Le sale del Museo di storia jugoslava hanno celebrato l’ultimo rito
di una Jugoslavia che non c’è più. Slobodan Milosevic
è morto, e i nostalgici della Grande Serbia gli hanno reso un composto
e ufficioso omaggio.
La morte di colui che è passato alla storia come il macellaio dei
Balcani segna una svolta, forse decisiva, nella storia dell’area balcanica.
È una pagina che si chiude, è l’ultimo baluardo di un
sistema politico e sociale che è fallito, che non ha certo portato
benefici a questa difficoltosa zona d’Europa a un tiro di schioppo
dall’Italia. L’arresto cardiaco dell’ex presidente jugoslavo,
detenuto nel carcere dell’Aja, coincide con un periodo particolarmente
importante per l’area dei Balcani occidentali. Dopo l’ingresso
nell’Unione Europea della Slovenia, infatti, Croazia, Serbia &
Montenegro, Macedonia e Bosnia-Erzegovina continuano il difficile e presumibilmente
lungo cammino verso Bruxelles. È un processo difficile ma anche importante
e imprescindibile, fondamentale soprattutto per l’Italia, da sempre
partner economico e commerciale privilegiato dei paesi dell’area balcanica.
All’accelerazione dell’integrazione dei Balcani ha contribuito
anche il semestre austriaco di presidenza dell’Unione Europea, che
ha rilanciato nell’agenda comunitaria l’importante tema dell’avvicinamento
dell’area a Bruxelles. Si tratta, ovviamente, di una conseguenza naturale
della presidenza di Vienna. Anche per l’Austria, infatti, la zona
dei Balcani occidentali rappresenta un’importantissima zona di interessi,
per cui una sua più celere “europeizzazione” è
un obiettivo strategicamente fondamentale per Schüssel e il suo governo.
La storia recente dei Balcani, è inutile ricordarlo, ancora brucia
e ha lasciato ferite difficilmente sanabili all’interno del nostro
continente.
Tuttavia è ormai altrettanto assodato che solo attraverso l’ingresso
della Croazia nell’ue (e in un secondo momento della Bosnia-Erzegovina,
della Serbia-Montenegro e della Macedonia) si può giungere ad una
efficace (e si spera duratura) stabilizzazione di quell’area nevralgica
della sponda adriatica dell’Europa sudorientale.
Le conseguenze positive di un coinvolgimento maggiore dei Balcani occidentali
comprendono anche, ad esempio, la creazione e il completamento di quei corridoi
transeuropei che rappresentano un requisito imprescindibile per lo sviluppo
commerciale dell’Europa e per il rilancio delle vie di comunicazione
su gomma. Alcuni dei corridoi in programma, infatti, passano attraverso
i Balcani ed è abbastanza ovvia la stretta relazione tra l’integrazione
dei paesi dell’area e la completa efficacia di questi progetti così
ambiziosi.
Ovviamente ogni paese della zona balcanica ha peculiarità proprie
e si avvicina a Bruxelles secondo direttrici differenti e distinte. Per
questo è utile tentare di intraprendere un breve viaggio attraverso
le varie realtà, cercando di esaminarne gli aspetti sociali, politici,
economici e culturali. L’area dei Balcani occidentali ha dimostrato
da anni di non essere affatto un blocco monolitico: troppe sono le differenze
e i contrasti, e solo prendendoli in esame con perizia e attenzione è
possibile tentare di capire i possibili sviluppi futuri di un pezzo d’Europa
troppo importante per il completamento dell’utopia europeista, ultimamente
agonizzante, che proprio attraverso l’ex Jugoslavia potrebbe trovare
il suo definitivo e concreto rilancio.
Croazia
Dopo l’ingresso della Slovenia, dunque, è Zagabria il prossimo
obiettivo di questa strategia di europeizzazione dei Balcani (o di balcanizzazione
dell’Europa?).
Il cammino, però, è stato lungo e tortuoso: l’Unione
Europea ha stabilito i primi contatti diplomatici con la Croazia nel 1997
e il 29 ottobre 2001 è stato siglato l’Accordo di Stabilizzazione
e di Associazione (saa).
