli umori dei cittadini, guidarne le azioni, capirne i desideri più profondi. Già vediamo gli intellettuali storcere il naso e gridare alla deriva peronista e alla inquietante tentazione plebiscitaria. Altro errore colossale. Dipingere Berlusconi come un uomo pericoloso ha automaticamente trasferito su metà del paese l’etichetta di cattivo cittadino. Un altro motivo in più per l’elettore moderato di andare a votare e rivendicare la propria appartenenza.

L'ossessione della sinistra
L’era Berlusconi non è finita, cambierà la sua missione e ci sarà un nuovo capitolo, ma il berlusconismo resta ed è vitale più che mai nel paese. Ma sarà molto più difficile essere anti-berlusconiani senza Berlusconi a Palazzo Chigi. Se il buongiorno si vede dal mattino, l’antico tic che finora è stato l’unico collante del centrosinistra non è sparito. Nella politica e nella cultura. Il berlusconismo come fenomeno politico e sociale alimenta gli incubi della sinistra di salotto e di governo. Gli intellettuali cachemire e martello sognano un’Italia diversa, tutta cineclub e teatro dell’assurdo. C’è già materiale in abbondanza per chi vuole le prove di quel che scriviamo.
Al Festival del cinema di Cannes sono in concorso due film: Il Caimano di Nanni Moretti e Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio. Pellicole che sono lo specchio di un’ossessione: il Cavaliere ovunque, un Faust che piega la coscienza, un demone capace persino di penetrare nell’Io scalfariano che in un suo editoriale prima del voto dipinge scenari apocalittici e teme il colpo di coda del Caimano nei giorni di passaggio dal governo del centrodestra a quello del centrosinistra. Fantasmi golpisti.
È nel Regista di matrimoni che ricorre la frase «l’Italia è un paese in cui comandano i morti» e Bellocchio ne dà subito l’interpretazione politica. Lo sguardo fisso nella macchina da presa, il tono grave e solenne, sentenzia che la metà degli italiani che ha votato Berlusconi, è colta da una specie di “catalessi, letargo”.
Il regista ha una speranza, quella che «molti di loro, prima o poi, credo si sveglieranno».
Noi invece abbiamo una certezza: l’era Berlusconi non è finita e a sinistra stanno ancora dormendo.

Mario Sechi, giornalista, vicedirettore de il Giornale, si occupa di politica interna e attività parlamentare. Segue con particolare interesse le vicende degli Stati Uniti.

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