













































































 Oltre la Grande Muraglia
 
    Oltre la Grande Muraglia Pechino, 
      gennaio 2006. «Quando non si conosce la verità, si ha paura 
      dei dibattiti; quando non si conosce la verità, si ha paura della 
      trasparenza. Anche se alcune persone al Dipartimento Centrale di Propaganda 
      usassero il loro potere per chiudere tutti i mezzi di comunicazione e i 
      siti web, confidiamo che leggerete questa lettera! Conoscerete il potere 
      della verità!». Ad affidare queste parole ad Internet non è 
      un dissidente politico in clandestinità o un ricercato per attività 
      sovversive nei confronti dello Stato ma il direttore di una pubblicazione 
      della Lega dei Giovani Comunisti Cinesi. Si chiama Li Datong e in Occidente 
      è praticamente uno sconosciuto, ma da qualche mese è diventato 
      un problema in più per i padroni del pensiero di stanza a Pechino. 
      Il giorno prima le autorità avevano reso noto che il settimanale 
      da lui guidato durante gli ultimi undici anni – Freezing Point – 
      sarebbe stato chiuso. Motivo ufficiale: la pubblicazione di un articolo 
      in cui si mettevano in discussione i metodi di insegnamento della storia 
      nelle scuole cinesi1 che il Partito aveva considerato un «odioso attacco 
      al sistema socialista».
 Pechino, 
      gennaio 2006. «Quando non si conosce la verità, si ha paura 
      dei dibattiti; quando non si conosce la verità, si ha paura della 
      trasparenza. Anche se alcune persone al Dipartimento Centrale di Propaganda 
      usassero il loro potere per chiudere tutti i mezzi di comunicazione e i 
      siti web, confidiamo che leggerete questa lettera! Conoscerete il potere 
      della verità!». Ad affidare queste parole ad Internet non è 
      un dissidente politico in clandestinità o un ricercato per attività 
      sovversive nei confronti dello Stato ma il direttore di una pubblicazione 
      della Lega dei Giovani Comunisti Cinesi. Si chiama Li Datong e in Occidente 
      è praticamente uno sconosciuto, ma da qualche mese è diventato 
      un problema in più per i padroni del pensiero di stanza a Pechino. 
      Il giorno prima le autorità avevano reso noto che il settimanale 
      da lui guidato durante gli ultimi undici anni – Freezing Point – 
      sarebbe stato chiuso. Motivo ufficiale: la pubblicazione di un articolo 
      in cui si mettevano in discussione i metodi di insegnamento della storia 
      nelle scuole cinesi1 che il Partito aveva considerato un «odioso attacco 
      al sistema socialista».
      Non era la prima volta che Li Datong sfidava dall’interno i limiti 
      imposti dalla censura e l’ottusità dei burocrati incaricati 
      di eseguire gli ordini. Lo scorso novembre, dopo aver ottenuto il lasciapassare 
      governativo, Freezing Point dava alle stampe uno scritto critico con il 
      passato autoritario di Taiwan. Fin qui tutto normale: attaccare l’isola 
      ribelle è dottrina ufficiale nella Cina comunista. Ma nella sua analisi 
      di come la discussione sui crimini di ieri stava influenzando il dibattito 
      politico a Taipei, il pezzo conteneva un implicito e impietoso confronto 
      con la situazione nella Repubblica Popolare Cinese, caratterizzata al contrario 
      dall’assenza di un esame obiettivo della propria storia. Nei circoli 
      intellettuali la metafora non passò inosservata e anche a Zhongnanhai 
      alla fine qualcuno se ne accorse. 
