













































































 India, l'elefante con gli occhi di tigre
 
    India, l'elefante con gli occhi di tigre Elefante 
      o tigre? Un pachiderma ingombrante che si muove pesantemente e lentamente; 
      o un felino scattante, veloce, aggressivo? Politici, analisti e media si 
      dividono quando, parlando dell’India, cercano un’immagine che 
      possa dare immediatamente un’idea di come il subcontinente asiatico 
      viene percepito oggi sulla scena mondiale, politica ed economica. Ma tutti 
      concordano sul fatto che un nuovo grande protagonista è ormai pronto 
      a entrare stabilmente e a pieno titolo nel club delle grandi potenze del 
      pianeta. E non potrebbe essere altrimenti. Basta dare uno sguardo ai fatti 
      e alle cifre.
 
      Elefante 
      o tigre? Un pachiderma ingombrante che si muove pesantemente e lentamente; 
      o un felino scattante, veloce, aggressivo? Politici, analisti e media si 
      dividono quando, parlando dell’India, cercano un’immagine che 
      possa dare immediatamente un’idea di come il subcontinente asiatico 
      viene percepito oggi sulla scena mondiale, politica ed economica. Ma tutti 
      concordano sul fatto che un nuovo grande protagonista è ormai pronto 
      a entrare stabilmente e a pieno titolo nel club delle grandi potenze del 
      pianeta. E non potrebbe essere altrimenti. Basta dare uno sguardo ai fatti 
      e alle cifre. 
      Il primo fatto è sotto gli occhi di tutti: l’India è 
      di moda. È tornata a essere un topos: non quello mistico-spirituale 
      dei secoli scorsi, ma quello più prosaico dell’era post-industriale 
      del Ventunesimo secolo. L’architettura fredda delle nuove cattedrali 
      tecnologiche in vetro e ferrocemento di Bangalore ha soppiantato, nell’immaginario 
      occidentale, quella magica dei mille templi o del Taj Mahal. 
      Il mondo – e in particolare gli usa – sta corteggiando l’India 
      come non ha mai fatto prima, affascinato dalla sua nuova storia di crescita, 
      forse preoccupato della superpotenza cinese in Asia, cercando di proteggere 
      alcune scommesse. Capi di Stato, ministri, grandi manager internazionali 
      vanno ormai in pellegrinaggio a New Delhi e nelle altre metropoli indiane, 
      con un ritmo vertiginoso. I corteggiatori più assidui e insistenti 
      sono proprio i più importanti attori delle relazioni internazionali: 
      usa, Cina, Giappone, Russia, Unione Europea. Ciascuno con le proprie preoccupazioni, 
      le proprie strategie e i propri interessi.
      
       Ma 
      il mondo conosce davvero questo paese complesso e diverso? E, d’altro 
      canto, sa l’India che cosa vuole dal mondo? Alla seconda domanda si 
      può rispondere con relativa facilità: l’India cerca 
      spazio e ruolo economico, ma vuole anche che sia riconosciuto il suo status 
      di grande potenza politico-militare. Facile a dirsi, ma molto difficile 
      da realizzarsi. Intanto, però, negli ultimi anni ha accresciuto le 
      proprie credenziali: ha messo a segno un tasso di sviluppo economico sostenuto 
      e ormai pare anche consolidato; si è qualificata come potenza nucleare 
      (ufficialmente con gli esperimenti del 1998); ha messo la sordina ai conflitti 
      territoriali con due potenti vicini, la Cina e il Pakistan, che sono stati 
      causa di scontri armati.
 Ma 
      il mondo conosce davvero questo paese complesso e diverso? E, d’altro 
      canto, sa l’India che cosa vuole dal mondo? Alla seconda domanda si 
      può rispondere con relativa facilità: l’India cerca 
      spazio e ruolo economico, ma vuole anche che sia riconosciuto il suo status 
      di grande potenza politico-militare. Facile a dirsi, ma molto difficile 
      da realizzarsi. Intanto, però, negli ultimi anni ha accresciuto le 
      proprie credenziali: ha messo a segno un tasso di sviluppo economico sostenuto 
      e ormai pare anche consolidato; si è qualificata come potenza nucleare 
      (ufficialmente con gli esperimenti del 1998); ha messo la sordina ai conflitti 
      territoriali con due potenti vicini, la Cina e il Pakistan, che sono stati 
      causa di scontri armati. 
      E ha già presentato il conto. Mentre attende la riforma dell’onu 
      dove ha chiesto di occupare uno dei seggi nel Consiglio di Sicurezza, ha 
      raggiunto un accordo con gli Stati Uniti sullo spinoso e annoso problema 
      nucleare, ottenendo la caduta delle sanzioni per aver sviluppato energia 
      nucleare con potenziale bellico contravvenendo al divieto contenuto nel 
      Trattato di non proliferazione. 
      Proprio il rapporto con gli usa sta offrendo, finalmente, all’India 
      la chiave per accedere ai vertici dell’ordine politico-economico mondiale. 
      
