L'ultima frontiera d'Europa
di Domenico Naso
Ideazione di maggio-giugno 2006

Le sale del Museo di storia jugoslava hanno celebrato l’ultimo rito di una Jugoslavia che non c’è più. Slobodan Milosevic è morto, e i nostalgici della Grande Serbia gli hanno reso un composto e ufficioso omaggio.
La morte di colui che è passato alla storia come il macellaio dei Balcani segna una svolta, forse decisiva, nella storia dell’area balcanica. È una pagina che si chiude, è l’ultimo baluardo di un sistema politico e sociale che è fallito, che non ha certo portato benefici a questa difficoltosa zona d’Europa a un tiro di schioppo dall’Italia. L’arresto cardiaco dell’ex presidente jugoslavo, detenuto nel carcere dell’Aja, coincide con un periodo particolarmente importante per l’area dei Balcani occidentali. Dopo l’ingresso nell’Unione Europea della Slovenia, infatti, Croazia, Serbia & Montenegro, Macedonia e Bosnia-Erzegovina continuano il difficile e presumibilmente lungo cammino verso Bruxelles. È un processo difficile ma anche importante e imprescindibile, fondamentale soprattutto per l’Italia, da sempre partner economico e commerciale privilegiato dei paesi dell’area balcanica.
All’accelerazione dell’integrazione dei Balcani ha contribuito anche il semestre austriaco di presidenza dell’Unione Europea, che ha rilanciato nell’agenda comunitaria l’importante tema dell’avvicinamento dell’area a Bruxelles. Si tratta, ovviamente, di una conseguenza naturale della presidenza di Vienna. Anche per l’Austria, infatti, la zona dei Balcani occidentali rappresenta un’importantissima zona di interessi, per cui una sua più celere “europeizzazione” è un obiettivo strategicamente fondamentale per Schüssel e il suo governo. La storia recente dei Balcani, è inutile ricordarlo, ancora brucia e ha lasciato ferite difficilmente sanabili all’interno del nostro continente.
Tuttavia è ormai altrettanto assodato che solo attraverso l’ingresso della Croazia nell’ue (e in un secondo momento della Bosnia-Erzegovina, della Serbia-Montenegro e della Macedonia) si può giungere ad una efficace (e si spera duratura) stabilizzazione di quell’area nevralgica della sponda adriatica dell’Europa sudorientale.
Le conseguenze positive di un coinvolgimento maggiore dei Balcani occidentali comprendono anche, ad esempio, la creazione e il completamento di quei corridoi transeuropei che rappresentano un requisito imprescindibile per lo sviluppo commerciale dell’Europa e per il rilancio delle vie di comunicazione su gomma. Alcuni dei corridoi in programma, infatti, passano attraverso i Balcani ed è abbastanza ovvia la stretta relazione tra l’integrazione dei paesi dell’area e la completa efficacia di questi progetti così ambiziosi.
Ovviamente ogni paese della zona balcanica ha peculiarità proprie e si avvicina a Bruxelles secondo direttrici differenti e distinte. Per questo è utile tentare di intraprendere un breve viaggio attraverso le varie realtà, cercando di esaminarne gli aspetti sociali, politici, economici e culturali. L’area dei Balcani occidentali ha dimostrato da anni di non essere affatto un blocco monolitico: troppe sono le differenze e i contrasti, e solo prendendoli in esame con perizia e attenzione è possibile tentare di capire i possibili sviluppi futuri di un pezzo d’Europa troppo importante per il completamento dell’utopia europeista, ultimamente agonizzante, che proprio attraverso l’ex Jugoslavia potrebbe trovare il suo definitivo e concreto rilancio.

Croazia
Dopo l’ingresso della Slovenia, dunque, è Zagabria il prossimo obiettivo di questa strategia di europeizzazione dei Balcani (o di balcanizzazione dell’Europa?).
Il cammino, però, è stato lungo e tortuoso: l’Unione Europea ha stabilito i primi contatti diplomatici con la Croazia nel 1997 e il 29 ottobre 2001 è stato siglato l’Accordo di Stabilizzazione e di Associazione (saa).
