

 
      Le sale del Museo di storia jugoslava hanno celebrato l’ultimo rito 
      di una Jugoslavia che non c’è più. Slobodan Milosevic 
      è morto, e i nostalgici della Grande Serbia gli hanno reso un composto 
      e ufficioso omaggio.
      La morte di colui che è passato alla storia come il macellaio dei 
      Balcani segna una svolta, forse decisiva, nella storia dell’area balcanica. 
      È una pagina che si chiude, è l’ultimo baluardo di un 
      sistema politico e sociale che è fallito, che non ha certo portato 
      benefici a questa difficoltosa zona d’Europa a un tiro di schioppo 
      dall’Italia. L’arresto cardiaco dell’ex presidente jugoslavo, 
      detenuto nel carcere dell’Aja, coincide con un periodo particolarmente 
      importante per l’area dei Balcani occidentali. Dopo l’ingresso 
      nell’Unione Europea della Slovenia, infatti, Croazia, Serbia & 
      Montenegro, Macedonia e Bosnia-Erzegovina continuano il difficile e presumibilmente 
      lungo cammino verso Bruxelles. È un processo difficile ma anche importante 
      e imprescindibile, fondamentale soprattutto per l’Italia, da sempre 
      partner economico e commerciale privilegiato dei paesi dell’area balcanica.
      All’accelerazione dell’integrazione dei Balcani ha contribuito 
      anche il semestre austriaco di presidenza dell’Unione Europea, che 
      ha rilanciato nell’agenda comunitaria l’importante tema dell’avvicinamento 
      dell’area a Bruxelles. Si tratta, ovviamente, di una conseguenza naturale 
      della presidenza di Vienna. Anche per l’Austria, infatti, la zona 
      dei Balcani occidentali rappresenta un’importantissima zona di interessi, 
      per cui una sua più celere “europeizzazione” è 
      un obiettivo strategicamente fondamentale per Schüssel e il suo governo. 
      La storia recente dei Balcani, è inutile ricordarlo, ancora brucia 
      e ha lasciato ferite difficilmente sanabili all’interno del nostro 
      continente.
      Tuttavia è ormai altrettanto assodato che solo attraverso l’ingresso 
      della Croazia nell’ue (e in un secondo momento della Bosnia-Erzegovina, 
      della Serbia-Montenegro e della Macedonia) si può giungere ad una 
      efficace (e si spera duratura) stabilizzazione di quell’area nevralgica 
      della sponda adriatica dell’Europa sudorientale.
      Le conseguenze positive di un coinvolgimento maggiore dei Balcani occidentali 
      comprendono anche, ad esempio, la creazione e il completamento di quei corridoi 
      transeuropei che rappresentano un requisito imprescindibile per lo sviluppo 
      commerciale dell’Europa e per il rilancio delle vie di comunicazione 
      su gomma. Alcuni dei corridoi in programma, infatti, passano attraverso 
      i Balcani ed è abbastanza ovvia la stretta relazione tra l’integrazione 
      dei paesi dell’area e la completa efficacia di questi progetti così 
      ambiziosi.
      Ovviamente ogni paese della zona balcanica ha peculiarità proprie 
      e si avvicina a Bruxelles secondo direttrici differenti e distinte. Per 
      questo è utile tentare di intraprendere un breve viaggio attraverso 
      le varie realtà, cercando di esaminarne gli aspetti sociali, politici, 
      economici e culturali. L’area dei Balcani occidentali ha dimostrato 
      da anni di non essere affatto un blocco monolitico: troppe sono le differenze 
      e i contrasti, e solo prendendoli in esame con perizia e attenzione è 
      possibile tentare di capire i possibili sviluppi futuri di un pezzo d’Europa 
      troppo importante per il completamento dell’utopia europeista, ultimamente 
      agonizzante, che proprio attraverso l’ex Jugoslavia potrebbe trovare 
      il suo definitivo e concreto rilancio.