      Molti americani sarebbero probabilmente sorpresi nell’apprendere che 
      l’India è diventato, senza alcun dubbio, il paese più 
      filo-americano del mondo. Di recente, in un sondaggio della Pew Global Attitude 
      Survey un sorprendente 71 per cento di indiani ha dichiarato di avere un’impressione 
      favorevole verso gli usa. Dei cittadini dei 16 paesi coinvolti nel sondaggio, 
      solo gli stessi americani hanno dichiarato di avere una visione più 
      favorevole dell’America (83 per cento). Il risultato è stato 
      confermato, anche se con numeri diversi, da altre inchieste.
      Eppure per decenni il governo indiano aveva provato a inculcare un sentimento 
      anti-americano nel suo popolo (soprattutto negli anni Settanta i politici 
      parlavano spesso di una mano nascosta, hidden hand – la cia o comunque 
      l’interferenza americana – quando si trattava di spiegare le 
      ragioni delle miserie dell’India). Di questo grande sforzo di propaganda 
      non è rimasta traccia se non nella retorica antiglobal, erede, non 
      solo in India, del terzomondismo più velleitario della seconda metà 
      del secolo scorso. Le manifestazioni anti-Bush, durante la visita a New 
      Delhi nel marzo scorso, sono state quasi patetici “atti dovuti”. 
      Non solo per i numeri dei partecipanti, ma anche e soprattutto perché 
      il presidente americano stava siglando storici accordi con un governo di 
      sinistra, ancora dominato dal partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi 
      e appoggiato dai comunisti.
      Il realismo ha suggerito al governo di sfruttare al meglio la posizione 
      strategica che la storia ha assegnato all’India, chiamata – 
      non dagli americani, ma dalle leggi della geopolitica – a fare da 
      contrappeso alla crescente e preoccupante potenza cinese nello scacchiere 
      asiatico e mondiale.
      