Quasi tre anni dopo, il 18 giugno 2004, il Consiglio Europeo di Bruxelles
ha esaminato il parere favorevole della Commissione ed ha finalmente concesso
a Zagabria lo status di “candidato ufficiale”. Il 16 marzo 2005,
tuttavia, il coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti dei 25) non
ha raggiunto l’unanimità necessaria per dare il via libera
ai negoziati, sottolineando la scarsa collaborazione della Croazia con il
Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra compiuti nell’ex
Jugoslavia. Solo nell’ottobre dello stesso anno la situazione si è
finalmente sbloccata: i negoziati tra l’ue e Zagabria sono partiti,
pur senza dimenticare i nodi ancora irrisolti che andranno necessariamente
sbrogliati per convincere l’ala più reticente dei paesi membri.
Il Consiglio dell’Unione Europea ha recentemente approvato la “Partnership
di adesione”, un documento che definisce le priorità a breve
e lungo termine della preparazione della Croazia all’ingresso nell’ue,
ingresso che dovrebbe avvenire entro la fine del decennio in corso.
Diamo uno sguardo ai requisiti necessari, in modo tale da capire quanto
è stato fatto e quanto ancora c’è da fare.
La proposta del Consiglio sull’adesione croata del 9 novembre 2005
ha stabilito alcune priorità, conditio sine qua non sulla strada
verso l’ingresso di Zagabria nell’Unione.
Queste alcune delle priorità fondamentali a breve termine:
- Adottare e avviare l’attuazione di una strategia nazionale di prevenzione
e lotta contro la corruzione e garantire il necessario coordinamento tra
gli enti e i dipartimenti governativi responsabili dell’attuazione
della strategia, segnatamente assicurando la piena operatività dell’Ufficio
per la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata.
Questa condizione è assolutamente necessaria in una nazione ancora
troppo condizionata dai potentati politici e criminali. La conclusione dell’esperienza
della “democrazia autoritaria” di Franjo Tudjman avrebbe dovuto
finalmente porre fine ad un sistema di corruzione radicato nel tessuto politico
e istituzionale. Così non è stato. O perlomeno non nelle dimensioni
attese e auspicabili per un paese che punta all’integrazione europea.
- Assicurare una più rapida attuazione della legge costituzionale
sulle minoranze nazionali: in particolare, occorre adottare misure urgenti
per garantire la rappresentanza proporzionale delle minoranze nelle sedi
di autogoverno locali e regionali, negli enti amministrativi e negli organi
giudiziari dello Stato, nonché negli enti della pubblica amministrazione.
Altro grave problema quello delle minoranze nazionali. La Croazia, senza
dover risalire addirittura agli Ustascia, è da sempre un territorio
fortemente nazionalista e le esperienze della guerra nella ex Jugoslavia
hanno rimarcato una volta di più questa caratteristica. Tutelare
le minoranze nazionali in una realtà come quella croata è
più facile a dirsi che a farsi. Il 4,5 per cento della popolazione
è serba e altre piccole minoranze (ma storicamente importanti) sono
quelle dei bosgnacchi (i bosniaci di religione musulmana), degli ungheresi
e degli italiani nella zona istriana. Il problema più grosso è
evidentemente quello della minoranza serba, di certo vista non troppo bene
dal resto della popolazione croata. In un’area ancora lacerata come
quella dell’ex Jugoslavia, un argomento per noi banale e scontato
come quello del rispetto delle minoranze diventa un ostacolo non facilmente
superabile.
- Continuare a garantire piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale
per l’ex Jugoslavia.
Questo è il punto più controverso. Molti paesi dell’Unione
Europea hanno posto più volte la questione della collaborazione croata
alle indagini del tpi, a loro giudizio troppo tiepida. Esemplare, in questo
senso, è il caso di Ante Gotovina, uno degli “eroi” dell’indipendenza
croata, generale dell’esercito di Zagabria fino al 2001. Per i quattro
anni successivi aveva scelto la latitanza, fino all’arresto dell’8
dicembre 2005 alle Canarie. Gotovina è accusato di violenze contro
la popolazione civile di etnia serba, durante le operazioni Oluja (tempesta)
e Sacca di Medak. Proprio la latitanza di Gotovina ha rappresentato per
molto tempo un ostacolo insormontabile per l’inizio dei negoziati
di adesione della Croazia all’ue. Più volte Carla Dal Ponte,
procuratore del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, ha insinuato
il sospetto (in verità più che fondato) che il governo di
Zagabria avesse in qualche modo coperto la fuga del criminale di guerra.