 
      Croazia
      Dopo l’ingresso della Slovenia, dunque, è Zagabria il prossimo 
      obiettivo di questa strategia di europeizzazione dei Balcani (o di balcanizzazione 
      dell’Europa?).
      Il cammino, però, è stato lungo e tortuoso: l’Unione 
      Europea ha stabilito i primi contatti diplomatici con la Croazia nel 1997 
      e il 29 ottobre 2001 è stato siglato l’Accordo di Stabilizzazione 
      e di Associazione (saa).
      Quasi tre anni dopo, il 18 giugno 2004, il Consiglio Europeo di Bruxelles 
      ha esaminato il parere favorevole della Commissione ed ha finalmente concesso 
      a Zagabria lo status di “candidato ufficiale”. Il 16 marzo 2005, 
      tuttavia, il coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti dei 25) non 
      ha raggiunto l’unanimità necessaria per dare il via libera 
      ai negoziati, sottolineando la scarsa collaborazione della Croazia con il 
      Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra compiuti nell’ex 
      Jugoslavia. Solo nell’ottobre dello stesso anno la situazione si è 
      finalmente sbloccata: i negoziati tra l’ue e Zagabria sono partiti, 
      pur senza dimenticare i nodi ancora irrisolti che andranno necessariamente 
      sbrogliati per convincere l’ala più reticente dei paesi membri. 
      Il Consiglio dell’Unione Europea ha recentemente approvato la “Partnership 
      di adesione”, un documento che definisce le priorità a breve 
      e lungo termine della preparazione della Croazia all’ingresso nell’ue, 
      ingresso che dovrebbe avvenire entro la fine del decennio in corso.
      Diamo uno sguardo ai requisiti necessari, in modo tale da capire quanto 
      è stato fatto e quanto ancora c’è da fare.
      La proposta del Consiglio sull’adesione croata del 9 novembre 2005 
      ha stabilito alcune priorità, conditio sine qua non sulla strada 
      verso l’ingresso di Zagabria nell’Unione.
      Queste alcune delle priorità fondamentali a breve termine:
      - Adottare e avviare l’attuazione di una strategia nazionale di prevenzione 
      e lotta contro la corruzione e garantire il necessario coordinamento tra 
      gli enti e i dipartimenti governativi responsabili dell’attuazione 
      della strategia, segnatamente assicurando la piena operatività dell’Ufficio 
      per la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata.
      Questa condizione è assolutamente necessaria in una nazione ancora 
      troppo condizionata dai potentati politici e criminali. La conclusione dell’esperienza 
      della “democrazia autoritaria” di Franjo Tudjman avrebbe dovuto 
      finalmente porre fine ad un sistema di corruzione radicato nel tessuto politico 
      e istituzionale. Così non è stato. O perlomeno non nelle dimensioni 
      attese e auspicabili per un paese che punta all’integrazione europea.
      - Assicurare una più rapida attuazione della legge costituzionale 
      sulle minoranze nazionali: in particolare, occorre adottare misure urgenti 
      per garantire la rappresentanza proporzionale delle minoranze nelle sedi 
      di autogoverno locali e regionali, negli enti amministrativi e negli organi 
      giudiziari dello Stato, nonché negli enti della pubblica amministrazione.
      Altro grave problema quello delle minoranze nazionali. La Croazia, senza 
      dover risalire addirittura agli Ustascia, è da sempre un territorio 
      fortemente nazionalista e le esperienze della guerra nella ex Jugoslavia 
      hanno rimarcato una volta di più questa caratteristica. Tutelare 
      le minoranze nazionali in una realtà come quella croata è 
      più facile a dirsi che a farsi. Il 4,5 per cento della popolazione 
      è serba e altre piccole minoranze (ma storicamente importanti) sono 
      quelle dei bosgnacchi (i bosniaci di religione musulmana), degli ungheresi 
      e degli italiani nella zona istriana. Il problema più grosso è 
      evidentemente quello della minoranza serba, di certo vista non troppo bene 
      dal resto della popolazione croata. In un’area ancora lacerata come 
      quella dell’ex Jugoslavia, un argomento per noi banale e scontato 
      come quello del rispetto delle minoranze diventa un ostacolo non facilmente 
      superabile. 