       Alla crescita politica 
      dell’India hanno sicuramente contribuito gli spettacolari risultati 
      conseguiti sul piano economico. Negli ultimi 15 anni, l’India è 
      stato il secondo paese per velocità di crescita nel mondo, registrando 
      una media superiore al 6 per cento l’anno. La crescita ha accelerato 
      al 7,5 per cento l’anno scorso e probabilmente manterrà lo 
      stesso passo anche quest’anno. Molti osservatori credono che l’India 
      potrebbe espandersi a questo tasso in tutto il prossimo decennio.
 Alla crescita politica 
      dell’India hanno sicuramente contribuito gli spettacolari risultati 
      conseguiti sul piano economico. Negli ultimi 15 anni, l’India è 
      stato il secondo paese per velocità di crescita nel mondo, registrando 
      una media superiore al 6 per cento l’anno. La crescita ha accelerato 
      al 7,5 per cento l’anno scorso e probabilmente manterrà lo 
      stesso passo anche quest’anno. Molti osservatori credono che l’India 
      potrebbe espandersi a questo tasso in tutto il prossimo decennio.
      E le cose non dovrebbero cambiare se si allunga lo sguardo. Per la Goldman 
      Sachs, secondo quanto riportato da Newsweek, per esempio, nei prossimi 50 
      anni l’India crescerà più velocemente rispetto alle 
      maggiori economie mondiali (molto a causa del fatto che la sua forza lavoro 
      invecchierà meno velocemente). Fra 10 anni la sua economia supererà 
      quella dell’Italia e fra 15 raggiungerà quella della Gran Bretagna. 
      Intorno al 2040 sarà la terza economia del mondo. Per il 2050 sarà 
      cinque volte più grande di quella del Giappone e il suo reddito pro-capite 
      sarà cresciuto di 35 volte rispetto al livello attuale. Da notare 
      che l’attuale tasso di crescita dell’economia indiana è 
      superiore a quello indicato dallo studio.
      Solo la Cina, l’altro gigante asiatico e mondiale, è riuscita 
      a fare meglio, con una crescita media del 10 per cento. Ma sulla classificazione 
      della Cina non ci sono problemi: essa è la tigre per eccellenza, 
      quella che sta in prima fila. Una tigre che incute rispetto, ma anche timore. 
      Gli indiani preferiscono un’immagine più rassicurante per il 
      loro paese. Assicura Gurcharan Das, guru del management ed economista indiano: 
      «L’India non sarà una tigre, ma somiglia piuttosto a 
      un elefante che marcia a passo sicuro. Una crescita superiore sarebbe possibile 
      solo per atti d’imperio di un governo autoritario, che spinga su investimenti 
      pubblici o tagli i nodi burocratici per stendere tappeti rossi agli investitori 
      internazionali in determinati settori». Ogni riferimento alla Cina 
      non è puramente casuale.
      La crescita della Cina è un prodotto del suo efficiente e onnipotente 
      governo. La crescita dell’India, invece, è disordinata, caotica 
      e largamente non programmata. Non è top-down ma bottom-up, non promana 
      cioè dall’alto ma dal basso. Sta avvenendo non grazie al governo, 
      ma in larga parte nonostante esso. E, come vedremo, può essere minacciata 
      proprio da una scarsa governance.
      “Chindia”, Cina (China in inglese) più India: i loro 
      nomi, combinati, sembrano fatti apposta per un gioco di parole. E la tentazione 
      di vedere nell’uno lo specchio dell’altro è irresistibile 
      e forse inevitabile, ma può essere fuorviante. India e Cina, da sempre 
      due civiltà molto diverse, hanno seguito strade molto diverse verso 
      lo sviluppo. Soprattutto hanno cominciato il loro straordinario cammino 
      verso lo sviluppo e la modernità in tempi molto differenti. E sta 
      forse proprio qui – nell’inizio anticipato – una delle 
      ragioni principali del gap attuale, a favore della Cina.
      Il regime di Pechino avviò le sue riforme, nel 1978, dopo la fine 
      dell’incubo della “rivoluzione culturale” e la morte di 
      Mao. Dopo la crisi di Tiananmen del 1989, quando fu addirittura messa in 
      discussione l’apertura degli anni precedenti, il processo riformatore 
      ebbe un nuovo e più forte impulso, sotto la guida di Deng Xiaoping, 
      all’inizio del 1992. 
      L’India, invece, sotto la guida illuminata dell’allora ministro 
      delle Finanze e attuale primo ministro Manmohan Singh, cominciava proprio 
      allora, nel 1991. Fu una scelta obbligata: dopo la caduta dell’impero 
      sovietico – il suo principale partner economico e politico – 
      il governo di New Delhi si trovò spiazzato e isolato sulla scena 
      mondiale, dove si era definitivamente dissolto il suo sogno di leadership 
      dei “non allineati”, e con un disastroso carico di debiti che 
      rischiava di schiacciare il Paese. Ma, a quel punto, aveva già perso 
      il vantaggio che aveva sui vicini. Nel 1960 l’India aveva un reddito 
      pro-capite superiore a quello della Cina; oggi è la metà di 
      quello cinese. Quell’anno aveva lo stesso reddito pro-capite della 
      Corea del Sud; oggi quello della Corea è di 13 volte superiore. 
      Eppure, la partenza, nell’immediato dopoguerra, lasciava prevedere 
      altri sviluppi. Dopo la fine della dominazione straniera (15 agosto 1947), 
      fu creata una repubblica laica, unificata e democratica con una rapidità 
      eccezionale, anche non furono risparmiati momenti drammatici e crudeli per 
      la spartizione dell’ex dominion tra India (a maggioranza indù) 
      e Pakistan (musulmano). Ma l’economia, voluta socialista e pianificata, 
      rimase alle corde, soffrendo quello che si è finito per chiamare 
      “tasso di crescita indù”. 
      
