Oltre la Grande Muraglia
di Enzo Reale
Ideazione di maggio-giugno 2006

Pechino, gennaio 2006. «Quando non si conosce la verità, si ha paura dei dibattiti; quando non si conosce la verità, si ha paura della trasparenza. Anche se alcune persone al Dipartimento Centrale di Propaganda usassero il loro potere per chiudere tutti i mezzi di comunicazione e i siti web, confidiamo che leggerete questa lettera! Conoscerete il potere della verità!». Ad affidare queste parole ad Internet non è un dissidente politico in clandestinità o un ricercato per attività sovversive nei confronti dello Stato ma il direttore di una pubblicazione della Lega dei Giovani Comunisti Cinesi. Si chiama Li Datong e in Occidente è praticamente uno sconosciuto, ma da qualche mese è diventato un problema in più per i padroni del pensiero di stanza a Pechino. Il giorno prima le autorità avevano reso noto che il settimanale da lui guidato durante gli ultimi undici anni – Freezing Point – sarebbe stato chiuso. Motivo ufficiale: la pubblicazione di un articolo in cui si mettevano in discussione i metodi di insegnamento della storia nelle scuole cinesi1 che il Partito aveva considerato un «odioso attacco al sistema socialista».
Non era la prima volta che Li Datong sfidava dall’interno i limiti imposti dalla censura e l’ottusità dei burocrati incaricati di eseguire gli ordini. Lo scorso novembre, dopo aver ottenuto il lasciapassare governativo, Freezing Point dava alle stampe uno scritto critico con il passato autoritario di Taiwan. Fin qui tutto normale: attaccare l’isola ribelle è dottrina ufficiale nella Cina comunista. Ma nella sua analisi di come la discussione sui crimini di ieri stava influenzando il dibattito politico a Taipei, il pezzo conteneva un implicito e impietoso confronto con la situazione nella Repubblica Popolare Cinese, caratterizzata al contrario dall’assenza di un esame obiettivo della propria storia. Nei circoli intellettuali la metafora non passò inosservata e anche a Zhongnanhai alla fine qualcuno se ne accorse.
Più rapidi – anche se non abbastanza – furono i riflessi dei censori la scorsa estate quando Li Datong fece pervenire al nuovo responsabile editoriale, nominato dal Partito per salvaguardare l’ortodossia, una lettera di protesta per i metodi utilizzati dal quotidiano della Lega dei Giovani Comunisti nella valutazione dei giornalisti: si trattava di un particolare sistema meritocratico alla cinese che faceva dipendere gli stipendi dei collaboratori dall’approvazione o dal biasimo degli ufficiali governativi che leggevano i loro articoli. Bastava un giudizio negativo per perdere la mensilità. La lettera venne immediatamente e anonimamente riprodotta su un popolare forum online – Yannan BBS – e poi ripresa da altri siti Internet. In poche ore, nonostante l’ordine di cancellazione del documento dal web, una catena di e-mail e di messaggi istantanei aveva già diffuso la protesta di Li a macchia d’olio con tanto di attestati di solidarietà al seguito. Due giorni dopo la missiva continuava ufficialmente a non esistere ma il contestato meccanismo di valutazione dei giornalisti veniva sospeso senza ulteriori spiegazioni.

Messaggi in bottiglia che viaggiano sul web
Li Datong sapeva che gliel’avrebbero fatta pagare. Era già successo diciassette anni fa quando, durante la primavera di Pechino stroncata nel sangue, promosse una petizione a favore della libertà di stampa. All’epoca fu più fortunato di molti suoi colleghi: invece della prigione o dell’esilio lo punirono soltanto con un declassamento. Come allora, da metà febbraio Li e il suo vice sono stati assegnati a lavori di ricerca mentre la redazione di Freezing Point è stata riorganizzata ed il settimanale riaperto una volta depurato da elementi sovversivi. Anche se apparentemente la normalizzazione ha avuto successo, le potenzialità di quei messaggi in bottiglia che galleggiano nel web sono dirompenti. Dieci anni fa la storia di Li e della sua redazione sarebbe rimasta avvolta nel silenzio come molte altre. Oggi invece le sue denunce sull’illegalità del provvedimento di chiusura, sulle minacce ricevute nel corso degli anni dal Dipartimento di Propaganda, sugli abusi di un Partito al di sopra della legge, sono finite nelle pagine degli esteri del Washington Post e del New York Times e restano a disposizione di chiunque voglia scriverne: il tutto a dispetto della volontà censoria del governo di Pechino e del silenzio imposto ai mezzi di comunicazione cinesi, il tutto attraverso canali di comunicazione non ufficiali. «Con il nostro comportamento abbiamo voluto comunicare alla gente che la paura non è uno stato normale dell’esistenza», ha dichiarato Li Datong nel corso di un’intervista al Christian Science Monitor2. Indipendentemente da quanti cinesi siano oggi al corrente della sua vicenda, il precedente è di quelli destinati a lasciare un segno perché dimostra che la catena della paura e del silenzio può essere rotta e che quello della privazione delle libertà civili e politiche non è il destino ineluttabile di milletrecento milioni di persone.