      Più rapidi – anche se non abbastanza – furono i riflessi 
      dei censori la scorsa estate quando Li Datong fece pervenire al nuovo responsabile 
      editoriale, nominato dal Partito per salvaguardare l’ortodossia, una 
      lettera di protesta per i metodi utilizzati dal quotidiano della Lega dei 
      Giovani Comunisti nella valutazione dei giornalisti: si trattava di un particolare 
      sistema meritocratico alla cinese che faceva dipendere gli stipendi dei 
      collaboratori dall’approvazione o dal biasimo degli ufficiali governativi 
      che leggevano i loro articoli. Bastava un giudizio negativo per perdere 
      la mensilità. La lettera venne immediatamente e anonimamente riprodotta 
      su un popolare forum online – Yannan BBS – e poi ripresa da 
      altri siti Internet. In poche ore, nonostante l’ordine di cancellazione 
      del documento dal web, una catena di e-mail e di messaggi istantanei aveva 
      già diffuso la protesta di Li a macchia d’olio con tanto di 
      attestati di solidarietà al seguito. Due giorni dopo la missiva continuava 
      ufficialmente a non esistere ma il contestato meccanismo di valutazione 
      dei giornalisti veniva sospeso senza ulteriori spiegazioni.
 Messaggi 
      in bottiglia che viaggiano sul web
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      in bottiglia che viaggiano sul web
      Li Datong sapeva che gliel’avrebbero fatta pagare. Era già 
      successo diciassette anni fa quando, durante la primavera di Pechino stroncata 
      nel sangue, promosse una petizione a favore della libertà di stampa. 
      All’epoca fu più fortunato di molti suoi colleghi: invece della 
      prigione o dell’esilio lo punirono soltanto con un declassamento. 
      Come allora, da metà febbraio Li e il suo vice sono stati assegnati 
      a lavori di ricerca mentre la redazione di Freezing Point è stata 
      riorganizzata ed il settimanale riaperto una volta depurato da elementi 
      sovversivi. Anche se apparentemente la normalizzazione ha avuto successo, 
      le potenzialità di quei messaggi in bottiglia che galleggiano nel 
      web sono dirompenti. Dieci anni fa la storia di Li e della sua redazione 
      sarebbe rimasta avvolta nel silenzio come molte altre. Oggi invece le sue 
      denunce sull’illegalità del provvedimento di chiusura, sulle 
      minacce ricevute nel corso degli anni dal Dipartimento di Propaganda, sugli 
      abusi di un Partito al di sopra della legge, sono finite nelle pagine degli 
      esteri del Washington Post e del New York Times e restano a disposizione 
      di chiunque voglia scriverne: il tutto a dispetto della volontà censoria 
      del governo di Pechino e del silenzio imposto ai mezzi di comunicazione 
      cinesi, il tutto attraverso canali di comunicazione non ufficiali. «Con 
      il nostro comportamento abbiamo voluto comunicare alla gente che la paura 
      non è uno stato normale dell’esistenza», ha dichiarato 
      Li Datong nel corso di un’intervista al Christian Science Monitor2. 
      Indipendentemente da quanti cinesi siano oggi al corrente della sua vicenda, 
      il precedente è di quelli destinati a lasciare un segno perché 
      dimostra che la catena della paura e del silenzio può essere rotta 
      e che quello della privazione delle libertà civili e politiche non 
      è il destino ineluttabile di milletrecento milioni di persone. 
