














































































 «Un'integrazione decisiva per l'Italia»
 
    «Un'integrazione decisiva per l'Italia» L’allargamento 
      dell’Unione Europea verso i Balcani occidentali rappresenta l’ultima 
      frontiera dell’integrazione comunitaria. Tuttavia, sono molti i nodi 
      ancora da sciogliere e le incognite da esaminare per un’area da sempre 
      problematica nello scacchiere politico del nostro continente. Abbiamo tentato 
      di capirne di più, di ripercorrere il cammino dei paesi balcanici 
      verso Bruxelles parlandone con Alessandro Napoli, 51 anni, già impegnato 
      dal 2001 al 2003 in Ungheria come Pre-Accession Adviser segnalato da Sviluppo 
      Italia Basilicata nel programma dell’Unione Europea di preparazione 
      delle regioni ungheresi all’uso dei Fondi Strutturali.
 
      L’allargamento 
      dell’Unione Europea verso i Balcani occidentali rappresenta l’ultima 
      frontiera dell’integrazione comunitaria. Tuttavia, sono molti i nodi 
      ancora da sciogliere e le incognite da esaminare per un’area da sempre 
      problematica nello scacchiere politico del nostro continente. Abbiamo tentato 
      di capirne di più, di ripercorrere il cammino dei paesi balcanici 
      verso Bruxelles parlandone con Alessandro Napoli, 51 anni, già impegnato 
      dal 2001 al 2003 in Ungheria come Pre-Accession Adviser segnalato da Sviluppo 
      Italia Basilicata nel programma dell’Unione Europea di preparazione 
      delle regioni ungheresi all’uso dei Fondi Strutturali. 
      Dal 2004 lavora permanentemente in Serbia in programmi di assistenza tecnica 
      gestiti da Informest, il centro di documentazione e consulenza che si occupa 
      di cooperazione con i paesi del Centro e dell’Est Europa per conto 
      della Regione Friuli Venezia Giulia e, più in generale, del sistema 
      Nord-Est.
      
       I Balcani occidentali 
      sono pronti all’ingresso nell’Unione Europea? Quali sono, a 
      suo avviso, le cose realizzate e quelle ancora da realizzare in vista dell’ingresso 
      nelle istituzioni comunitarie?
 I Balcani occidentali 
      sono pronti all’ingresso nell’Unione Europea? Quali sono, a 
      suo avviso, le cose realizzate e quelle ancora da realizzare in vista dell’ingresso 
      nelle istituzioni comunitarie?
      Sono passati quasi tre anni dalla data del Vertice di Salonicco (Giugno 
      2003). In quella circostanza i paesi dell’Ue e quelli dei Balcani 
      occidentali si accordarono su un’agenda che definiva le fasi del processo 
      di avvicinamento e integrazione dell’area nell’Unione e i criteri 
      per misurarne i risultati. Si deve riconoscere che i progressi in quel senso 
      sono stati più che significativi più o meno ovunque. Tutti 
      i paesi dell’area hanno intrapreso con decisione il cammino della 
      stabilizzazione macroeconomica, dell’adeguamento di normative nazionali 
      agli standard Ue, dello sviluppo della democrazia e del dialogo inter-etnico, 
      della creazione di un’area “regionale” di libero scambio. 
      L’interscambio commerciale con l’Ue è cresciuto a ritmi 
      annui molto sostenuti, attorno all’8 per cento, così come con 
      decisione sono cresciuti i flussi di investimenti diretti esteri in provenienza 
      da paesi dell’Unione. Non ho problemi ad affermare che il processo 
      di avvicinamento all’Europa ha tenuto un passo più veloce di 
      quello seguito negli anni Novanta dai paesi dell’Europa centro-orientale 
      che sono entrati a far parte dell’Ue a maggio del 2004. Ciò 
      non toglie che su alcuni dossier – penso ad esempio a quello ambientale 
      – i ritardi siano maggiori che su altri, e che alcuni paesi si siano 
      mossi con maggiore speditezza di altri. Insomma, il processo inaugurato 
      a Salonicco, con il quale si dichiarava superata la fase dell’emergenza 
      e inaugurata quella delle politiche di stabilizzazione ma anche di sviluppo 
      è asimmetrico. Ma se è vero che nessun paese ha proceduto 
      con la velocità di un ghepardo è anche vero che nessuno è 
      andato avanti con il passo della tartaruga né tanto meno con quello 
      delle danze irlandesi (due passi avanti e uno indietro).
 Lei ha già seguito la marcia di avvicinamento all’Ue dell’Ungheria, 
      oggi membro effettivo. Quali differenze ha potuto notare tra la situazione 
      ungherese e quella balcanica?
 