      - Continuare a garantire piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale 
      per l’ex Jugoslavia.
      Questo è il punto più controverso. Molti paesi dell’Unione 
      Europea hanno posto più volte la questione della collaborazione croata 
      alle indagini del tpi, a loro giudizio troppo tiepida. Esemplare, in questo 
      senso, è il caso di Ante Gotovina, uno degli “eroi” dell’indipendenza 
      croata, generale dell’esercito di Zagabria fino al 2001. Per i quattro 
      anni successivi aveva scelto la latitanza, fino all’arresto dell’8 
      dicembre 2005 alle Canarie. Gotovina è accusato di violenze contro 
      la popolazione civile di etnia serba, durante le operazioni Oluja (tempesta) 
      e Sacca di Medak. Proprio la latitanza di Gotovina ha rappresentato per 
      molto tempo un ostacolo insormontabile per l’inizio dei negoziati 
      di adesione della Croazia all’ue. Più volte Carla Dal Ponte, 
      procuratore del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, ha insinuato 
      il sospetto (in verità più che fondato) che il governo di 
      Zagabria avesse in qualche modo coperto la fuga del criminale di guerra.
      - Impegnarsi per la risoluzione definitiva di questioni bilaterali rimaste 
      in sospeso, in particolare le vertenze frontaliere con Slovenia, Serbia 
      e Montenegro e Bosnia-Erzegovina.
      La questione più spinosa riguarda il contenzioso con la Slovenia 
      (peraltro già membro dell’Unione Europea) sulle aree di competenza 
      marittima. È notizia recente, infatti, la decisione del governo sloveno 
      di estendere la propria sovranità su tutta la baia di Pirano, fino 
      alla costa croata, nonché su una fascia di mare che arriva alla latitudine 
      della località istro-croata di Orsera (Vrsar) e che coincide con 
      la fascia ecologica che Lubiana ha dichiarato unilateralmente qualche mese 
      fa. 
      Il governo sloveno spiega il decreto come risposta alla recente definizione, 
      anch’essa unilaterale, della zona ittica croata che arriva fino alla 
      metà della contesa baia di Pirano. La decisione di Lubiana, forte 
      anche del suo status di membro effettivo dell’ue, ha creato non pochi 
      malumori negli ambienti politici croati e, cosa più importante, anche 
      tra le file dell’opposizione parlamentare slovena. La decisione unilaterale 
      è stata definita “azzardata” e “pericolosa” 
      e le dichiarazioni di alcuni esponenti sloveni non lasciano presagire niente 
      di buono per il futuro. La Slovenia nel 2008 gestirà per sei mesi 
      la presidenza di turno dell’ue, sei mesi da dedicare in particolare 
      all’assistenza dei Balcani occidentali nel loro avvicinamento all’Unione. 
      Assistenza che è facilmente interpretabile come condizionamento bilaterale. 
      La recente dichiarazione del ministro degli Esteri di Lubiana spiega la 
      situazione meglio di mille interpretazioni: «Zagabria sappia che una 
      delle 25 chiavi per entrare nell’ue la teniamo in mano noi». 
      La Slovenia, dunque, sfrutterà il ruolo istituzionale europeo per 
      forzare la mano nella lunga e difficile partita dei confini con la Croazia. 
      
      Zagabria ha iniziato, dunque, un difficile e tortuoso cammino di avvicinamento 
      alle istituzioni comunitarie. L’appoggio di paesi con forti interessi 
      economici nell’area, quali Austria e Italia, potrebbe essere molto 
      importante. Ma in un Moloch farraginoso e confuso come l’attuale ue, 
      anche la voce della piccola Slovenia potrebbe risultare determinante.