      È significativo che il germe della ribellione al potere autoritario 
      provenga in questo caso da quegli elementi interni al Partito – Li 
      ne è membro da oltre trent’anni – più esposti 
      alla modernità e alle influenze esterne per ragioni professionali 
      o culturali. Da una parte essi conoscono meglio di chiunque altro i meccanismi 
      attraverso i quali la dittatura esercita il controllo sulla società 
      e i punti deboli del sistema; dall’altra sono in grado di cogliere 
      il carattere anacronistico ed intrinsecamente perverso del tentativo di 
      gestire la crescita economica chiudendo allo stesso tempo ogni spazio per 
      la nascita e lo sviluppo di una società civile. Se si pensa che Li 
      Datong è riuscito ad ottenere perfino una esplicita dichiarazione 
      di appoggio da parte di una decina di anziani del Partito – tra cui 
      un ex segretario di Mao e un ex direttore del Quotidiano del Popolo – 
      se ne deduce l’esistenza di un potenziale di mobilitazione politica 
      finora inespresso in grado di rappresentare, in combinazione con fattori 
      sociali di primaria importanza di cui parleremo, la più seria minaccia 
      a quella che il regime chiama stabilità ma che altro non è 
      che il perpetuarsi del potere assoluto di una classe dirigente abituata 
      a decidere delle sorti del suo popolo senza un’opinione pubblica cui 
      dover rendere conto.
      L’era di Hu Jintao, descritto a lungo come un riformatore da una stampa 
      occidentale che definire miope è poco, sarà ricordata per 
      le restrizioni più severe imposte ai mezzi di comunicazione nell’ultimo 
      decennio. A lui si deve il ritorno in grande stile dell’ideologia 
      come metodo di educazione dei membri del Partito e di indottrinamento delle 
      giovani generazioni nonché il rilancio del marxismo come dottrina 
      per l’azione politica. Famoso il suo invito formulato nel corso di 
      un incontro con i quadri dirigenti a studiare il sistema politico cubano 
      e nordcoreano per trarne insegnamento sui metodi di controllo sociale. Non 
      a caso la Cina si ritrova sistematicamente nelle posizioni di coda in tutte 
      le graduatorie sulla libertà di stampa pubblicate annualmente dalle 
      principali organizzazioni per i diritti umani. Non per nulla Reporters sans 
      Frontières la definisce «la più grande prigione di giornalisti 
      al mondo»: 32 professionisti dell’informazione e 49 cyber-dissidenti 
      – secondo stime prudenti – sono rinchiusi nelle patrie galere 
      per reati di opinione o accusati di aver divulgato segreti di Stato. Tra 
      i più famosi Zhao Yan, collaboratore del New York Times, che mentre 
      scriviamo è ancora detenuto nonostante le pressioni internazionali 
      abbiano ottenuto il ritiro delle imputazioni formulate contro di lui3 e 
      Shi Tao, condannato a dieci anni grazie alla gentile collaborazione offerta 
      alla polizia cinese da Yahoo. Ma anche nomi meno noti, come quello di Hao 
      Wu, blogger e documentarista, autore di un film sulle chiese cristiane clandestine, 
      prelevato dagli apparati di sicurezza lo scorso febbraio e scomparso nella 
      notte di Pechino4. 
      Sono centinaia di migliaia gli indirizzi web inaccessibili, trentamila i 
      cyber-poliziotti addetti a scrutare le comunicazioni online con l’aiuto 
      dei più avanzati sistemi di filtraggio dei motori di ricerca e delle 
      parole proibite, mentre squadre di commentatori ufficiali di Partito si 
      incaricano di indirizzare l’opinione pubblica nei forum online e l’obbligo 
      di registrazione per tutti i siti garantisce che, dove non arriva il Grande 
      Fratello, sarà l’autocensura a fare il resto. E poi il bavaglio 
      sulla cultura: recenti disposizioni governative ricordano per esempio alle 
      compagnie teatrali l’obbligo di rispettare il ruolo-guida del Partito 
      Comunista ed il divieto di produrre spettacoli che danneggino l’unità, 
      la sicurezza, l’onore e gli interessi dello Stato; contemporaneamente 
      sono stati intensificati i controlli sui mezzi di comunicazione stranieri 
      che operano nel paese. Se la Cina del riformatore Hu Jintao è questa, 
      cosa resta ai cinesi se non rassegnarsi e accontentarsi dell’arricchirsi 
      è glorioso di denghiana memoria? Devono aver pensato diversamente 
      i cento giornalisti del Beijing News che, per protestare contro il licenziamento 
      del loro direttore, Yang Bin, e di due suoi assistenti, sono scesi in sciopero 
      a fine dicembre. Una cosa mai vista. Troppo coraggiosi per passare inosservati 
      alcuni reportages della giovane testata, soprattutto quello sulla morte 
      di numerosi allievi di una scuola elementare a causa di una inondazione 
      nella provincia dello Heilongjang o quello sulla repressione violenta di 
      una protesta contadina nella provincia dello Hebei. «Siamo nati in 
      Cina. Ma accettare questo dato non significa che possiamo cancellare ogni 
      percezione del vero e del falso, del bene e del male. Dobbiamo essere consapevoli 
      che pagheremo un prezzo per questo», scriveva una redattrice anonima 
      su un blog dopo il cambio al vertice deciso dalle autorità; «Ho 
      il diritto di resistere allo stupro, anche se solo per un giorno», 
      le faceva eco un collega prima che i messaggi venissero rimossi. 