- Impegnarsi per la risoluzione definitiva di questioni bilaterali rimaste
in sospeso, in particolare le vertenze frontaliere con Slovenia, Serbia
e Montenegro e Bosnia-Erzegovina.
La questione più spinosa riguarda il contenzioso con la Slovenia
(peraltro già membro dell’Unione Europea) sulle aree di competenza
marittima. È notizia recente, infatti, la decisione del governo sloveno
di estendere la propria sovranità su tutta la baia di Pirano, fino
alla costa croata, nonché su una fascia di mare che arriva alla latitudine
della località istro-croata di Orsera (Vrsar) e che coincide con
la fascia ecologica che Lubiana ha dichiarato unilateralmente qualche mese
fa.
Il governo sloveno spiega il decreto come risposta alla recente definizione,
anch’essa unilaterale, della zona ittica croata che arriva fino alla
metà della contesa baia di Pirano. La decisione di Lubiana, forte
anche del suo status di membro effettivo dell’ue, ha creato non pochi
malumori negli ambienti politici croati e, cosa più importante, anche
tra le file dell’opposizione parlamentare slovena. La decisione unilaterale
è stata definita “azzardata” e “pericolosa”
e le dichiarazioni di alcuni esponenti sloveni non lasciano presagire niente
di buono per il futuro. La Slovenia nel 2008 gestirà per sei mesi
la presidenza di turno dell’ue, sei mesi da dedicare in particolare
all’assistenza dei Balcani occidentali nel loro avvicinamento all’Unione.
Assistenza che è facilmente interpretabile come condizionamento bilaterale.
La recente dichiarazione del ministro degli Esteri di Lubiana spiega la
situazione meglio di mille interpretazioni: «Zagabria sappia che una
delle 25 chiavi per entrare nell’ue la teniamo in mano noi».
La Slovenia, dunque, sfrutterà il ruolo istituzionale europeo per
forzare la mano nella lunga e difficile partita dei confini con la Croazia.
Zagabria ha iniziato, dunque, un difficile e tortuoso cammino di avvicinamento
alle istituzioni comunitarie. L’appoggio di paesi con forti interessi
economici nell’area, quali Austria e Italia, potrebbe essere molto
importante. Ma in un Moloch farraginoso e confuso come l’attuale ue,
anche la voce della piccola Slovenia potrebbe risultare determinante.
Serbia-Montenegro
Più difficile, e decisamente più lungo, è l’iter
di adesione della Serbia-Montenegro. Troppi sono i punti ancora controversi,
troppe le distanze che separano le due repubbliche balcaniche da Bruxelles.
Nella Proposta di decisione del Consiglio relativa ai principi, alle priorità
e alle condizioni contenuti nel partenariato europeo con Serbia e Montenegro,
datata 9 novembre 2005, si fissano numerosi e difficili punti da realizzare,
in vista di un ingresso nell’Unione comunque non previsto prima del
prossimo decennio. Si va dalla necessità di riformare il sistema
giudiziario alla legge elettorale, passando per la tutela delle minoranze,
una maggiore collaborazione con le altre nazioni dell’area balcanica
e la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata (che soprattutto
in Montenegro rappresenta una realtà radicata e potente). Ma il problema
maggiore, tanto per cambiare, riguarda sempre il controverso rapporto tra
Belgrado e le indagini del Tribunale Penale Internazionale per l’ex
Jugoslavia. Mladic e Karadzic, i superlatitanti della guerra in Bosnia,
dominano ancora il dibattito politico interno e il rapporto della Serbia
con il mondo occidentale.
La recente falsa notizia dell’arresto di Ratko Mladic, macellaio di
Srebrenica, aveva già iniziato a provocare malumori e accenni di
proteste clamorose all’interno dell’opinione pubblica serba.
A darne conferma, in un’intervista concessa a Giuseppe Zaccaria de
La Stampa, è l’ultranazionalista Tomislav Nikolic, leader del
Partito Radicale e forte di un incredibile successo elettorale (1.200.000
voti).
Secondo Nikolic la latitanza di Mladic sta per volgere al termine ma l’analisi
del politico serbo va oltre e si fa macabra: «Se fossero obbligati
a consegnarsi al tribunale dell’Aja, Ratko Mladic e Radovan Karadzic
avrebbero il dovere morale di uccidersi, lo devono alla Serbia, non possono
permettere che il nostro Stato venga infangato da accuse infamanti».
