Il centrodestra prossimo venturo
di Giovanni Orsina
Ideazione di maggio-giugno 2006

Chi desideri ancora oggi, dopo il risultato elettorale, porre il problema del post-berlusconismo, corre il pericolo di ritrovarsi a parlare da solo. Sfidando il rischio del monologo, tuttavia, è proprio del post-berlusconismo che intendo (continuare a) parlare su queste pagine. Perché rimango persuaso che non sul lungo, ma sul medio se non sul breve periodo, quella dell’emancipazione dello schieramento di centrodestra da Berlusconi rimanga una questione di importanza vitale per gli elettori moderati, e per il paese nel suo complesso.
Per esser chiari: i risultati elettorali li ho visti così come li hanno visti tutti. Ho notato l’errore marchiano commesso dalle istituzioni demoscopiche, recidive nel sottostimare quella parte dell’opinione pubblica berlusconiana che per timore o per orgoglio vuol restare catacombale. Ritengo che il risultato del centrodestra, straordinario se paragonato alle previsioni, sia in larga misura dovuto alla tenacia, alla sensibilità populistica e alle capacità comunicative di Berlusconi. Più in generale, mi pare sempre più evidente come il Cavaliere sia l’unico fuoriclasse vero di un ceto politico nel quale per il resto si muovono, nella migliore delle ipotesi, dei bravi professionisti. Non ho dubbi in conclusione che il 10 aprile del 2006 Berlusconi sia apparso ancora una volta il fulcro imprescindibile dello schieramento moderato e dell’intero sistema politico italiano.

Queste constatazioni, d’altra parte, non possono neppure oscurare tre altre considerazioni, che puntano per certi versi in direzione del tutto opposta. La prima, che il berlusconismo, e anche Berlusconi, si sono effettivamente logorati in dodici anni di battaglie politiche e cinque di governo. La seconda, per molti versi conseguente alla prima: il centrodestra ha di certo ottenuto un risultato notevole considerate le premesse, ma non ha vinto; e tanto meno di pareggio in extremis dobbiamo parlare, e tanto più di vittoria mancata, quanto più riconosciamo che disastro fosse lo schieramento concorrente: rissoso, radicale, autolesionista, guidato da un leader logorato, catastrofico nella comunicazione. Molti fra gli elettori della Casa delle Libertà, insomma, non hanno votato tanto per il Cavaliere, quanto contro Prodi. La terza considerazione, e la più importante, è che Berlusconi e il berlusconismo dovranno prima o poi uscire di scena – e tanto prima il centrodestra comincia a preparare la successione, tanto meno traumatica quella successione sarà.
Nei discorsi sulla grande coalizione del dopo voto si è ragionato spesso di un doppio e simmetrico “passo indietro” di Prodi da un lato, di Berlusconi dall’altro. Ma in realtà la situazione nella quale si trovano i due leader è tutt’altro che simmetrica: Prodi è sovrapposto al centrosinistra, mentre del centrodestra Berlusconi è l’asse portante. E in questi dodici anni, nella Casa delle Libertà ha svolto un’opera di supplenza a tutto campo, rimediando al deficit del moderatismo italiano sul terreno della classe politica, della cultura, delle risorse economiche e mediatiche, della visibilità, della comunicazione. Istituzionalizzare il centrodestra proiettandolo al di là della parabola di Berlusconi e del berlusconismo è dunque un’operazione complessa. Non ci si è pensato negli anni dell’opposizione, e neppure in quelli del governo. Anche perché per le sue caratteristiche personali e politiche il Cavaliere è assai poco adatto a gestire un processo di “normalizzazione”, tanto più quando quel processo deve servire ad amministrare la sua eredità, e rischia dunque di affrettarne la fine.