      Lei ha già seguito la marcia di avvicinamento all’Ue dell’Ungheria, 
      oggi membro effettivo. Quali differenze ha potuto notare tra la situazione 
      ungherese e quella balcanica?
      Sono arrivato in Ungheria nel 2001, e ho lavorato in quel paese dentro un 
      quadro istituzionale e con una missione molto diversi da quelli dentro cui 
      lavoro da due anni in Serbia. Nel 2001 l’Ungheria era un paese candidato 
      all’adesione e aveva accesso ai fondi di pre-adesione il cui uso, 
      nel bene e nel male, costituiva una palestra molto utile alla familiarizzazione 
      con le regole dell’Unione, particolarmente in materia di politica 
      di sviluppo regionale. Qui in Serbia la mia missione è diversa: si 
      tratta di incoraggiare lo sviluppo di partenariati locali e regionali per 
      lo sviluppo socio-economico, di promuovere coalizioni di stakeholders, di 
      familiarizzare i portatori di interessi collettivi con i principi europei 
      di programmazione dello sviluppo socio-economico, di diffondere la cultura 
      del risultato, del controllo del risultato, della responsabilità. 
      Si tratta di sviluppare la capacità di comunità locali e regionali 
      di definire obiettivi e priorità, si tratta di potenziare la capacità 
      di diversi stakeholders di produrre progetti i cui risultati, effetti e 
      impatti siano misurabili. Insomma, se in Ungheria al centro del mio lavoro 
      stava il supporto alla “familiarizzazione con le carte” (segnatamente, 
      con i regolamenti Ue sui Fondi Strutturali), qui in Serbia sono molto più 
      a contatto con “le cose” (che cosa fare e come farlo) e, soprattutto, 
      con uomini e donne in carne e ossa, con le loro aspettative e con quello 
      che hanno voglia di fare. È un lavoro che mi offre grandi soddisfazioni, 
      anche grazie al fortissimo commitment e alla straordinaria creatività 
      dei serbi che lavorano con me. E di tutti i serbi che ho conosciuto. Sono 
      ottimista sul futuro della Serbia, e di tutti i Balcani occidentali in generale. 
      Ci vedo una voglia di lavorare, una flessibilità nel lavorare, un 
      senso della responsabilità che francamente ammiro e che considero 
      come assets di importanza cruciale. Specialmente se consideriamo che siamo 
      in una fase della storia dell’umanità in cui l’inventiva 
      e, se si vuole, al limite, una certa dose di “disobbedienza” 
      pagano molto più del rispetto acritico di ordini, regole fisse e 
      gerarchie.
 Le élite politiche ed economiche dei paesi balcanici hanno dimostrato, 
      anche coraggiosamente, di aver voglia di Europa. È così anche 
      per la gente comune? Per l’opinione pubblica cosa vuol dire “entrare 
      nell’Unione Europea”?
 
      Le élite politiche ed economiche dei paesi balcanici hanno dimostrato, 
      anche coraggiosamente, di aver voglia di Europa. È così anche 
      per la gente comune? Per l’opinione pubblica cosa vuol dire “entrare 
      nell’Unione Europea”?
      Per la gente comune l’ingresso nell’Europa, a Belgrado come 
      a Skopjie, a Sarajevo come a Tirana vuol dire tre parole: sicurezza, democrazia, 
      benessere. In questo senso non vedo una frattura fra élite e uomo 
      della strada. Alla luce delle numerose prospezioni demoscopiche che ho letto 
      sarei persino tentato di dire che l’uomo della strada su questi punti 
      è più consapevole di parte delle élite. Ma se non vogliamo 
      dissipare questo capitale di fiducia stiamo attenti a due punti. Il primo: 
      manteniamo le promesse (nei Balcani la besa, come dire l’accordo che 
      si conclude con una semplice stretta di mano, è sacra, e chi la víola 
      nel migliore dei casi può dire addio alla fiducia che si era guadagnato). 
      Il secondo: non umiliamo nessuno. Ho la sensazione che tendiamo a sottoporre 
      governi e, di riflesso, popoli, a troppi “esami”. In tutti i 
      Balcani a livello psico-sociale c’è una specie di reazione 
      automatica agli esami “degli stranieri” che porta ad effetti 
      perversi. Ad esempio al rafforzamento del sentimento nazionale inteso nella 
      sua variante negativa, cioè del nazionalismo. È una reazione 
      che corrisponde a quello che si chiama inat in Serbia e filótimo 
      in Grecia: se insisti a farmi fare o se insisti a proibirmi di fare qualcosa, 
      io farò l’esatto contrario, anche se so che questo è 
      sbagliato e mi costerà dolore.
 Dal punto di vista economico pensa che i sistemi di Croazia, Serbia-Montenegro, 
      Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Albania siano in grado di reggere l’impatto 
      di un mercato europeo già oliato e sviluppato? Quanto costerà 
      ai paesi membri l’allargamento dell’Unione ai Balcani?
 