È significativo che il germe della ribellione al potere autoritario provenga in questo caso da quegli elementi interni al Partito – Li ne è membro da oltre trent’anni – più esposti alla modernità e alle influenze esterne per ragioni professionali o culturali. Da una parte essi conoscono meglio di chiunque altro i meccanismi attraverso i quali la dittatura esercita il controllo sulla società e i punti deboli del sistema; dall’altra sono in grado di cogliere il carattere anacronistico ed intrinsecamente perverso del tentativo di gestire la crescita economica chiudendo allo stesso tempo ogni spazio per la nascita e lo sviluppo di una società civile. Se si pensa che Li Datong è riuscito ad ottenere perfino una esplicita dichiarazione di appoggio da parte di una decina di anziani del Partito – tra cui un ex segretario di Mao e un ex direttore del Quotidiano del Popolo – se ne deduce l’esistenza di un potenziale di mobilitazione politica finora inespresso in grado di rappresentare, in combinazione con fattori sociali di primaria importanza di cui parleremo, la più seria minaccia a quella che il regime chiama stabilità ma che altro non è che il perpetuarsi del potere assoluto di una classe dirigente abituata a decidere delle sorti del suo popolo senza un’opinione pubblica cui dover rendere conto.
L’era di Hu Jintao, descritto a lungo come un riformatore da una stampa occidentale che definire miope è poco, sarà ricordata per le restrizioni più severe imposte ai mezzi di comunicazione nell’ultimo decennio. A lui si deve il ritorno in grande stile dell’ideologia come metodo di educazione dei membri del Partito e di indottrinamento delle giovani generazioni nonché il rilancio del marxismo come dottrina per l’azione politica. Famoso il suo invito formulato nel corso di un incontro con i quadri dirigenti a studiare il sistema politico cubano e nordcoreano per trarne insegnamento sui metodi di controllo sociale. Non a caso la Cina si ritrova sistematicamente nelle posizioni di coda in tutte le graduatorie sulla libertà di stampa pubblicate annualmente dalle principali organizzazioni per i diritti umani. Non per nulla Reporters sans Frontières la definisce «la più grande prigione di giornalisti al mondo»: 32 professionisti dell’informazione e 49 cyber-dissidenti – secondo stime prudenti – sono rinchiusi nelle patrie galere per reati di opinione o accusati di aver divulgato segreti di Stato. Tra i più famosi Zhao Yan, collaboratore del New York Times, che mentre scriviamo è ancora detenuto nonostante le pressioni internazionali abbiano ottenuto il ritiro delle imputazioni formulate contro di lui3 e Shi Tao, condannato a dieci anni grazie alla gentile collaborazione offerta alla polizia cinese da Yahoo. Ma anche nomi meno noti, come quello di Hao Wu, blogger e documentarista, autore di un film sulle chiese cristiane clandestine, prelevato dagli apparati di sicurezza lo scorso febbraio e scomparso nella notte di Pechino4.
Sono centinaia di migliaia gli indirizzi web inaccessibili, trentamila i cyber-poliziotti addetti a scrutare le comunicazioni online con l’aiuto dei più avanzati sistemi di filtraggio dei motori di ricerca e delle parole proibite, mentre squadre di commentatori ufficiali di Partito si incaricano di indirizzare l’opinione pubblica nei forum online e l’obbligo di registrazione per tutti i siti garantisce che, dove non arriva il Grande Fratello, sarà l’autocensura a fare il resto. E poi il bavaglio sulla cultura: recenti disposizioni governative ricordano per esempio alle compagnie teatrali l’obbligo di rispettare il ruolo-guida del Partito Comunista ed il divieto di produrre spettacoli che danneggino l’unità, la sicurezza, l’onore e gli interessi dello Stato; contemporaneamente sono stati intensificati i controlli sui mezzi di comunicazione stranieri che operano nel paese. Se la Cina del riformatore Hu Jintao è questa, cosa resta ai cinesi se non rassegnarsi e accontentarsi dell’arricchirsi è glorioso di denghiana memoria? Devono aver pensato diversamente i cento giornalisti del Beijing News che, per protestare contro il licenziamento del loro direttore, Yang Bin, e di due suoi assistenti, sono scesi in sciopero a fine dicembre. Una cosa mai vista. Troppo coraggiosi per passare inosservati alcuni reportages della giovane testata, soprattutto quello sulla morte di numerosi allievi di una scuola elementare a causa di una inondazione nella provincia dello Heilongjang o quello sulla repressione violenta di una protesta contadina nella provincia dello Hebei. «Siamo nati in Cina. Ma accettare questo dato non significa che possiamo cancellare ogni percezione del vero e del falso, del bene e del male. Dobbiamo essere consapevoli che pagheremo un prezzo per questo», scriveva una redattrice anonima su un blog dopo il cambio al vertice deciso dalle autorità; «Ho il diritto di resistere allo stupro, anche se solo per un giorno», le faceva eco un collega prima che i messaggi venissero rimossi.