Tuttavia, ripeto, il centrodestra non può fare a meno di pensare alla propria “normalizzazione”, proprio perché, se dovesse condurre in maniera sbagliata la transizione al post-berlusconismo, correrà il rischio di perdere tutto il lavoro fatto fino ad allora e dovrà ricominciare da capo. E non solo. La migliore via di uscita dal berlusconismo continua ad essere – a maggior ragione considerati i risultati elettorali – quella gestita dallo stesso Berlusconi. La migliore, proprio perché è quella che garantisce la transizione meno dolorosa, e salvaguarda il più di quanto è stato fatto finora. La soluzione ottimale sarebbe dunque se il caimano si decidesse infine a trasformarsi in castoro, e a passare alla storia non soltanto come lo straordinario leader di una guerra di movimento, sempre pronto nell’assalto a baionetta, ma pure come l’edificatore di casematte politiche e culturali capaci di vivere e fruttificare anche senza di lui. Finora il Caimano ha insistito nel voler restare caimano, e non c’è dubbio che i risultati elettorali gli abbiano in larga misura dato ragione. Quali sono allora le prospettive di istituzionalizzazione del centrodestra, nelle attuali circostanze politiche? Come appare, ad oggi, il percorso di una transición pactada (ossia gestita da Berlusconi) verso il post-berlusconismo?
Una vittoria netta del centrodestra, tale da consentirgli di mettere le mani sul Quirinale, avrebbe certamente rappresentato la condizione migliore per un passaggio morbido al post-berlusconismo. Per quanto diversi fossero le circostanze nazionali, l’epoca storica e gli uomini, la Francia della fine degli anni Sessanta mostra con chiarezza come il dualismo fra presidenza della Repubblica e presidenza del Consiglio abbia consentito alla Quinta Repubblica e al centrodestra francesi il distacco, doloroso certo ma non disastroso, dal carisma gollista. Al logoramento di De Gaulle corrisponde infatti in quegli anni il rafforzamento della figura del premier Georges Pompidou, che, in concorrenza ma anche in continuità col Generale, riesce infine a raccoglierne l’eredità.
Viceversa, se la Casa delle Libertà fosse stata sonoramente sconfitta, con ogni probabilità Berlusconi sarebbe uscito di scena in maniera traumatica. Questo avrebbe accelerato la transizione al post-berlusconismo, che si sarebbe però anche svolta nelle peggiori condizioni possibili – proprio perché né negli ultimi dodici né negli ultimi cinque anni è stata minimamente preparata. Si sarebbe corso il rischio della dissoluzione, o quanto meno del marcato ridimensionamento, di Forza Italia. E Dio solo sa, in queste condizioni, che cosa sarebbe avvenuto del centrodestra – e, di conseguenza, del centrosinistra.

La situazione effettivamente uscita dalle elezioni, intermedia fra le due precedenti, non consente di risolvere la questione in maniera indolore, ma non ne impone neppure una soluzione traumatica. Il problema del post-berlusconismo, insomma, è congelato e rimandato, e il modo nel quale si porrà dipenderà molto dall’evolversi della situazione politica generale nei prossimi due o tre anni. Sarebbe tuttavia un errore grave sprecare anche questa occasione, e ritrovarsi magari davanti all’ipotesi dell’uscita di scena del Cavaliere nelle condizioni in cui ci si è trovati un anno fa, all’indomani delle elezioni regionali.
Rispetto a come i prossimi passaggi politici condizioneranno gli assetti interni alla Casa delle Libertà, e quindi la transizione al post-berlusconismo, infine, mi pare che sia necessario tenere conto soprattutto di due variabili: il Quirinale e Palazzo Chigi. Al momento in cui scriviamo le ipotesi sono ancora tutte aperte. Per quanto detto sopra, non è del tutto indifferente se alla presidenza della Repubblica dovesse essere rieletto Ciampi con una sorta di “mandato a termine”, oppure un presidente che duri per l’intero settennato. Ad oggi inoltre, salvo sorprese, appare assai probabile che si vada a un governo Prodi di centrosinistra. Quanto forte sarà quel gabinetto, considerate le divisioni interne allo schieramento progressista e il minimo margine di maggioranza al Senato, e quanto riuscirà a durare, non è facile prevederlo con certezza. È tuttavia lecito ipotizzare che non si tratterà di un esecutivo troppo robusto né troppo longevo. Il che riporta in campo la prospettiva, fra uno o magari due anni, di un governo di grande coalizione che avvicini la legislatura al suo termine naturale.
In linea di massima, malgrado Berlusconi e molti esponenti di primo piano del centrodestra si siano pronunciati a favore di un’ampia convergenza politica fra moderati e progressisti, mi pare piuttosto chiaro che alla Casa delle Libertà tutto convenga, tranne la Grosse Koalition. Perché delle due l’una: o il governo Prodi funziona e dura, e allora la grande coalizione è del tutto fuori gioco; oppure non funziona e non dura, e allora al centrodestra converrà che si torni ad elezioni, così che esso possa lucrare sul logoramento amministrativo dei suoi avversari. È uno dei paradossi della politica di questi tempi, che la grande coalizione oggi proposta dal centrodestra convenga in realtà di più al centrosinistra; e che la riforma costituzionale promossa dalla Casa delle Libertà e destinata ad esser combattuta dall’Unione al referendum, finisca in fondo, se approvata, per rafforzare il governo Prodi.

 

Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all’Università Luiss - Guido Carli di Roma, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.

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