 
      Serbia-Montenegro
      Più difficile, e decisamente più lungo, è l’iter 
      di adesione della Serbia-Montenegro. Troppi sono i punti ancora controversi, 
      troppe le distanze che separano le due repubbliche balcaniche da Bruxelles. 
      Nella Proposta di decisione del Consiglio relativa ai principi, alle priorità 
      e alle condizioni contenuti nel partenariato europeo con Serbia e Montenegro, 
      datata 9 novembre 2005, si fissano numerosi e difficili punti da realizzare, 
      in vista di un ingresso nell’Unione comunque non previsto prima del 
      prossimo decennio. Si va dalla necessità di riformare il sistema 
      giudiziario alla legge elettorale, passando per la tutela delle minoranze, 
      una maggiore collaborazione con le altre nazioni dell’area balcanica 
      e la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata (che soprattutto 
      in Montenegro rappresenta una realtà radicata e potente). Ma il problema 
      maggiore, tanto per cambiare, riguarda sempre il controverso rapporto tra 
      Belgrado e le indagini del Tribunale Penale Internazionale per l’ex 
      Jugoslavia. Mladic e Karadzic, i superlatitanti della guerra in Bosnia, 
      dominano ancora il dibattito politico interno e il rapporto della Serbia 
      con il mondo occidentale.
      La recente falsa notizia dell’arresto di Ratko Mladic, macellaio di 
      Srebrenica, aveva già iniziato a provocare malumori e accenni di 
      proteste clamorose all’interno dell’opinione pubblica serba. 
      A darne conferma, in un’intervista concessa a Giuseppe Zaccaria de 
      La Stampa, è l’ultranazionalista Tomislav Nikolic, leader del 
      Partito Radicale e forte di un incredibile successo elettorale (1.200.000 
      voti).
      Secondo Nikolic la latitanza di Mladic sta per volgere al termine ma l’analisi 
      del politico serbo va oltre e si fa macabra: «Se fossero obbligati 
      a consegnarsi al tribunale dell’Aja, Ratko Mladic e Radovan Karadzic 
      avrebbero il dovere morale di uccidersi, lo devono alla Serbia, non possono 
      permettere che il nostro Stato venga infangato da accuse infamanti». 
      E ancora: «[Il giorno in cui l’arresto avvenisse davvero accadrebbe] 
      tutto il peggio, temo: violenze di masse incontrollate, attacchi alle ambasciate 
      occidentali, alla moschea di Belgrado…».
      Le parole di Nikolic, che può contare sui voti delle fasce più 
      povere e dei profughi provenienti da Bosnia e Croazia, suonano come una 
      malcelata minaccia al governo di Belgrado che, per ovvi motivi di convenienza 
      politica ed economica, preme per una conclusione (seppur meno traumatica 
      possibile) della latitanza dei due criminali di guerra. Senza l’arresto 
      di Mladic e Karadzic, infatti, la Serbia non potrebbe contare sui lauti 
      aiuti economici provenienti da Bruxelles e Washington e il rilancio economico 
      rimarrebbe un obiettivo fuori dalla sua portata.
      Un’altra non trascurabile conseguenza dell’arresto di Mladic 
      e Karadzic, soprattutto ai fini della nostra trattazione, sarebbe l’ulteriore 
      avvicinamento alle istituzioni comunitarie, che su questo punto (giustamente) 
      hanno deciso di dare battaglia fino all’ultimo.
      Ma gli aspetti “internazionali” della difficile integrazione 
      comunitaria, non possono e non devono oscurare altri importanti problemi 
      “interni” che devono essere risolti: corruzione, criminalità 
      organizzata, diritti umani, maggiore democratizzazione delle istituzioni. 