Quasi tre anni dopo, il 18 giugno 2004, il Consiglio Europeo di Bruxelles ha esaminato il parere favorevole della Commissione ed ha finalmente concesso a Zagabria lo status di “candidato ufficiale”. Il 16 marzo 2005, tuttavia, il coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti dei 25) non ha raggiunto l’unanimità necessaria per dare il via libera ai negoziati, sottolineando la scarsa collaborazione della Croazia con il Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra compiuti nell’ex Jugoslavia. Solo nell’ottobre dello stesso anno la situazione si è finalmente sbloccata: i negoziati tra l’ue e Zagabria sono partiti, pur senza dimenticare i nodi ancora irrisolti che andranno necessariamente sbrogliati per convincere l’ala più reticente dei paesi membri. Il Consiglio dell’Unione Europea ha recentemente approvato la “Partnership di adesione”, un documento che definisce le priorità a breve e lungo termine della preparazione della Croazia all’ingresso nell’ue, ingresso che dovrebbe avvenire entro la fine del decennio in corso.
Diamo uno sguardo ai requisiti necessari, in modo tale da capire quanto è stato fatto e quanto ancora c’è da fare.
La proposta del Consiglio sull’adesione croata del 9 novembre 2005 ha stabilito alcune priorità, conditio sine qua non sulla strada verso l’ingresso di Zagabria nell’Unione.
Queste alcune delle priorità fondamentali a breve termine:
- Adottare e avviare l’attuazione di una strategia nazionale di prevenzione e lotta contro la corruzione e garantire il necessario coordinamento tra gli enti e i dipartimenti governativi responsabili dell’attuazione della strategia, segnatamente assicurando la piena operatività dell’Ufficio per la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata.
Questa condizione è assolutamente necessaria in una nazione ancora troppo condizionata dai potentati politici e criminali. La conclusione dell’esperienza della “democrazia autoritaria” di Franjo Tudjman avrebbe dovuto finalmente porre fine ad un sistema di corruzione radicato nel tessuto politico e istituzionale. Così non è stato. O perlomeno non nelle dimensioni attese e auspicabili per un paese che punta all’integrazione europea.
- Assicurare una più rapida attuazione della legge costituzionale sulle minoranze nazionali: in particolare, occorre adottare misure urgenti per garantire la rappresentanza proporzionale delle minoranze nelle sedi di autogoverno locali e regionali, negli enti amministrativi e negli organi giudiziari dello Stato, nonché negli enti della pubblica amministrazione.
Altro grave problema quello delle minoranze nazionali. La Croazia, senza dover risalire addirittura agli Ustascia, è da sempre un territorio fortemente nazionalista e le esperienze della guerra nella ex Jugoslavia hanno rimarcato una volta di più questa caratteristica. Tutelare le minoranze nazionali in una realtà come quella croata è più facile a dirsi che a farsi. Il 4,5 per cento della popolazione è serba e altre piccole minoranze (ma storicamente importanti) sono quelle dei bosgnacchi (i bosniaci di religione musulmana), degli ungheresi e degli italiani nella zona istriana. Il problema più grosso è evidentemente quello della minoranza serba, di certo vista non troppo bene dal resto della popolazione croata. In un’area ancora lacerata come quella dell’ex Jugoslavia, un argomento per noi banale e scontato come quello del rispetto delle minoranze diventa un ostacolo non facilmente superabile.
- Continuare a garantire piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia.
Questo è il punto più controverso. Molti paesi dell’Unione Europea hanno posto più volte la questione della collaborazione croata alle indagini del tpi, a loro giudizio troppo tiepida. Esemplare, in questo senso, è il caso di Ante Gotovina, uno degli “eroi” dell’indipendenza croata, generale dell’esercito di Zagabria fino al 2001. Per i quattro anni successivi aveva scelto la latitanza, fino all’arresto dell’8 dicembre 2005 alle Canarie. Gotovina è accusato di violenze contro la popolazione civile di etnia serba, durante le operazioni Oluja (tempesta) e Sacca di Medak. Proprio la latitanza di Gotovina ha rappresentato per molto tempo un ostacolo insormontabile per l’inizio dei negoziati di adesione della Croazia all’ue. Più volte Carla Dal Ponte, procuratore del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, ha insinuato il sospetto (in verità più che fondato) che il governo di Zagabria avesse in qualche modo coperto la fuga del criminale di guerra.