Ho il diritto. È un sonoro schiaffo per i teorici dell’apatia democratica dei cinesi sentir risuonare queste tre parole dai centri urbani alle campagne ed ancor più paradossale è il fatto che esse siano probabilmente l’unico vero punto di congiunzione tra la Cina del boom econonomico e la Cina rurale. Parliamo della popolazione dei villaggi, ottocentocinquanta milioni di persone – due terzi del paese – tagliate fuori dallo sviluppo o destinate a subirlo più che a viverlo da protagoniste, per le quali la rising China rimane un miraggio e la costruzione di una società armoniosa5 uno dei tanti slogan coniati per addomesticare le masse. Operazione sempre più difficile. Sono state oltre ottantamila nel corso del 2005 le proteste, a volte violente, che hanno visto coinvolti gli abitanti dei villaggi e le forze dell’ordine. Più di duecento al giorno, un numero impressionante confermato dallo stesso governo cinese probabilmente convinto di essere in grado di controllare la situazione ed in certi casi anche di poterla utilizzare a proprio beneficio. Ad una analisi superficiale parrebbe che le cause del risentimento siano principalmente di natura economico-sociale e non politica: inquinamento, espropri di terre senza indennizzo, corruzione. Ma considerando più attentamente il fenomeno si giunge alla conclusione che la lotta dei contadini per uscire dal sottosviluppo altro non è che una graduale presa di coscienza dei propri diritti calpestati dall’abuso e dalla prevaricazione. Alcuni esempi possono aiutare a capire meglio la posta in gioco6.

L’armoniosità perduta e il risveglio delle campagne
Villaggio di Huankantou, provincia dello Zhejiang, Cina sudorientale, marzo-aprile 2005. Decine di abitanti erigono barricate sulla strada che dal villaggio porta ad un complesso di industrie chimiche costruite quattro anni prima su terreni confiscati dalle autorità locali e rivenduti alla città limitrofa di Dongyang. Vogliono impedire l’arrivo di materie prime alle fabbriche, responsabili, secondo loro, di aver prodotto danni all’ambiente e alla salute pubblica: morte della vegetazione circostante, inquinamento del fiume, contaminazione degli alimenti. Esasperati dai continui dinieghi dei funzionari del luogo ad occuparsi del caso, decidono di inviare una rappresentanza a Pechino per inoltrare ai vertici la loro petizione ma anche qui si scontrano con un prevedibile muro di gomma. L’impotenza li spinge all’azione. Il blocco prosegue per due settimane costringendo alla chiusura alcune delle fabbriche. A quel punto intervengono le forze dell’ordine. Quando si diffonde la notizia che due anziane signore del villaggio sono state uccise cominciano gli scontri più violenti tra tremila poliziotti e diverse migliaia di cittadini. Incendi, autobus rovesciati, diversi feriti lasciano sul campo una scena di devastazione. «Siete peggio dei giapponesi», grida la gente alle forze dell’ordine. Ai pochi giornalisti stranieri giunti a documentare gli avvenimenti vengono confiscati gli appunti e le macchine fotografiche. Recentemente una corte provinciale ha condannato nove persone giudicate responsabili della rivolta, quattro delle quali resteranno in carcere per i prossimi cinque anni.