E ancora: «[Il giorno in cui l’arresto avvenisse davvero accadrebbe]
tutto il peggio, temo: violenze di masse incontrollate, attacchi alle ambasciate
occidentali, alla moschea di Belgrado…».
Le parole di Nikolic, che può contare sui voti delle fasce più
povere e dei profughi provenienti da Bosnia e Croazia, suonano come una
malcelata minaccia al governo di Belgrado che, per ovvi motivi di convenienza
politica ed economica, preme per una conclusione (seppur meno traumatica
possibile) della latitanza dei due criminali di guerra. Senza l’arresto
di Mladic e Karadzic, infatti, la Serbia non potrebbe contare sui lauti
aiuti economici provenienti da Bruxelles e Washington e il rilancio economico
rimarrebbe un obiettivo fuori dalla sua portata.
Un’altra non trascurabile conseguenza dell’arresto di Mladic
e Karadzic, soprattutto ai fini della nostra trattazione, sarebbe l’ulteriore
avvicinamento alle istituzioni comunitarie, che su questo punto (giustamente)
hanno deciso di dare battaglia fino all’ultimo.
Ma gli aspetti “internazionali” della difficile integrazione
comunitaria, non possono e non devono oscurare altri importanti problemi
“interni” che devono essere risolti: corruzione, criminalità
organizzata, diritti umani, maggiore democratizzazione delle istituzioni.
Sono questi i nodi irrisolti, le vere questioni fondamentali la cui soluzione
potrebbe (finalmente) rilanciare sul panorama europeo una nazione per troppo
tempo impelagata nella palude viscida e letale del nazionalismo socialista
di Slobodan Milosevic. La sua eredità pesa ancora troppo sulle spalle
di Belgrado e soprattutto sull’opinione pubblica serba, non del tutto
depurata dalla retorica nazionalista che storicamente in Serbia ha sempre
trovato terreno fertile. Per quanto riguarda il Montenegro, repubblica federale
sempre meno accondiscendente nei confronti dell’autorità centrale,
il problema maggiore sembra essere quello della criminalità organizzata.
L’Unione Europa può pensare di accogliere all’interno
delle sue istituzioni (magari anche all’interno della moneta unica)
un territorio che di fatto vive e si sostenta con il contrabbando e i traffici
internazionali di droga?
L’allargamento dell’ue verso i Balcani è senza dubbio
un processo storico inevitabile e benefico. Tuttavia non si deve compiere
l’errore madornale di voler velocizzare a tutti i costi l’inclusione
di paesi che non hanno ancora i requisiti per farne parte.
Da non trascurare, ovviamente, è la controversia sul Kosovo, annoso
e irrisolto problema territoriale che rischia non solo di ritardare l’adesione
della Serbia all’ue ma anche (e forse è questa la conseguenza
peggiore) di far riesplodere conflitti e tensioni soltanto temporaneamente
sopite. Il 20 e 21 febbraio 2006, a Vienna, si sono finalmente incontrati
i rappresentanti delle istituzioni serbe e kosovare, a più di sei
anni dalla fine del conflitto e dei bombardamenti nato. Il luogo scelto
non è affatto casuale. All’inizio di questo nostro excursus
tra i Balcani avevamo posto l’accento proprio sul ruolo dell’Austria
in questa delicata fase di allargamento dell’Unione Europea. Ruolo
dettato naturalmente da motivi di ordine economico e commerciale. In questo
senso l’Italia rischia di perdere un treno importante. L’area
balcanica è molto importante anche per il nostro paese e farsi scavalcare
da Vienna, che sfrutta come abbiamo detto in precedenza il semestre di presidenza,
non rappresenterebbe certo un risultato lusinghiero.
Tornando all’incontro serbo-kosovaro, dobbiamo innanzitutto gettare
sul tappeto le questioni fondamentali: il Kosovo sta vivendo da qualche
anno una ambigua situazione relativa al suo status. De jure, infatti, il
Kosovo è ancora parte della Serbia-Montenegro; de facto, invece,
è un protettorato internazionale. Ma nei colloqui viennesi, almeno
per ora, il discorso dello status kosovaro non è stato affrontato.