      Dal punto di vista economico pensa che i sistemi di Croazia, Serbia-Montenegro, 
      Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Albania siano in grado di reggere l’impatto 
      di un mercato europeo già oliato e sviluppato? Quanto costerà 
      ai paesi membri l’allargamento dell’Unione ai Balcani?
      Mi permetta di dissentire sul suo «oliato e sviluppato». Da 
      federalista europeo decisamente vorrei darle ragione. Ma il punto non è 
      questo. Torniamo dunque ai Balcani. La risposta alla domanda non può 
      essere univoca. Una cosa è la situazione della Croazia, altra quella 
      della Serbia, altra quella del Montenegro, altra quella della Bosnia, altra 
      quella dell’Erzegovina, altra quella della Macedonia, altra ancora 
      quella dell’Albania. Per cominciare conviene rammentare che mentre 
      con la Croazia sono incominciati i negoziati di adesione, mentre la Macedonia 
      beneficia dello status di paese legato da un accordo di associazione e stabilizzazione, 
      mentre un simile accordo è in vista con l’Albania, con Belgrado 
      il negoziato riguarda l’accordo di associazione e stabilizzazione, 
      con la Bosnia e Erzegovina sta in piedi la questione della riforma dei cosiddetti 
      “Poteri di Bonn”. Per finire, è bene che si dica che 
      le situazioni sono diversissime. Se non entro nei dettagli non è 
      per pigrizia intellettuale, ma solo per non rubare spazio. Insomma, non 
      tutti i paesi partono da blocchi di partenza collocati allo stesso livello. 
      Quello che da un punto di vista europeo è davvero importante è 
      distinguere le posizioni di partenza e non prendere abbagli. 
 I paesi nati dalla frammentazione dell’ex Jugoslavia sono caratterizzati 
      storicamente da un forte spirito nazionalistico. Crede che sapranno rinunciarvi 
      in nome di un comune senso di appartenenza all’Europa? Detta in maniera 
      semplice: europeizziamo i Balcani o rischiamo di balcanizzare l’Europa?
 
      I paesi nati dalla frammentazione dell’ex Jugoslavia sono caratterizzati 
      storicamente da un forte spirito nazionalistico. Crede che sapranno rinunciarvi 
      in nome di un comune senso di appartenenza all’Europa? Detta in maniera 
      semplice: europeizziamo i Balcani o rischiamo di balcanizzare l’Europa?
      Mi permetta di dissentire dalla sua affermazione iniziale. E soprattutto 
      dall’avverbio che lei ha utilizzato: storicamente. Storicamente infatti, 
      i Balcani sono stati terra di imperi multinazionali e non di Stati nazionali, 
      almeno fino al XIX secolo. La definizione di schwab (tedesco), di greco 
      o di ebreo era legata, sia sotto la Sublime Porta sia sotto Vienna, non 
      a un radicamento territoriale di una certa etnia, ma alla professione che 
      ogni singolo svolgeva, alla religione che professava, al modo con cui “governava” 
      la propria famiglia e così via. Le nazionalità non avevano 
      radicamento territoriale (a parte alcuni casi), ma si “tenevano insieme” 
      sulla base di reti estese. La “grande” Jugoslavia titina è 
      stata l’ultimo tentativo di tenere insieme nazioni (etnie) diverse 
      con radicamenti territoriali molto spesso deboli. Troppo avanti con certi 
      tempi, troppo indietro con altri. Detto questo, torno a quanto affermavo 
      prima: se l’Ue è in grado di offrire una prospettiva di sicurezza, 
      democrazia e benessere per tutti i popoli dei Balcani occidentali allora 
      davvero avremo le condizioni per avere nella immediata periferia dell’Unione 
      un’area stabile, politicamente e economicamente. Se invece l’Ue, 
      magari confusa con altre istituzioni internazionali nella percezione dell’uomo 
      della strada delle capitali balcaniche e del frequentatore delle kafane 
      dei villaggi, darà l’impressione dell’esaminatore puntiglioso, 
      allora sì che ci sarà da preoccuparsi.
 I rapporti tra Italia e Balcani sono storicamente molto radicati e importanti 
      per il nostro sistema economico e commerciale. Con l’eventuale ingresso 
      nell’Ue di queste nazioni l’Italia dovrà cambiare atteggiamento? 
      Sarà un bene per i nostri rapporti economici o rischiamo di essere 
      scavalcati da altri paesi membri dell’Ue?
 