Villaggio di Dongzhou, provincia del Guangdong, Cina meridionale, dicembre 2005. Lo schema di fondo si ripete: confisca di terreni senza risarcimento per la costruzione di una centrale energetica a carbone; l’estate scorsa una delegazione di cittadini presenta una istanza formale alle autorità ricevendo come risposta l’arresto dei suoi membri; l’intero villaggio si unisce alla protesta che si prolunga fino a dicembre quando, dopo un sit-in stroncato dalla polizia, migliaia di persone si riversano nelle strade. Centinaia di agenti paramilitari irrompono nel villaggio, bloccano le vie di accesso e cominciano a rastrellare la zona. I manifestanti resistono ai lacrimogeni per ore ma verso le dieci di sera le forze dell’ordine sparano sulla folla. Il bilancio finale sarà di venti morti anche se le autorità ne riconosceranno solo tre. Seguono giorni di retate, detenzioni e sparizioni ma qualcuno riesce lo stesso a comunicare telefonicamente con la stampa estera mentre il villaggio viene rieducato per mezzo di slogan che inneggiano alla stabilità e invitano a denunciare gli istigatori della rivolta. Pochi giorni dopo il capo della polizia locale viene arrestato in un inutile tentativo del governo di limitare il danno di immagine che la notizia, ormai diffusasi attraverso Internet e le televisioni di Hong Kong, sta provocando.
Si dirà che non sono proteste dirette contro Pechino. Vero, se si fa il paragone con Tiananmen. Ma i funzionari e i rappresentanti del Partito non sono altro che il volto del regime nelle regioni periferiche, l’unico punto di contatto tra la popolazione ed un potere troppo lontano (in ogni senso) per essere raggiunto e diventare oggetto immediato della rabbia e della frustrazione accumulate7. Una delle funzioni più importanti degli ufficiali locali, ammette in un libro di recente pubblicazione uno di essi8, è proprio quella di tenere i contadini lontani dalla capitale. La narrativa di un potere centrale impegnato a trovare soluzioni ma ostacolato dalla corruzione e dall’incompetenza dei quadri nelle campagne non regge alla prova dei fatti: la corruzione esiste ed è endemica ma le cause sono strutturali. È il sistema autoritario sul quale fonda la sua sopravvivenza il Partito Comunista a consentire l’arbitrio nella garanzia di una sostanziale impunità (salvo casi esemplari che servono sempre propositi politici) ed è l’assenza di una vera volontà riformatrice la causa ultima del malcontento. Si dirà poi che non sono proteste per la democrazia. Vero, se con l’obiezione si intende l’assenza di una piattaforma politica condivisa. Ma molto più opinabile se si considera che queste proteste hanno come oggetto la rivendicazione dei fondamentali diritti di proprietà ed esprimono, seppur in maniera non elaborata, l’esigenza della rule of law come difesa contro i soprusi del potere pubblico.

Il caso del villaggio di Taishi in Guandong
Gli scettici comunque farebbero bene a studiare il caso Taishi. Innanzitutto una breve premessa: in Cina, come noto, non si vota ma la legge prevede un’eccezione a livello di villaggi (che non sono considerati unità amministrative) consentendo l’elezione diretta del capo-villaggio. In realtà, secondo i criteri democratici, si tratta di una finzione: i candidati sono normalmente membri del Partito e anche quando si presentano cittadini indipendenti non lo fanno sulla base di piattaforme alternative, non essendo permesso nessun tipo di opposizione; inoltre chi viene eletto non ha nessuna possibilità di far passare proposte che non godano dell’appoggio del Partito e spesso lo stesso processo elettorale è viziato da brogli e manipolazioni in modo da evitare sgradite sorprese. Ma a volte la situazione sfugge di mano. Come a Taishi, un villaggio di duemila anime nel già citato Guandong, dove un giorno di luglio i cittadini decidono di far valere le garanzie che formalmente le leggi accordano loro e di esercitare il diritto di revoca del capo-villaggio, reo di aver fatto sparire una ingente quantità di denaro della collettività.
Si scelgono un leader, Feng Qiusheng, si organizzano e cominciano a raccogliere le firme necessarie mentre prendono possesso dei libri contabili. Le autorità reagiscono intimando ai sottoscrittori di ritirare la propria adesione, irrompendo nel municipio per recuperare i documenti di bilancio e cominciando ad arrestare i manifestanti. Ma gli abitanti di Taishi non demordono e, quando il governo distrettuale annuncia che la loro mozione non può essere accolta per motivi procedurali, cominciano uno sciopero della fame ad oltranza. È il 12 settembre quando mille agenti di polizia intervengono a disperdere la folla e a recuperare i libri; nei giorni successivi due noti attivisti per i diritti civili che da Pechino erano scesi a Taishi per coordinare la protesta, Guo Feixiong e Lu Banglie, vengono arrestati. Altri vengono picchiati e costretti ad abbandonare il villaggio. Nonostante le intimidazioni, i manifestanti riescono ad eleggere un comitato incaricato di gestire la procedura di revoca ma a poche ore dalla sua costituzione tutti i membri rassegnano le dimissioni. Le autorità annunciano che le firme sono state ritirate. L’esperimento democratico cominciato due mesi prima si conclude qui.