      Sono questi i nodi irrisolti, le vere questioni fondamentali la cui soluzione 
      potrebbe (finalmente) rilanciare sul panorama europeo una nazione per troppo 
      tempo impelagata nella palude viscida e letale del nazionalismo socialista 
      di Slobodan Milosevic. La sua eredità pesa ancora troppo sulle spalle 
      di Belgrado e soprattutto sull’opinione pubblica serba, non del tutto 
      depurata dalla retorica nazionalista che storicamente in Serbia ha sempre 
      trovato terreno fertile. Per quanto riguarda il Montenegro, repubblica federale 
      sempre meno accondiscendente nei confronti dell’autorità centrale, 
      il problema maggiore sembra essere quello della criminalità organizzata. 
      L’Unione Europa può pensare di accogliere all’interno 
      delle sue istituzioni (magari anche all’interno della moneta unica) 
      un territorio che di fatto vive e si sostenta con il contrabbando e i traffici 
      internazionali di droga?
      L’allargamento dell’ue verso i Balcani è senza dubbio 
      un processo storico inevitabile e benefico. Tuttavia non si deve compiere 
      l’errore madornale di voler velocizzare a tutti i costi l’inclusione 
      di paesi che non hanno ancora i requisiti per farne parte.
      Da non trascurare, ovviamente, è la controversia sul Kosovo, annoso 
      e irrisolto problema territoriale che rischia non solo di ritardare l’adesione 
      della Serbia all’ue ma anche (e forse è questa la conseguenza 
      peggiore) di far riesplodere conflitti e tensioni soltanto temporaneamente 
      sopite. Il 20 e 21 febbraio 2006, a Vienna, si sono finalmente incontrati 
      i rappresentanti delle istituzioni serbe e kosovare, a più di sei 
      anni dalla fine del conflitto e dei bombardamenti nato. Il luogo scelto 
      non è affatto casuale. All’inizio di questo nostro excursus 
      tra i Balcani avevamo posto l’accento proprio sul ruolo dell’Austria 
      in questa delicata fase di allargamento dell’Unione Europea. Ruolo 
      dettato naturalmente da motivi di ordine economico e commerciale. In questo 
      senso l’Italia rischia di perdere un treno importante. L’area 
      balcanica è molto importante anche per il nostro paese e farsi scavalcare 
      da Vienna, che sfrutta come abbiamo detto in precedenza il semestre di presidenza, 
      non rappresenterebbe certo un risultato lusinghiero.
      Tornando all’incontro serbo-kosovaro, dobbiamo innanzitutto gettare 
      sul tappeto le questioni fondamentali: il Kosovo sta vivendo da qualche 
      anno una ambigua situazione relativa al suo status. De jure, infatti, il 
      Kosovo è ancora parte della Serbia-Montenegro; de facto, invece, 
      è un protettorato internazionale. Ma nei colloqui viennesi, almeno 
      per ora, il discorso dello status kosovaro non è stato affrontato. 
      È ancora troppo presto e troppi sono i punti “preliminari” 
      ancora da chiarire, primo tra tutti il decentramento amministrativo, possibile 
      anticamera dell’indipendenza o massimo risultato raggiungibile. Per 
      non parlare, poi, della tutela delle minoranze, problema che in Kosovo rappresenta 
      pienamente il capovolgimento di fronte rispetto a qualche anno fa. Ora sono 
      i serbi a soffrire discriminazioni e ostracismi.
      Questi (e molti altri) sono i punti cruciali del cammino di Serbia e Montenegro 
      (e Kosovo) verso Bruxelles. Problemi spinosi, sicuramente difficili da risolvere 
      e che prefigurano un lungo ed estenuante processo di integrazione che verosimilmente 
      non potrà realizzarsi prima del prossimo decennio.
 
      Macedonia
      Il 15 e il 16 dicembre 2005 a Skopje molti erano con il fiato sospeso. A 
      Bruxelles si discuteva, tra le altre cose, sull’opportunità 
      o meno di assegnare alla repubblica macedone lo status di paese candidato 
      all’ingresso nell’Unione Europea.