      Ho il diritto. È un sonoro schiaffo per i teorici dell’apatia 
      democratica dei cinesi sentir risuonare queste tre parole dai centri urbani 
      alle campagne ed ancor più paradossale è il fatto che esse 
      siano probabilmente l’unico vero punto di congiunzione tra la Cina 
      del boom econonomico e la Cina rurale. Parliamo della popolazione dei villaggi, 
      ottocentocinquanta milioni di persone – due terzi del paese – 
      tagliate fuori dallo sviluppo o destinate a subirlo più che a viverlo 
      da protagoniste, per le quali la rising China rimane un miraggio e la costruzione 
      di una società armoniosa5 uno dei tanti slogan coniati per addomesticare 
      le masse. Operazione sempre più difficile. Sono state oltre ottantamila 
      nel corso del 2005 le proteste, a volte violente, che hanno visto coinvolti 
      gli abitanti dei villaggi e le forze dell’ordine. Più di duecento 
      al giorno, un numero impressionante confermato dallo stesso governo cinese 
      probabilmente convinto di essere in grado di controllare la situazione ed 
      in certi casi anche di poterla utilizzare a proprio beneficio. Ad una analisi 
      superficiale parrebbe che le cause del risentimento siano principalmente 
      di natura economico-sociale e non politica: inquinamento, espropri di terre 
      senza indennizzo, corruzione. Ma considerando più attentamente il 
      fenomeno si giunge alla conclusione che la lotta dei contadini per uscire 
      dal sottosviluppo altro non è che una graduale presa di coscienza 
      dei propri diritti calpestati dall’abuso e dalla prevaricazione. Alcuni 
      esempi possono aiutare a capire meglio la posta in gioco6.
 L’armoniosità 
      perduta e il risveglio delle campagne
 L’armoniosità 
      perduta e il risveglio delle campagne
      Villaggio di Huankantou, provincia dello Zhejiang, Cina sudorientale, marzo-aprile 
      2005. Decine di abitanti erigono barricate sulla strada che dal villaggio 
      porta ad un complesso di industrie chimiche costruite quattro anni prima 
      su terreni confiscati dalle autorità locali e rivenduti alla città 
      limitrofa di Dongyang. Vogliono impedire l’arrivo di materie prime 
      alle fabbriche, responsabili, secondo loro, di aver prodotto danni all’ambiente 
      e alla salute pubblica: morte della vegetazione circostante, inquinamento 
      del fiume, contaminazione degli alimenti. Esasperati dai continui dinieghi 
      dei funzionari del luogo ad occuparsi del caso, decidono di inviare una 
      rappresentanza a Pechino per inoltrare ai vertici la loro petizione ma anche 
      qui si scontrano con un prevedibile muro di gomma. L’impotenza li 
      spinge all’azione. Il blocco prosegue per due settimane costringendo 
      alla chiusura alcune delle fabbriche. A quel punto intervengono le forze 
      dell’ordine. Quando si diffonde la notizia che due anziane signore 
      del villaggio sono state uccise cominciano gli scontri più violenti 
      tra tremila poliziotti e diverse migliaia di cittadini. Incendi, autobus 
      rovesciati, diversi feriti lasciano sul campo una scena di devastazione. 