       Negli anni 1950 e 1960, 
      l’India tentò la strada della modernizzazione creando un modello 
      di economia “mista”, tra capitalismo e comunismo. Questo ha 
      significato un settore privato incatenato e sovra-regolamentato e un settore 
      pubblico massicciamente inefficiente e corrotto. I risultati furono miseri 
      e negli anni Settanta, a mano a mano che l’India diventava più 
      socialista, divennero disastrosi. La quota dell’India nel commercio 
      mondiale scese a zero. Gli imprenditori e le grandi famiglie del mondo degli 
      affari fuggivano all’estero per poter guadagnare soldi e sfuggire 
      alla vulgata sovietica che pretendeva di fissare persino il numero di bulloni 
      che una fabbrica poteva utilizzare.
 Negli anni 1950 e 1960, 
      l’India tentò la strada della modernizzazione creando un modello 
      di economia “mista”, tra capitalismo e comunismo. Questo ha 
      significato un settore privato incatenato e sovra-regolamentato e un settore 
      pubblico massicciamente inefficiente e corrotto. I risultati furono miseri 
      e negli anni Settanta, a mano a mano che l’India diventava più 
      socialista, divennero disastrosi. La quota dell’India nel commercio 
      mondiale scese a zero. Gli imprenditori e le grandi famiglie del mondo degli 
      affari fuggivano all’estero per poter guadagnare soldi e sfuggire 
      alla vulgata sovietica che pretendeva di fissare persino il numero di bulloni 
      che una fabbrica poteva utilizzare.
      Ora, c’è da dire che proprio gli indiani della diaspora all’estero 
      (nri, i Non-Resident Indians) hanno giocato un ruolo importante nell’aprire 
      la madre patria: sono tornati in India con soldi, idee di investimenti, 
      standard globali e, soprattutto, un senso che volendo si può raggiungere 
      qualsiasi obiettivo. Il loro successo – in tutto il mondo, ma in particolare 
      nelle due grandi metropoli del capitalismo, gli usa e la Gran Bretagna – 
      è un esempio vivo, sempre presente, stimolante soprattutto per i 
      giovani indiani che sono la vera forza, numerica e intellettuale, della 
      nuova India. La metà della popolazione indiana ha meno di 25 anni.
      India, a mix of brain power and large scale: India, una combinazione di 
      potere cerebrale e di grandi dimensioni. La demografia è l’arma 
      assoluta dell’India per l’oggi e il domani. È insieme 
      una riserva di consumatori e una leva per perseguire i cambiamenti necessari. 
      Oggi, insieme, India e Cina hanno una popolazione pari ai due quinti di 
      tutta l’umanità. I numeri sono impressionanti: più di 
      1.300 milioni di abitanti in Cina e quasi 1.100 milioni in India. Ma il 
      rapporto sta per cambiare: nel 2025 vivranno in India 1.395 milioni di persone 
      e 1.593 nel 2050; i cinesi saranno 1.441 milioni nel 2025, però scenderanno 
      a 1.392 milioni nel 2050 a causa del loro inferiore tasso di natalità.
      La più promettente risorsa del paese è, dunque, una grande 
      e giovane riserva umana, forte di un’educazione crescente e con il 
      vantaggio di una conoscenza generalizzata e quasi naturale dell’inglese 
      (l’India nel 2010 conterà sul più grande numero di anglofoni 
      del mondo). Già oggi, grazie a questo fattore, l’India è 
      diventata “l’ufficio del mondo” in contrapposizione indiretta 
      con la Cina che viene definita “la fabbrica del mondo”.
      La scommessa è quella di uno sviluppo più equilibrato. Per 
      esempio, il modello attuale per il quale il mondo ammira l’India e 
      di cui il paese va oggi orgoglioso alla lunga potrebbe rivelarsi inadeguato 
      o almeno insufficiente. Va bene essere all’avanguardia nelle tecnologie 
      dell’informatica e delle telecomunicazioni o nelle biotecnologie, 
      va altrettanto bene essere il centro mondiale dei call center e dell’outsourcing. 
      Ma dal punto di vista dei numeri – tanto più quando si tratta, 
      come nel caso dell’India, di cifre a otto e nove zeri – l’occupazione 
      che può arrivare da una crescita limitata o almeno molto accentuata 
      sul settore dei servizi non è sufficiente ad assorbire un inevitabile 
      esodo dalle campagne dove ancora vivono 700 milioni di indiani, quasi tutti 
      a livelli di miseria abissali. Occorre guardare anche all’agricoltura 
      e, soprattutto, all’industria e al settore manifatturiero. Per creare 
      più occupazione bisogna accettare di fare almeno un po’ di 
      concorrenza alla Cina, che oggi è la meta preferita della localizzazione 
      delle fabbriche dai paesi più maturi (usa, Europa e Giappone).
      Qualcuno, crudamente, ha fatto rilevare che l’India forse ha parecchie 
      Silicon Valley, ma ha anche tre Nigerie dentro di sé, con più 
      di 300 milioni di persone che vivono – o, meglio, cercano di sopravvivere 
      – con meno di un dollaro al giorno. 800 milioni guadagnano meno di 
      2 dollari al giorno. L’India ha il 40 per cento dei poveri del mondo 
      e la seconda più grande popolazione infetta di aids del mondo. 
      Nei paesi in via di sviluppo, molti hanno sistematicamente promesso troppo 
      e mantenuto poco. La tendenza è di spingere le riforme in periodi 
      di difficoltà e di sprecare le risorse quando la pressione si abbassa. 
      E anche in India, dall’inizio delle riforme nel 1991 a oggi, periodi 
      di entusiasmo ed euforia si sono alternati ad altri di delusione e disappunto.
      
