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    Libertà, sostantivo plurale George 
      Weigel è un columnist: pubblicati da più giornali, i suoi 
      pezzi corrono da un capo all’altro degli Stati Uniti. E, come quasi 
      tutti i giornalisti, a un certo punto Weigel raccoglie i suoi articoli in 
      volumi. Questa origine si afferra in genere a prima vista quando si aprono 
      i libri dei giornalisti. Ciò accade anche nel caso di Weigel, con 
      due peculiarità: l’origine, non solo non è mascherata, 
      ma è ostentata; e tuttavia il risultato è un volume organico, 
      con un senso unitario ben individuato. Dal gossip vaticano Weigel si innalza 
      immediatamente a problemi generali, quali “la guerra giusta”, 
      “la verità del cattolicesimo” Tranquillitas Ordinis e 
      simili. Pochi mesi sono passati dall’assunzione al soglio di Benedetto 
      XVI, e già ne esce una biografia circostanziata (God’s Choice, 
      2005, abbrevieremo in Choice), che fa seguito a quella di Giovanni Paolo 
      II, Testimone della speranza: questa già tradotta, quella lo sarà 
      presto. Stando lontano (nel Maryland) Weigel coglie ogni sussurro a Roma, 
      e a noi che stiamo qui non dà l’impressione che dava Piero 
      Ottone, di ritorno dall’Inghilterra, a un suo amico genovese d’infanzia 
      (me lo riferì ridendo lui stesso): «Tu, Piero, conosci l’Italia 
      come un eccellente giornalista americano».
 
      George 
      Weigel è un columnist: pubblicati da più giornali, i suoi 
      pezzi corrono da un capo all’altro degli Stati Uniti. E, come quasi 
      tutti i giornalisti, a un certo punto Weigel raccoglie i suoi articoli in 
      volumi. Questa origine si afferra in genere a prima vista quando si aprono 
      i libri dei giornalisti. Ciò accade anche nel caso di Weigel, con 
      due peculiarità: l’origine, non solo non è mascherata, 
      ma è ostentata; e tuttavia il risultato è un volume organico, 
      con un senso unitario ben individuato. Dal gossip vaticano Weigel si innalza 
      immediatamente a problemi generali, quali “la guerra giusta”, 
      “la verità del cattolicesimo” Tranquillitas Ordinis e 
      simili. Pochi mesi sono passati dall’assunzione al soglio di Benedetto 
      XVI, e già ne esce una biografia circostanziata (God’s Choice, 
      2005, abbrevieremo in Choice), che fa seguito a quella di Giovanni Paolo 
      II, Testimone della speranza: questa già tradotta, quella lo sarà 
      presto. Stando lontano (nel Maryland) Weigel coglie ogni sussurro a Roma, 
      e a noi che stiamo qui non dà l’impressione che dava Piero 
      Ottone, di ritorno dall’Inghilterra, a un suo amico genovese d’infanzia 
      (me lo riferì ridendo lui stesso): «Tu, Piero, conosci l’Italia 
      come un eccellente giornalista americano». 
      Gaetano Quagliariello, di professione, è l’opposto di un giornalista: 
      è uno specialista di Storia contemporanea (alla luiss): non nel senso 
      in cui Croce diceva che ogni lavoro storiografico è storia contemporanea, 
      perché rende contemporaneo ciò che studia, bensì nel 
      senso che proietta in orizzonti storici gli eventi che vive. Compito difficilissimo, 
      perché il senso di un avvenimento si rivela piuttosto col tempo. 
      Accertare che cosa abbia in mente un politico quando prende una data decisione 
      può essere facile, ma il politico difficilmente mette a fuoco il 
      suo sguardo al di là di una settimana: è legato al momento, 
      è incalzato dagli eventi, minacciato alle spalle dai nemici, stretto 
      ai fianchi da amici da cui guardarsi. Lo storico contemporaneo ha quindi 
      qualcosa del profeta, anche quando interpreta avvenimenti passati da poco, 
      come Quagliariello in Cattolici, pacifisti, teocon (Mondadori 2006, abbrevieremo 
      in Q.), che parla di Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro: 
      dunque da quindici anni in qua.
      Accade però che il giornalista e lo storico si incontrino sullo stesso 
      terreno e collaborino pur senza conoscersi o, almeno, senza citarsi. Il 
      punto di convergenza, nel nostro caso, è il rapporto tra religione 
      e politica, in cui si va affermando un concezione anglosassone, per la quale 
      «la religione è un elemento sociale diffuso, con il quale tutti 
      i soggetti politici sono chiamati a fare i conti e che, proprio per questo, 
      non produce scelte politiche unitarie» (Q. p. 176).
      Weigel aveva affrontato lo stesso tema “Europa, America e politica 
      senza Dio”) in La Cattedrale e il Cubo, 2005, tradotto nel 2006 per 
      Rubbettino editore (pp. 148, € 14,00: abbrevieremo in Cubo). E l’incontro 
      non è casuale. Quagliariello è consigliere culturale del presidente 
      del Senato Marcello Pera, e Pera si era incontrato a sua volta spontaneamente 
      col Card. Ratzinger prima dell’elezione a Pontefice, nel deprecare 
      che il dilagante “relativismo” abbia indotto i redattori della 
      Costituzione europea a espungere volutamente dal prologo le radici giudaico-cristiane 
      dell’Europa (Senza radici, Mondadori 2004, pp. 134, € 7,70). 
      Pera è un “laico”, non nel senso di miscredente, ma nel 
      senso che non riporta ciò che avviene a un influsso trascendente 
      riconoscibile. Ciò non esclude che laici e credenti possano sentire 
      gli eventi allo stesso modo, purché entrambe le “professioni” 
      – di fede o di assenza di fede – siano poste tra virgolette. 
      Da entrambe le posizioni si può concordare sulle cause, sulle speranze 
      e sui pericoli di ciò che si sta vivendo, pur interpretando diversamente 
      lo sfondo: a patto, però, che uno sfondo ci sia perché, se 
      non c’è, si può solo subire ciò che avviene in 
      noi, senza di noi, come “puri fatti” senza significato. Ciò 
      renderebbe inutile, sia un Prefetto della Congregazione per la dottrina 
      delle fede, sia un filosofo della scienza quale Pera. Sia i vaticanisti, 
      sia gli storici contemporanei.
      