      «Siete peggio dei giapponesi», grida la gente alle forze dell’ordine. 
      Ai pochi giornalisti stranieri giunti a documentare gli avvenimenti vengono 
      confiscati gli appunti e le macchine fotografiche. Recentemente una corte 
      provinciale ha condannato nove persone giudicate responsabili della rivolta, 
      quattro delle quali resteranno in carcere per i prossimi cinque anni.
      Villaggio di Dongzhou, provincia del Guangdong, Cina meridionale, dicembre 
      2005. Lo schema di fondo si ripete: confisca di terreni senza risarcimento 
      per la costruzione di una centrale energetica a carbone; l’estate 
      scorsa una delegazione di cittadini presenta una istanza formale alle autorità 
      ricevendo come risposta l’arresto dei suoi membri; l’intero 
      villaggio si unisce alla protesta che si prolunga fino a dicembre quando, 
      dopo un sit-in stroncato dalla polizia, migliaia di persone si riversano 
      nelle strade. Centinaia di agenti paramilitari irrompono nel villaggio, 
      bloccano le vie di accesso e cominciano a rastrellare la zona. I manifestanti 
      resistono ai lacrimogeni per ore ma verso le dieci di sera le forze dell’ordine 
      sparano sulla folla. Il bilancio finale sarà di venti morti anche 
      se le autorità ne riconosceranno solo tre. Seguono giorni di retate, 
      detenzioni e sparizioni ma qualcuno riesce lo stesso a comunicare telefonicamente 
      con la stampa estera mentre il villaggio viene rieducato per mezzo di slogan 
      che inneggiano alla stabilità e invitano a denunciare gli istigatori 
      della rivolta. Pochi giorni dopo il capo della polizia locale viene arrestato 
      in un inutile tentativo del governo di limitare il danno di immagine che 
      la notizia, ormai diffusasi attraverso Internet e le televisioni di Hong 
      Kong, sta provocando. 
      Si dirà che non sono proteste dirette contro Pechino. Vero, se si 
      fa il paragone con Tiananmen. Ma i funzionari e i rappresentanti del Partito 
      non sono altro che il volto del regime nelle regioni periferiche, l’unico 
      punto di contatto tra la popolazione ed un potere troppo lontano (in ogni 
      senso) per essere raggiunto e diventare oggetto immediato della rabbia e 
      della frustrazione accumulate7. Una delle funzioni più importanti 
      degli ufficiali locali, ammette in un libro di recente pubblicazione uno 
      di essi8, è proprio quella di tenere i contadini lontani dalla capitale. 
      La narrativa di un potere centrale impegnato a trovare soluzioni ma ostacolato 
      dalla corruzione e dall’incompetenza dei quadri nelle campagne non 
      regge alla prova dei fatti: la corruzione esiste ed è endemica ma 
      le cause sono strutturali. È il sistema autoritario sul quale fonda 
      la sua sopravvivenza il Partito Comunista a consentire l’arbitrio 
      nella garanzia di una sostanziale impunità (salvo casi esemplari 
      che servono sempre propositi politici) ed è l’assenza di una 
      vera volontà riformatrice la causa ultima del malcontento. Si dirà 
      poi che non sono proteste per la democrazia. Vero, se con l’obiezione 
      si intende l’assenza di una piattaforma politica condivisa. Ma molto 
      più opinabile se si considera che queste proteste hanno come oggetto 
      la rivendicazione dei fondamentali diritti di proprietà ed esprimono, 
      seppur in maniera non elaborata, l’esigenza della rule of law come 
      difesa contro i soprusi del potere pubblico.