- Impegnarsi per la risoluzione definitiva di questioni bilaterali rimaste in sospeso, in particolare le vertenze frontaliere con Slovenia, Serbia e Montenegro e Bosnia-Erzegovina.
La questione più spinosa riguarda il contenzioso con la Slovenia (peraltro già membro dell’Unione Europea) sulle aree di competenza marittima. È notizia recente, infatti, la decisione del governo sloveno di estendere la propria sovranità su tutta la baia di Pirano, fino alla costa croata, nonché su una fascia di mare che arriva alla latitudine della località istro-croata di Orsera (Vrsar) e che coincide con la fascia ecologica che Lubiana ha dichiarato unilateralmente qualche mese fa.
Il governo sloveno spiega il decreto come risposta alla recente definizione, anch’essa unilaterale, della zona ittica croata che arriva fino alla metà della contesa baia di Pirano. La decisione di Lubiana, forte anche del suo status di membro effettivo dell’ue, ha creato non pochi malumori negli ambienti politici croati e, cosa più importante, anche tra le file dell’opposizione parlamentare slovena. La decisione unilaterale è stata definita “azzardata” e “pericolosa” e le dichiarazioni di alcuni esponenti sloveni non lasciano presagire niente di buono per il futuro. La Slovenia nel 2008 gestirà per sei mesi la presidenza di turno dell’ue, sei mesi da dedicare in particolare all’assistenza dei Balcani occidentali nel loro avvicinamento all’Unione. Assistenza che è facilmente interpretabile come condizionamento bilaterale. La recente dichiarazione del ministro degli Esteri di Lubiana spiega la situazione meglio di mille interpretazioni: «Zagabria sappia che una delle 25 chiavi per entrare nell’ue la teniamo in mano noi». La Slovenia, dunque, sfrutterà il ruolo istituzionale europeo per forzare la mano nella lunga e difficile partita dei confini con la Croazia.
Zagabria ha iniziato, dunque, un difficile e tortuoso cammino di avvicinamento alle istituzioni comunitarie. L’appoggio di paesi con forti interessi economici nell’area, quali Austria e Italia, potrebbe essere molto importante. Ma in un Moloch farraginoso e confuso come l’attuale ue, anche la voce della piccola Slovenia potrebbe risultare determinante.

Serbia-Montenegro
Più difficile, e decisamente più lungo, è l’iter di adesione della Serbia-Montenegro. Troppi sono i punti ancora controversi, troppe le distanze che separano le due repubbliche balcaniche da Bruxelles. Nella Proposta di decisione del Consiglio relativa ai principi, alle priorità e alle condizioni contenuti nel partenariato europeo con Serbia e Montenegro, datata 9 novembre 2005, si fissano numerosi e difficili punti da realizzare, in vista di un ingresso nell’Unione comunque non previsto prima del prossimo decennio. Si va dalla necessità di riformare il sistema giudiziario alla legge elettorale, passando per la tutela delle minoranze, una maggiore collaborazione con le altre nazioni dell’area balcanica e la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata (che soprattutto in Montenegro rappresenta una realtà radicata e potente). Ma il problema maggiore, tanto per cambiare, riguarda sempre il controverso rapporto tra Belgrado e le indagini del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia. Mladic e Karadzic, i superlatitanti della guerra in Bosnia, dominano ancora il dibattito politico interno e il rapporto della Serbia con il mondo occidentale.
La recente falsa notizia dell’arresto di Ratko Mladic, macellaio di Srebrenica, aveva già iniziato a provocare malumori e accenni di proteste clamorose all’interno dell’opinione pubblica serba. A darne conferma, in un’intervista concessa a Giuseppe Zaccaria de La Stampa, è l’ultranazionalista Tomislav Nikolic, leader del Partito Radicale e forte di un incredibile successo elettorale (1.200.000 voti).