Taishi è paradigmatico per almeno tre ragioni. È la prima volta dalla repressione di piazza Tiananmen che un movimento di protesta organizzato si produce in un braccio di ferro prolungato contro il potere costituito usando le armi della nonviolenza e della legalità formale; gli abitanti si sono battuti non per generiche rivendicazioni di carattere socio-economico ma per il riconoscimento dei loro diritti di elettorato attivo e passivo e per il rispetto delle leggi: in una parola, hanno condotto una battaglia per la democrazia; l’intervento degli attivisti per i diritti civili ha fornito ai manifestanti un supporto morale e giuridico e alla protesta una direzione politica e un respiro nazionale: un precedente preoccupante per il Centro che infatti, al di là della retorica sulle grassroots elections, ha scelto di porre fine con la forza a questo episodio di disobbedienza civile che ancora una volta – grazie ad Internet e ai reporters stranieri, minacciati e pestati anch’essi – ha potuto varcare i confini del paese.
All’ultimo plenum dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il premier Wen Jiabao ha promesso interventi a favore della popolazione delle campagne9 – scuole, salute e strade – ma ha evitato di impegnarsi in quella che probabilmente sarebbe la riforma più importante per l’uscita dalla povertà di ottocentocinquanta milioni di cinesi: la concessione della proprietà della terra ai contadini. Come insegna Hernando de Soto10, solo un sistema di diritti di proprietà affidabile è in grado di riportare dentro la società le masse di esclusi ed è per questo che l’ottica terzomondista – quella dei molti poveri infuriati contro i pochi ricchi – non serve a spiegare il caso cinese: anche i contadini cinesi, come i loro colleghi africani o latinoamericani, non chiedono più Stato e meno mercato ma più riforme e più libertà.
«Crediamo che nessun potere forte possa soffocare la sete e la ricerca della libertà da parte delle società umane, inclusa la Cina», scrive Li Datong11. Pechino attende un’altra primavera.

 

Note
1. Modernization and History textbooks, di Yuan Weishi.
2. Consultabile integralmente all’indirizzo: www.csmonitor.com/2006/0224/p01s04-woap.html.
3. Il reato da lui commesso sarebbe quello di aver rivelato con due settimane di anticipo sulla comunicazione ufficiale l’intenzione di Jiang Zemin di dimettersi dalla carica di capo della Commissione Militare Centrale.
4. Altri nomi eccellenti: Yu Huafeng e Li Minying (Southern Metropolitan Daily), 12 anni per aver criticato il governo provinciale del Guangdong in occasione della crisi della sars; Chen Min (China Reform Magazine), arrestato per un articolo sulle madri di Piazza Tiananmen; Ching Cheong (Hong Kong – The Straits Times), accusato di divulgazione di segreti di Stato. Ma la lista potrebbe continuare a lungo.
5. Le parole d’ordine con cui Hu Jintao ha scelto di definire l’attuale corso politico.
6. Oltre a quelli citati nel testo, di seguito altri episodi significativi verificatisi di recente: Panlong e Sanjiao (prov. Guangdong), requisizione di terre, scontri con le forze dell’ordine, diversi feriti; Liujiaying (Shandong), proteste contro la costruzione di un parco industriale; provincia dello Sichuan, manifestazioni contro il progetto di costruzione di una diga; Chongqing (provincia omonima), rivolte anti-corruzione; Xinchang (Zhejiang) e Xiachaoshui, proteste anti-inquinamento, Wanzhou (Chongqing), manifestazioni di massa dopo il pestaggio di un cittadino da parte di un ufficiale governativo; provincia dello Henan, scontri etnici; provincia dello Shaanxi, sciopero di settemila lavoratori dell’industria tessile contro il divieto di sindacato locale.
7. Il sistema delle petizioni all’autorità centrale, residuo di un’arcaica tradizione imperiale, è tuttora vigente ma si riduce ad un rituale meramente simbolico del tutto inadeguato a soddisfare le richieste di giustizia dei reclamanti.
8. Gu Wenfeng, Extraordinary Confessions.
9. Misure denominate ufficialmente Costruzione della nuova campagna socialista.
10. Cfr. Ideazione, marzo-aprile 2006, “Alle radici dell’economia informale”.
11. Dichiarazione congiunta di Li Datong e Lu Yuegang, 17 febbraio 2006.

Enzo Reale, corrispondente da Barcellona per Ideazione, si occupa di politica estera, in particolare della Spagna, dei paesi del Medio ed Estremo Oriente e dell’Africa.

(c) Ideazione.com (2006)
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