È ancora troppo presto e troppi sono i punti “preliminari”
ancora da chiarire, primo tra tutti il decentramento amministrativo, possibile
anticamera dell’indipendenza o massimo risultato raggiungibile. Per
non parlare, poi, della tutela delle minoranze, problema che in Kosovo rappresenta
pienamente il capovolgimento di fronte rispetto a qualche anno fa. Ora sono
i serbi a soffrire discriminazioni e ostracismi.
Questi (e molti altri) sono i punti cruciali del cammino di Serbia e Montenegro
(e Kosovo) verso Bruxelles. Problemi spinosi, sicuramente difficili da risolvere
e che prefigurano un lungo ed estenuante processo di integrazione che verosimilmente
non potrà realizzarsi prima del prossimo decennio.
Macedonia
Il 15 e il 16 dicembre 2005 a Skopje molti erano con il fiato sospeso. A
Bruxelles si discuteva, tra le altre cose, sull’opportunità
o meno di assegnare alla repubblica macedone lo status di paese candidato
all’ingresso nell’Unione Europea.
L’ostacolo maggiore era il paventato “no” francese, che
dimostrava ancora una volta la scarsa disponibilità da parte di Parigi
ad aprire l’ue verso i Balcani occidentali. Le lunghe e difficoltose
trattative, tuttavia, si sono concluse nel migliore dei modi e la Macedonia
è ormai ufficialmente candidata a diventare membro effettivo delle
istituzioni comunitarie, vincendo le resistenze francesi e le difficoltà
legate al raggiungimento dell’accordo sulle prospettive economico-finanziarie
2007-2013. Questa pur importante vittoria diplomatica, che sottolinea comunque
i progressi del governo di Skopje, non può e non deve apparire come
una vittoria definitiva. Anche per quanto riguarda la Macedonia, la strada
è ancora lunga e i dubbi di alcuni importanti paesi europei potrebbero
tarpare in qualsiasi momento le ali al sogno europeista macedone.
Dal punto di vista prettamente politico, la stessa Commissione Europea,
pur apprezzando i passi avanti compiuti negli ultimi anni, ha invitato Skopje
a prendere ulteriori provvedimenti legislativi per garantire lo Stato di
diritto. Nessun problema sul piano della collaborazione con il tpi, né
su quello dei rapporti con le altre nazioni dell’area, a parte l’annosa
querelle con la Grecia sul nome “Macedonia”, a lungo conteso
tra l’ex repubblica jugoslava e la Macedonia “storica”
che fa parte dello stato greco.
Le riforme necessarie, tuttavia, riguardano alcuni settori nevralgici come
la polizia, il sistema elettorale, l’ordinamento giudiziario e la
lotta alla corruzione. Il che, tuttavia, non ha vietato alla Commissione
Europea di dichiarare quanto segue:
«L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia è una democrazia
funzionante, dove lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali
sono generalmente garantiti da istituzioni stabili.
Il paese ha firmato un accordo di stabilizzazione e di associazione (asa)
nel 2001 e da allora ha generalmente adempiuto in maniera soddisfacente
i relativi obblighi. L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia ha attuato
con successo il programma legislativo previsto dall’accordo quadro
di Ohrid, che ha contribuito a migliorare sensibilmente la situazione del
paese a livello politico e in termini di sicurezza. Tale legislazione va
ora applicata completamente. Il paese contribuisce alla cooperazione regionale.
L’ex Repubblica iugoslava di Macedonia deve impegnarsi ulteriormente
soprattutto per quanto riguarda il processo elettorale, la riforma della
polizia, la riforma del sistema giudiziario e la lotta alla corruzione.
Visti i progressi globali delle riforme, la Commissione ritiene che il paese
sia decisamente sulla buona strada per soddisfare i criteri politici stabiliti
dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e il processo di stabilizzazione
e di associazione».
Sorprendentemente,
dunque, la Macedonia sembra il paese balcanico più idoneo ad entrare
a far parte dell’Unione Europea. Ciononostante è fondamentale
non trascurare alcuni elementi economici che potrebbero rappresentare un
ostacolo. Il sistema economico macedone è pronto alla concorrenza
spietata del mercato europeo? Saprà e potrà reggere l’urto
di un sistema economico comunitario che dovrebbe rappresentare (il condizionale
è più che mai d’obbligo in un periodo segnato dal ritorno
del nazionalismo economico) l’esempio più alto di concorrenza
e libero mercato?