Secondo Nikolic la latitanza di Mladic sta per volgere al termine ma l’analisi del politico serbo va oltre e si fa macabra: «Se fossero obbligati a consegnarsi al tribunale dell’Aja, Ratko Mladic e Radovan Karadzic avrebbero il dovere morale di uccidersi, lo devono alla Serbia, non possono permettere che il nostro Stato venga infangato da accuse infamanti». E ancora: «[Il giorno in cui l’arresto avvenisse davvero accadrebbe] tutto il peggio, temo: violenze di masse incontrollate, attacchi alle ambasciate occidentali, alla moschea di Belgrado…».
Le parole di Nikolic, che può contare sui voti delle fasce più povere e dei profughi provenienti da Bosnia e Croazia, suonano come una malcelata minaccia al governo di Belgrado che, per ovvi motivi di convenienza politica ed economica, preme per una conclusione (seppur meno traumatica possibile) della latitanza dei due criminali di guerra. Senza l’arresto di Mladic e Karadzic, infatti, la Serbia non potrebbe contare sui lauti aiuti economici provenienti da Bruxelles e Washington e il rilancio economico rimarrebbe un obiettivo fuori dalla sua portata.
Un’altra non trascurabile conseguenza dell’arresto di Mladic e Karadzic, soprattutto ai fini della nostra trattazione, sarebbe l’ulteriore avvicinamento alle istituzioni comunitarie, che su questo punto (giustamente) hanno deciso di dare battaglia fino all’ultimo.
Ma gli aspetti “internazionali” della difficile integrazione comunitaria, non possono e non devono oscurare altri importanti problemi “interni” che devono essere risolti: corruzione, criminalità organizzata, diritti umani, maggiore democratizzazione delle istituzioni. Sono questi i nodi irrisolti, le vere questioni fondamentali la cui soluzione potrebbe (finalmente) rilanciare sul panorama europeo una nazione per troppo tempo impelagata nella palude viscida e letale del nazionalismo socialista di Slobodan Milosevic. La sua eredità pesa ancora troppo sulle spalle di Belgrado e soprattutto sull’opinione pubblica serba, non del tutto depurata dalla retorica nazionalista che storicamente in Serbia ha sempre trovato terreno fertile. Per quanto riguarda il Montenegro, repubblica federale sempre meno accondiscendente nei confronti dell’autorità centrale, il problema maggiore sembra essere quello della criminalità organizzata. L’Unione Europa può pensare di accogliere all’interno delle sue istituzioni (magari anche all’interno della moneta unica) un territorio che di fatto vive e si sostenta con il contrabbando e i traffici internazionali di droga?
L’allargamento dell’ue verso i Balcani è senza dubbio un processo storico inevitabile e benefico. Tuttavia non si deve compiere l’errore madornale di voler velocizzare a tutti i costi l’inclusione di paesi che non hanno ancora i requisiti per farne parte.
Da non trascurare, ovviamente, è la controversia sul Kosovo, annoso e irrisolto problema territoriale che rischia non solo di ritardare l’adesione della Serbia all’ue ma anche (e forse è questa la conseguenza peggiore) di far riesplodere conflitti e tensioni soltanto temporaneamente sopite. Il 20 e 21 febbraio 2006, a Vienna, si sono finalmente incontrati i rappresentanti delle istituzioni serbe e kosovare, a più di sei anni dalla fine del conflitto e dei bombardamenti nato. Il luogo scelto non è affatto casuale. All’inizio di questo nostro excursus tra i Balcani avevamo posto l’accento proprio sul ruolo dell’Austria in questa delicata fase di allargamento dell’Unione Europea. Ruolo dettato naturalmente da motivi di ordine economico e commerciale. In questo senso l’Italia rischia di perdere un treno importante. L’area balcanica è molto importante anche per il nostro paese e farsi scavalcare da Vienna, che sfrutta come abbiamo detto in precedenza il semestre di presidenza, non rappresenterebbe certo un risultato lusinghiero.