      L’ostacolo maggiore era il paventato “no” francese, che 
      dimostrava ancora una volta la scarsa disponibilità da parte di Parigi 
      ad aprire l’ue verso i Balcani occidentali. Le lunghe e difficoltose 
      trattative, tuttavia, si sono concluse nel migliore dei modi e la Macedonia 
      è ormai ufficialmente candidata a diventare membro effettivo delle 
      istituzioni comunitarie, vincendo le resistenze francesi e le difficoltà 
      legate al raggiungimento dell’accordo sulle prospettive economico-finanziarie 
      2007-2013. Questa pur importante vittoria diplomatica, che sottolinea comunque 
      i progressi del governo di Skopje, non può e non deve apparire come 
      una vittoria definitiva. Anche per quanto riguarda la Macedonia, la strada 
      è ancora lunga e i dubbi di alcuni importanti paesi europei potrebbero 
      tarpare in qualsiasi momento le ali al sogno europeista macedone.
      Dal punto di vista prettamente politico, la stessa Commissione Europea, 
      pur apprezzando i passi avanti compiuti negli ultimi anni, ha invitato Skopje 
      a prendere ulteriori provvedimenti legislativi per garantire lo Stato di 
      diritto. Nessun problema sul piano della collaborazione con il tpi, né 
      su quello dei rapporti con le altre nazioni dell’area, a parte l’annosa 
      querelle con la Grecia sul nome “Macedonia”, a lungo conteso 
      tra l’ex repubblica jugoslava e la Macedonia “storica” 
      che fa parte dello stato greco.
      Le riforme necessarie, tuttavia, riguardano alcuni settori nevralgici come 
      la polizia, il sistema elettorale, l’ordinamento giudiziario e la 
      lotta alla corruzione. Il che, tuttavia, non ha vietato alla Commissione 
      Europea di dichiarare quanto segue:
      «L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia è una democrazia 
      funzionante, dove lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali 
      sono generalmente garantiti da istituzioni stabili.
      Il paese ha firmato un accordo di stabilizzazione e di associazione (asa) 
      nel 2001 e da allora ha generalmente adempiuto in maniera soddisfacente 
      i relativi obblighi. L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia ha attuato 
      con successo il programma legislativo previsto dall’accordo quadro 
      di Ohrid, che ha contribuito a migliorare sensibilmente la situazione del 
      paese a livello politico e in termini di sicurezza. Tale legislazione va 
      ora applicata completamente. Il paese contribuisce alla cooperazione regionale. 
      L’ex Repubblica iugoslava di Macedonia deve impegnarsi ulteriormente 
      soprattutto per quanto riguarda il processo elettorale, la riforma della 
      polizia, la riforma del sistema giudiziario e la lotta alla corruzione. 
      Visti i progressi globali delle riforme, la Commissione ritiene che il paese 
      sia decisamente sulla buona strada per soddisfare i criteri politici stabiliti 
      dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e il processo di stabilizzazione 
      e di associazione».
Sorprendentemente, 
      dunque, la Macedonia sembra il paese balcanico più idoneo ad entrare 
      a far parte dell’Unione Europea. Ciononostante è fondamentale 
      non trascurare alcuni elementi economici che potrebbero rappresentare un 
      ostacolo. Il sistema economico macedone è pronto alla concorrenza 
      spietata del mercato europeo? Saprà e potrà reggere l’urto 
      di un sistema economico comunitario che dovrebbe rappresentare (il condizionale 
      è più che mai d’obbligo in un periodo segnato dal ritorno 
      del nazionalismo economico) l’esempio più alto di concorrenza 
      e libero mercato?
      Troppo spesso l’Unione Europea è stata considerata solo dal 
      punto di vista economico-finanziario, trascurando aspetti politico-culturali 
      molto importanti. In situazioni come quella macedone il rischio è 
      contrario: troppo spazio a tematiche politiche e troppo poco a problemi 
      economici fondamentali per l’integrazione di un paese dall’economia 
      debole in un sistema complesso e già oliato.