 Il 
      caso del villaggio di Taishi in Guandong
 Il 
      caso del villaggio di Taishi in Guandong
      Gli scettici comunque farebbero bene a studiare il caso Taishi. Innanzitutto 
      una breve premessa: in Cina, come noto, non si vota ma la legge prevede 
      un’eccezione a livello di villaggi (che non sono considerati unità 
      amministrative) consentendo l’elezione diretta del capo-villaggio. 
      In realtà, secondo i criteri democratici, si tratta di una finzione: 
      i candidati sono normalmente membri del Partito e anche quando si presentano 
      cittadini indipendenti non lo fanno sulla base di piattaforme alternative, 
      non essendo permesso nessun tipo di opposizione; inoltre chi viene eletto 
      non ha nessuna possibilità di far passare proposte che non godano 
      dell’appoggio del Partito e spesso lo stesso processo elettorale è 
      viziato da brogli e manipolazioni in modo da evitare sgradite sorprese. 
      Ma a volte la situazione sfugge di mano. Come a Taishi, un villaggio di 
      duemila anime nel già citato Guandong, dove un giorno di luglio i 
      cittadini decidono di far valere le garanzie che formalmente le leggi accordano 
      loro e di esercitare il diritto di revoca del capo-villaggio, reo di aver 
      fatto sparire una ingente quantità di denaro della collettività.
      Si scelgono un leader, Feng Qiusheng, si organizzano e cominciano a raccogliere 
      le firme necessarie mentre prendono possesso dei libri contabili. Le autorità 
      reagiscono intimando ai sottoscrittori di ritirare la propria adesione, 
      irrompendo nel municipio per recuperare i documenti di bilancio e cominciando 
      ad arrestare i manifestanti. Ma gli abitanti di Taishi non demordono e, 
      quando il governo distrettuale annuncia che la loro mozione non può 
      essere accolta per motivi procedurali, cominciano uno sciopero della fame 
      ad oltranza. È il 12 settembre quando mille agenti di polizia intervengono 
      a disperdere la folla e a recuperare i libri; nei giorni successivi due 
      noti attivisti per i diritti civili che da Pechino erano scesi a Taishi 
      per coordinare la protesta, Guo Feixiong e Lu Banglie, vengono arrestati. 
      Altri vengono picchiati e costretti ad abbandonare il villaggio. Nonostante 
      le intimidazioni, i manifestanti riescono ad eleggere un comitato incaricato 
      di gestire la procedura di revoca ma a poche ore dalla sua costituzione 
      tutti i membri rassegnano le dimissioni. Le autorità annunciano che 
      le firme sono state ritirate. L’esperimento democratico cominciato 
      due mesi prima si conclude qui. 
      Taishi è paradigmatico per almeno tre ragioni. È la prima 
      volta dalla repressione di piazza Tiananmen che un movimento di protesta 
      organizzato si produce in un braccio di ferro prolungato contro il potere 
      costituito usando le armi della nonviolenza e della legalità formale; 
      gli abitanti si sono battuti non per generiche rivendicazioni di carattere 
      socio-economico ma per il riconoscimento dei loro diritti di elettorato 
      attivo e passivo e per il rispetto delle leggi: in una parola, hanno condotto 
      una battaglia per la democrazia; l’intervento degli attivisti per 
      i diritti civili ha fornito ai manifestanti un supporto morale e giuridico 
      e alla protesta una direzione politica e un respiro nazionale: un precedente 
      preoccupante per il Centro che infatti, al di là della retorica sulle 
      grassroots elections, ha scelto di porre fine con la forza a questo episodio 
      di disobbedienza civile che ancora una volta – grazie ad Internet 
      e ai reporters stranieri, minacciati e pestati anch’essi – ha 
      potuto varcare i confini del paese.