Tornando all’incontro serbo-kosovaro, dobbiamo innanzitutto gettare sul tappeto le questioni fondamentali: il Kosovo sta vivendo da qualche anno una ambigua situazione relativa al suo status. De jure, infatti, il Kosovo è ancora parte della Serbia-Montenegro; de facto, invece, è un protettorato internazionale. Ma nei colloqui viennesi, almeno per ora, il discorso dello status kosovaro non è stato affrontato. È ancora troppo presto e troppi sono i punti “preliminari” ancora da chiarire, primo tra tutti il decentramento amministrativo, possibile anticamera dell’indipendenza o massimo risultato raggiungibile. Per non parlare, poi, della tutela delle minoranze, problema che in Kosovo rappresenta pienamente il capovolgimento di fronte rispetto a qualche anno fa. Ora sono i serbi a soffrire discriminazioni e ostracismi.
Questi (e molti altri) sono i punti cruciali del cammino di Serbia e Montenegro (e Kosovo) verso Bruxelles. Problemi spinosi, sicuramente difficili da risolvere e che prefigurano un lungo ed estenuante processo di integrazione che verosimilmente non potrà realizzarsi prima del prossimo decennio.

Macedonia
Il 15 e il 16 dicembre 2005 a Skopje molti erano con il fiato sospeso. A Bruxelles si discuteva, tra le altre cose, sull’opportunità o meno di assegnare alla repubblica macedone lo status di paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea.
L’ostacolo maggiore era il paventato “no” francese, che dimostrava ancora una volta la scarsa disponibilità da parte di Parigi ad aprire l’ue verso i Balcani occidentali. Le lunghe e difficoltose trattative, tuttavia, si sono concluse nel migliore dei modi e la Macedonia è ormai ufficialmente candidata a diventare membro effettivo delle istituzioni comunitarie, vincendo le resistenze francesi e le difficoltà legate al raggiungimento dell’accordo sulle prospettive economico-finanziarie 2007-2013. Questa pur importante vittoria diplomatica, che sottolinea comunque i progressi del governo di Skopje, non può e non deve apparire come una vittoria definitiva. Anche per quanto riguarda la Macedonia, la strada è ancora lunga e i dubbi di alcuni importanti paesi europei potrebbero tarpare in qualsiasi momento le ali al sogno europeista macedone.
Dal punto di vista prettamente politico, la stessa Commissione Europea, pur apprezzando i passi avanti compiuti negli ultimi anni, ha invitato Skopje a prendere ulteriori provvedimenti legislativi per garantire lo Stato di diritto. Nessun problema sul piano della collaborazione con il tpi, né su quello dei rapporti con le altre nazioni dell’area, a parte l’annosa querelle con la Grecia sul nome “Macedonia”, a lungo conteso tra l’ex repubblica jugoslava e la Macedonia “storica” che fa parte dello stato greco.
Le riforme necessarie, tuttavia, riguardano alcuni settori nevralgici come la polizia, il sistema elettorale, l’ordinamento giudiziario e la lotta alla corruzione. Il che, tuttavia, non ha vietato alla Commissione Europea di dichiarare quanto segue:
«L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia è una democrazia funzionante, dove lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali sono generalmente garantiti da istituzioni stabili.
Il paese ha firmato un accordo di stabilizzazione e di associazione (asa) nel 2001 e da allora ha generalmente adempiuto in maniera soddisfacente i relativi obblighi. L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia ha attuato con successo il programma legislativo previsto dall’accordo quadro di Ohrid, che ha contribuito a migliorare sensibilmente la situazione del paese a livello politico e in termini di sicurezza. Tale legislazione va ora applicata completamente. Il paese contribuisce alla cooperazione regionale. L’ex Repubblica iugoslava di Macedonia deve impegnarsi ulteriormente soprattutto per quanto riguarda il processo elettorale, la riforma della polizia, la riforma del sistema giudiziario e la lotta alla corruzione. Visti i progressi globali delle riforme, la Commissione ritiene che il paese sia decisamente sulla buona strada per soddisfare i criteri politici stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e il processo di stabilizzazione e di associazione».

Sorprendentemente, dunque, la Macedonia sembra il paese balcanico più idoneo ad entrare a far parte dell’Unione Europea. Ciononostante è fondamentale non trascurare alcuni elementi economici che potrebbero rappresentare un ostacolo. Il sistema economico macedone è pronto alla concorrenza spietata del mercato europeo? Saprà e potrà reggere l’urto di un sistema economico comunitario che dovrebbe rappresentare (il condizionale è più che mai d’obbligo in un periodo segnato dal ritorno del nazionalismo economico) l’esempio più alto di concorrenza e libero mercato?