 
      Bosnia-Erzegovina
      Sarajevo, Mostar, Tuzla, Banja Luka, Srebrenica. Città che rievocano 
      orrori indicibili, città che ci fanno tornare indietro nel tempo. 
      La guerra bosniaca ha rappresentato la sconfitta più grande del continente 
      europeo dopo la seconda guerra mondiale, una sconfitta politica, diplomatica, 
      militare ma soprattutto sociale e culturale. 
      Ma oggi la Bosnia è cambiata e, nonostante i problemi ancora difficili 
      da risolvere, ha voglia di entrare a pieno diritto nell’Unione Europea, 
      a testimonianza della cicatrizzazione delle laceranti e sanguinose ferite 
      lasciate sul corpo del nostro continente.
      Ma quanto è affidabile il precario equilibrio uscito dagli accordi 
      di Dayton? La Bosnia-Erzegovina è tuttora divisa in due entità: 
      Federazione di Bosnia ed Erzegovina, 49 per cento del territorio (maggioranza 
      mussulmana) e Repubblica di Serbia, 51 per cento del territorio, oltre all’esistenza 
      di numerose e politicamente importanti enclavi croate nel territorio della 
      Federazione. I rapporti tra le due entità dominanti sembrano finalmente 
      in fase di miglioramento. Numerosi e significativi sono i segnali di apertura 
      e dialogo: l’unificazione delle targhe automobilistiche assumendo 
      un modello senza riferimenti alla provincia di provenienza (tipo Italia) 
      avvenuto nell’estate del 1998, di grande importanza per la comunicazione 
      su strada tra le due entità; la realizzazione di una moneta unica 
      (1999); la definizione di una bandiera unica (con un modello imposto dalle 
      Nazioni Unite) nella primavera del 1998; l’eliminazione del codice 
      internazionale per le chiamate telefoniche e il re-inizio dei contatti bancari 
      nella primavera 2000. Sembrerebbero particolari di poca importanza, ma in 
      una nazione così lacerata e frammentata sono vere e proprie conquiste 
      epocali.
      E la marcia di avvicinamento a Bruxelles continua inesorabile, con i suoi 
      ostacoli, le sue delicate alchimie etnico-politiche. L’atteggiamento 
      dei membri dell’ue nei confronti della Bosnia è forse viziata 
      da un profondo senso di colpo per quello che è successo durante gli 
      anni della guerra. Si tratta di un atteggiamento sicuramente non auspicabile 
      in argomenti di così elevata importanza politico-internazionale, 
      ma in questo caso forse potrebbero essere utili per contribuire al rilancio 
      sociale, culturale, politico ed economico dell’ex repubblica jugoslava. 
      Il rischio, se ciò non dovesse avvenire, è molteplice: da 
      un lato la Bosnia sta diventando un serbatoio pericoloso di fondamentalisti 
      islamici; dall’altro la repubblica serba di Bosnia è sempre 
      meno assistita da Belgrado, ormai convinta che il suo futuro nell’ue 
      passi necessariamente attraverso una collaborazione fattiva con il tpi.
      Troppa lunga sarebbe la lista dei provvedimenti legislativi necessari allo 
      sviluppo democratico della Bosnia. Ci limitiamo, in questa sede, ad un auspicio: 
      l’ingresso bosniaco nell’Unione, seppur non programmato a breve 
      termine, deve rappresentare la pagina conclusiva di un’esperienza 
      drammatica per tutta l’Europa. Tuttavia, la priorità maggiore 
      è forse quella di unire fattivamente la Bosnia Erzegovina. Senza 
      una stabile unità interna, infatti, parlare di ingresso nelle istituzioni 
      comunitarie sembra francamente eccessivo. Al raggiungimento di questo scopo 
      devono lavorare gli Stati membri dell’Unione, stimolando il dialogo 
      tra le varie componenti etniche e incentivando, economicamente e politicamente, 
      il decollo di un’area troppo a lungo dimenticata dall’Europa 
      che conta.
    
 
      
 Domenico Naso,  giornalista.![]()
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