      All’ultimo plenum dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il premier 
      Wen Jiabao ha promesso interventi a favore della popolazione delle campagne9 
      – scuole, salute e strade – ma ha evitato di impegnarsi in quella 
      che probabilmente sarebbe la riforma più importante per l’uscita 
      dalla povertà di ottocentocinquanta milioni di cinesi: la concessione 
      della proprietà della terra ai contadini. Come insegna Hernando de 
      Soto10, solo un sistema di diritti di proprietà affidabile è 
      in grado di riportare dentro la società le masse di esclusi ed è 
      per questo che l’ottica terzomondista – quella dei molti poveri 
      infuriati contro i pochi ricchi – non serve a spiegare il caso cinese: 
      anche i contadini cinesi, come i loro colleghi africani o latinoamericani, 
      non chiedono più Stato e meno mercato ma più riforme e più 
      libertà.
      «Crediamo che nessun potere forte possa soffocare la sete e la ricerca 
      della libertà da parte delle società umane, inclusa la Cina», 
      scrive Li Datong11. Pechino attende un’altra primavera.
Note
      1. Modernization and History textbooks, di Yuan Weishi.
      2. Consultabile integralmente all’indirizzo: www.csmonitor.com/2006/0224/p01s04-woap.html.
      3. Il reato da lui commesso sarebbe quello di aver rivelato con due settimane 
      di anticipo sulla comunicazione ufficiale l’intenzione di Jiang Zemin 
      di dimettersi dalla carica di capo della Commissione Militare Centrale.
      4. Altri nomi eccellenti: Yu Huafeng e Li Minying (Southern Metropolitan 
      Daily), 12 anni per aver criticato il governo provinciale del Guangdong 
      in occasione della crisi della sars; Chen Min (China Reform Magazine), arrestato 
      per un articolo sulle madri di Piazza Tiananmen; Ching Cheong (Hong Kong 
      – The Straits Times), accusato di divulgazione di segreti di Stato. 
      Ma la lista potrebbe continuare a lungo.
      5. Le parole d’ordine con cui Hu Jintao ha scelto di definire l’attuale 
      corso politico.
      6. Oltre a quelli citati nel testo, di seguito altri episodi significativi 
      verificatisi di recente: Panlong e Sanjiao (prov. Guangdong), requisizione 
      di terre, scontri con le forze dell’ordine, diversi feriti; Liujiaying 
      (Shandong), proteste contro la costruzione di un parco industriale; provincia 
      dello Sichuan, manifestazioni contro il progetto di costruzione di una diga; 
      Chongqing (provincia omonima), rivolte anti-corruzione; Xinchang (Zhejiang) 
      e Xiachaoshui, proteste anti-inquinamento, Wanzhou (Chongqing), manifestazioni 
      di massa dopo il pestaggio di un cittadino da parte di un ufficiale governativo; 
      provincia dello Henan, scontri etnici; provincia dello Shaanxi, sciopero 
      di settemila lavoratori dell’industria tessile contro il divieto di 
      sindacato locale.
      7. Il sistema delle petizioni all’autorità centrale, residuo 
      di un’arcaica tradizione imperiale, è tuttora vigente ma si 
      riduce ad un rituale meramente simbolico del tutto inadeguato a soddisfare 
      le richieste di giustizia dei reclamanti.
      8. Gu Wenfeng, Extraordinary Confessions.
      9. Misure denominate ufficialmente Costruzione della nuova campagna socialista.
      10. Cfr. Ideazione, marzo-aprile 2006, “Alle radici dell’economia 
      informale”.
      11. Dichiarazione congiunta di Li Datong e Lu Yuegang, 17 febbraio 2006.
    
 Enzo Reale, corrispondente da Barcellona per Ideazione, si occupa di politica 
      estera, in particolare della Spagna, dei paesi del Medio ed Estremo Oriente 
      e dell’Africa.
 
      Enzo Reale, corrispondente da Barcellona per Ideazione, si occupa di politica 
      estera, in particolare della Spagna, dei paesi del Medio ed Estremo Oriente 
      e dell’Africa.
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