Troppo spesso l’Unione Europea è stata considerata solo dal punto di vista economico-finanziario, trascurando aspetti politico-culturali molto importanti. In situazioni come quella macedone il rischio è contrario: troppo spazio a tematiche politiche e troppo poco a problemi economici fondamentali per l’integrazione di un paese dall’economia debole in un sistema complesso e già oliato.

Bosnia-Erzegovina
Sarajevo, Mostar, Tuzla, Banja Luka, Srebrenica. Città che rievocano orrori indicibili, città che ci fanno tornare indietro nel tempo. La guerra bosniaca ha rappresentato la sconfitta più grande del continente europeo dopo la seconda guerra mondiale, una sconfitta politica, diplomatica, militare ma soprattutto sociale e culturale.
Ma oggi la Bosnia è cambiata e, nonostante i problemi ancora difficili da risolvere, ha voglia di entrare a pieno diritto nell’Unione Europea, a testimonianza della cicatrizzazione delle laceranti e sanguinose ferite lasciate sul corpo del nostro continente.
Ma quanto è affidabile il precario equilibrio uscito dagli accordi di Dayton? La Bosnia-Erzegovina è tuttora divisa in due entità: Federazione di Bosnia ed Erzegovina, 49 per cento del territorio (maggioranza mussulmana) e Repubblica di Serbia, 51 per cento del territorio, oltre all’esistenza di numerose e politicamente importanti enclavi croate nel territorio della Federazione. I rapporti tra le due entità dominanti sembrano finalmente in fase di miglioramento. Numerosi e significativi sono i segnali di apertura e dialogo: l’unificazione delle targhe automobilistiche assumendo un modello senza riferimenti alla provincia di provenienza (tipo Italia) avvenuto nell’estate del 1998, di grande importanza per la comunicazione su strada tra le due entità; la realizzazione di una moneta unica (1999); la definizione di una bandiera unica (con un modello imposto dalle Nazioni Unite) nella primavera del 1998; l’eliminazione del codice internazionale per le chiamate telefoniche e il re-inizio dei contatti bancari nella primavera 2000. Sembrerebbero particolari di poca importanza, ma in una nazione così lacerata e frammentata sono vere e proprie conquiste epocali.
E la marcia di avvicinamento a Bruxelles continua inesorabile, con i suoi ostacoli, le sue delicate alchimie etnico-politiche. L’atteggiamento dei membri dell’ue nei confronti della Bosnia è forse viziata da un profondo senso di colpo per quello che è successo durante gli anni della guerra. Si tratta di un atteggiamento sicuramente non auspicabile in argomenti di così elevata importanza politico-internazionale, ma in questo caso forse potrebbero essere utili per contribuire al rilancio sociale, culturale, politico ed economico dell’ex repubblica jugoslava. Il rischio, se ciò non dovesse avvenire, è molteplice: da un lato la Bosnia sta diventando un serbatoio pericoloso di fondamentalisti islamici; dall’altro la repubblica serba di Bosnia è sempre meno assistita da Belgrado, ormai convinta che il suo futuro nell’ue passi necessariamente attraverso una collaborazione fattiva con il tpi.
Troppa lunga sarebbe la lista dei provvedimenti legislativi necessari allo sviluppo democratico della Bosnia. Ci limitiamo, in questa sede, ad un auspicio: l’ingresso bosniaco nell’Unione, seppur non programmato a breve termine, deve rappresentare la pagina conclusiva di un’esperienza drammatica per tutta l’Europa. Tuttavia, la priorità maggiore è forse quella di unire fattivamente la Bosnia Erzegovina. Senza una stabile unità interna, infatti, parlare di ingresso nelle istituzioni comunitarie sembra francamente eccessivo. Al raggiungimento di questo scopo devono lavorare gli Stati membri dell’Unione, stimolando il dialogo tra le varie componenti etniche e incentivando, economicamente e politicamente, il decollo di un’area troppo a lungo dimenticata dall’Europa che conta.

Domenico Naso,  giornalista.

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