Troppo spesso l’Unione Europea è stata considerata solo dal
punto di vista economico-finanziario, trascurando aspetti politico-culturali
molto importanti. In situazioni come quella macedone il rischio è
contrario: troppo spazio a tematiche politiche e troppo poco a problemi
economici fondamentali per l’integrazione di un paese dall’economia
debole in un sistema complesso e già oliato.
Bosnia-Erzegovina
Sarajevo, Mostar, Tuzla, Banja Luka, Srebrenica. Città che rievocano
orrori indicibili, città che ci fanno tornare indietro nel tempo.
La guerra bosniaca ha rappresentato la sconfitta più grande del continente
europeo dopo la seconda guerra mondiale, una sconfitta politica, diplomatica,
militare ma soprattutto sociale e culturale.
Ma oggi la Bosnia è cambiata e, nonostante i problemi ancora difficili
da risolvere, ha voglia di entrare a pieno diritto nell’Unione Europea,
a testimonianza della cicatrizzazione delle laceranti e sanguinose ferite
lasciate sul corpo del nostro continente.
Ma quanto è affidabile il precario equilibrio uscito dagli accordi
di Dayton? La Bosnia-Erzegovina è tuttora divisa in due entità:
Federazione di Bosnia ed Erzegovina, 49 per cento del territorio (maggioranza
mussulmana) e Repubblica di Serbia, 51 per cento del territorio, oltre all’esistenza
di numerose e politicamente importanti enclavi croate nel territorio della
Federazione. I rapporti tra le due entità dominanti sembrano finalmente
in fase di miglioramento. Numerosi e significativi sono i segnali di apertura
e dialogo: l’unificazione delle targhe automobilistiche assumendo
un modello senza riferimenti alla provincia di provenienza (tipo Italia)
avvenuto nell’estate del 1998, di grande importanza per la comunicazione
su strada tra le due entità; la realizzazione di una moneta unica
(1999); la definizione di una bandiera unica (con un modello imposto dalle
Nazioni Unite) nella primavera del 1998; l’eliminazione del codice
internazionale per le chiamate telefoniche e il re-inizio dei contatti bancari
nella primavera 2000. Sembrerebbero particolari di poca importanza, ma in
una nazione così lacerata e frammentata sono vere e proprie conquiste
epocali.
E la marcia di avvicinamento a Bruxelles continua inesorabile, con i suoi
ostacoli, le sue delicate alchimie etnico-politiche. L’atteggiamento
dei membri dell’ue nei confronti della Bosnia è forse viziata
da un profondo senso di colpo per quello che è successo durante gli
anni della guerra. Si tratta di un atteggiamento sicuramente non auspicabile
in argomenti di così elevata importanza politico-internazionale,
ma in questo caso forse potrebbero essere utili per contribuire al rilancio
sociale, culturale, politico ed economico dell’ex repubblica jugoslava.
Il rischio, se ciò non dovesse avvenire, è molteplice: da
un lato la Bosnia sta diventando un serbatoio pericoloso di fondamentalisti
islamici; dall’altro la repubblica serba di Bosnia è sempre
meno assistita da Belgrado, ormai convinta che il suo futuro nell’ue
passi necessariamente attraverso una collaborazione fattiva con il tpi.
Troppa lunga sarebbe la lista dei provvedimenti legislativi necessari allo
sviluppo democratico della Bosnia. Ci limitiamo, in questa sede, ad un auspicio:
l’ingresso bosniaco nell’Unione, seppur non programmato a breve
termine, deve rappresentare la pagina conclusiva di un’esperienza
drammatica per tutta l’Europa. Tuttavia, la priorità maggiore
è forse quella di unire fattivamente la Bosnia Erzegovina. Senza
una stabile unità interna, infatti, parlare di ingresso nelle istituzioni
comunitarie sembra francamente eccessivo. Al raggiungimento di questo scopo
devono lavorare gli Stati membri dell’Unione, stimolando il dialogo
tra le varie componenti etniche e incentivando, economicamente e politicamente,
il decollo di un’area troppo a lungo dimenticata dall’Europa
che conta.
Domenico Naso, giornalista.
(c)
Ideazione.com (2006)
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