       L’India ha un 
      evidente tallone d’Achille che potrebbe bruciare tutte le promesse 
      e le premesse dello sviluppo: lo stato disastroso delle infrastrutture che 
      impone costi addizionali alle imprese erodendo il vantaggio di un basso 
      costo del lavoro. Solo le telecomunicazioni hanno avuto un significativo 
      miglioramento, mentre è lontana la modernizzazione di areoporti, 
      strade, ferrovie e porti. E qui che si fa evidente il basso livello della 
      governance.
 L’India ha un 
      evidente tallone d’Achille che potrebbe bruciare tutte le promesse 
      e le premesse dello sviluppo: lo stato disastroso delle infrastrutture che 
      impone costi addizionali alle imprese erodendo il vantaggio di un basso 
      costo del lavoro. Solo le telecomunicazioni hanno avuto un significativo 
      miglioramento, mentre è lontana la modernizzazione di areoporti, 
      strade, ferrovie e porti. E qui che si fa evidente il basso livello della 
      governance.
      Uno degli aspetti per i quali molti oggi sembrano propensi a preferirla 
      alla Cina del totalitarismo più o meno illuminato è il fatto 
      che l’India è la più grande democrazia del mondo. Certo, 
      con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. Quasi un miracolo nella 
      storia dell’Asia, ma un miracolo con tanti lati oscuri: una corruzione 
      endemica, a tutti i livelli; clientelismo e localismo asfissiante; tentazioni 
      di integralismo, che hanno provocato in tempi più o meno lontani 
      esplosioni di odio religioso ed etnico (si ricordino la strage di sikh a 
      New Delhi nel 1983 e quella dei musulmani nel Gujarat nel 2002).
      La democrazia è la forza dell’India, ma può rendere 
      le cose più difficili, soprattutto quando si assiste a una frammentazione 
      degli schieramenti e diventano inevitabili governi con coalizioni vaste 
      e variegate (quella oggi al governo raccoglie 20 partiti!) capaci più 
      di porre veti e bloccare che di prendere le decisioni che sono fondamentali 
      per procedere sulla strada delle riforme e dell’apertura economica.
      
       
  Franco Oliva, giornalista, corrispondente da Madrid per Ideazione.
 
      Franco Oliva, giornalista, corrispondente da Madrid per Ideazione.
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