      I rapporti tra Italia e Balcani sono storicamente molto radicati e importanti 
      per il nostro sistema economico e commerciale. Con l’eventuale ingresso 
      nell’Ue di queste nazioni l’Italia dovrà cambiare atteggiamento? 
      Sarà un bene per i nostri rapporti economici o rischiamo di essere 
      scavalcati da altri paesi membri dell’Ue?
      L’Italia è il primo partner commerciale di molti paesi dei 
      Balcani occidentali. Nel suo I vicini sono tornati (Laterza), Gianfranco 
      Viesti lo ha ribadito, andando oltre, e cioè analizzando i flussi 
      commerciali da e per le regioni italiane e i paesi balcanici. Giungendo 
      a risultati davvero interessanti non solo sul piano conoscitivo, ma su quello 
      delle politiche da suggerire alle regioni e ai relativi decision makers. 
      Ma che l’Italia sia importantissima per gran parte dei paesi dei Balcani 
      occidentali non significa che questi lo siano allo stesso modo per l’Italia. 
      Come dire, se è vero che l’Italia è il primo partner 
      commerciale della Croazia, e che quindi l’Italia è importante 
      per la Croazia, il contrario non è vero. Quanto al supposto “scavalcamento” 
      io credo che non abbiamo molto da temere. Le più importanti voci 
      dell’export italiano verso la regione balcanica riguardano infatti 
      prodotti in cui il nostro vantaggio è – come dire – “strutturale”, 
      di lungo periodo. 
      Abbiamo invece da preoccuparci sulla limitata capacità delle imprese 
      italiane di effettuare investimenti diretti nei Balcani. Ma questo è 
      un altro discorso, che tocca la dimensione media delle imprese della Penisola 
      e altri aspetti che qui non mi sembra il caso di affrontare. Ciò 
      non toglie nulla al fatto che fra i maggiori investimenti diretti esteri 
      effettuati nei Balcani negli ultimi anni spicchino quelli di Banca Intesa 
      e di Unicredit.
 A parte Croazia e Macedonia che sembrano poter percorrere la strada verso 
      Bruxelles in tempi relativamente brevi, realisticamente quando potremo vedere 
      Belgrado e Sarajevo all’interno delle istituzioni comunitarie? I due 
      paesi usciti in maniera peggiore dalla guerra sono davvero in grado di accontentare 
      le richieste e i parametri fissati?
 
      A parte Croazia e Macedonia che sembrano poter percorrere la strada verso 
      Bruxelles in tempi relativamente brevi, realisticamente quando potremo vedere 
      Belgrado e Sarajevo all’interno delle istituzioni comunitarie? I due 
      paesi usciti in maniera peggiore dalla guerra sono davvero in grado di accontentare 
      le richieste e i parametri fissati?
      L’ultima domanda va indirizzata ovviamente non a me ma ai servizi 
      della Commissione Europea. Sulla prima non ritengo sia necessaria una sfera 
      di cristallo. A parte il caso della Bosnia-Erzegovina, dove le variabili 
      politiche mi sembrerebbero più importanti che in altri casi, evidenzio 
      che con l’apertura dei negoziati per l’accordo di stabilizzazione 
      e associazione la marcia di Belgrado verso Bruxelles è cominciata. 
      E questo è un fatto positivo. Molto positivo. I dossier aperti – 
      lo riconosco – sono numerosi, e i costi da sostenere da ambo le parti 
      (soprattutto da parte serba) non negligibili. Ma l’Europa non può 
      fare a meno dei Balcani occidentali, così come i Balcani occidentali 
      non possono fare a meno dell’Europa.
        
  Alessandro Napoli, economista, opera in Serbia ai programmi di 
      assistenza tecnica gestiti da Informest. È esperto di Europa centrale 
      e Balcani.
 
      Alessandro Napoli, economista, opera in Serbia ai programmi di 
      assistenza tecnica gestiti da Informest. È esperto di Europa centrale 
      e Balcani.  
 Domenico Naso, giornalista
 
      Domenico Naso, giornalista
(c) 
      Ideazione.com (2006)
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