       Varie 
      forme di provvidenza
 
      Varie 
      forme di provvidenza
      Per spiegare come si possa concordare senza porsi dallo stesso punto di 
      vista prendiamo un avvenimento qualsiasi che, nel parlare di tutti, può 
      essere detto “provvidenziale”; e vediamo come, sotto questo 
      termine, possano trovarsi filosofie diversissime.
      Quando la Casa delle Libertà vinse le elezioni nel 2001, Pera fu 
      eletto presidente del Senato. Se non lo fosse stato, verosimilmente gli 
      sarebbe caduto sulle spalle il ministero di Grazia e Giustizia, dato che 
      dei problemi giudiziari si era occupato benissimo quand’era all’opposizione. 
      Per lui sarebbe stata una sciagura, da cui “la Provvidenza lo ha salvato”. 
      Ma le vie della Provvidenza sono misteriose. Le si può interpretare 
      come fato; o come volontà di un Dio che faccia tutto lui, Allah che, 
      per l’Islam, fa anche ciò che pensano di fare gli uomini; oppure, 
      secondo Spinoza, di un Dio che opera come Natura, ma di una natura tutta 
      divina. Per Democrito, al contrario, innumerevoli corpuscoli immodificabili, 
      muovendosi nel vuoto, danno luogo nell’“apparenza” ad 
      eventi che in questo senso sono “casuali”, come le deliberazioni 
      del Senato. Per Vico la “Provvedenza” (con la e) dà, 
      a ciò che gli uomini si propongono, un esito lontano e spesso opposto 
      alle loro intenzioni; per Hegel fanno lo stesso le “astuzie della 
      Ragione”. Per Marx processi produttivi che mutano nel tempo determinano 
      la composizione, e quindi le presidenze del Senato. Per la meccanica quantistica 
      tutto dipende da particelle subatomiche che cadono da una parte o dall’altra 
      di un displuvio, senza che sia possibile prevedere quale, anche perché 
      esse stesse compaiono solo qua e là, quando “collassa” 
      la funzione d’onda. Chiunque segua queste teorie diverse può 
      concordare nel dire “provvidenziale” l’elezione di Pera, 
      perché, anche se la vede come il fumo negli occhi, parlerà 
      con Lutero di una provvidenza abscondita sub contrario. E chiunque potrà 
      capire il punto di vista di tutti gli altri, a un patto: che ammetta un 
      certo dislivello tra ciò che si sa e ciò che è. Il 
      sapere si riferisce all’essere, ma non lo esaurisce. Se l’essere 
      non ci fosse – perché “così è se vi pare” 
      – non ci sarebbe neppure il dislivello: ma, appunto perciò, 
      non potrà esserci comparazione e dialogo. Di qui il coincidere di 
      relativismo, assolutismo dogmatico e arbitrio, contro cui Pera e Ratzinger 
      sono d’accordo. Un falso sapere assoluto, che pur si pretende “critico”, 
      esclude ogni critica, mentre per Ratzinger le religioni «non sono 
      in grado di salvare configurandosi come sistemi chiusi, ma solo in quanto 
      inducono gli uomini a farsi domande su Dio». (Q. p. 66). Ricordiamo 
      Del Noce, che al centro delle dittature politiche poneva il “divieto 
      di far domande”.
      Poiché il relativismo porta all’assolutismo, la concordanza 
      tra punti di vista diversi richiede il riconoscimento che il nostro sapere 
      è finito: ma di una finitezza non quantitativa bensì qualitativa. 
      Questo ci dicono appunto, in vario modo e con diversi sottintesi, le religioni: 
      «Ché, se potuto aveste saper tutto, mestier non era parturir 
      Maria». Anche la fede porta a proclamare “veri” certi 
      enunciati, ma non sarebbe fede se non avesse in sé un momento di 
      dubbio. Così, ad esempio, Ratzinger disse una volta «Penso 
      che la funzione storica di Giovanni Paolo I sia stata aprire la porta a 
      un Papa non italiano» (Choice, p. 179). Questo “penso”, 
      I think interpreta come provvidenziale la morte di Papa Luciani dopo soli 
      33 giorni di pontificato; ma, se non si ammettesse un dislivello tra “penso” 
      ed “è”, non si tratterebbe più di fede bensì 
      di superstizione. 
      D’altra parte la verità scientifica, con cui ha dimestichezza 
      Pera, richiede che i suoi enunciati si espongano alla falsificazione e che, 
      anche quando vi resistono, non giungano mai ad esser certi di non venire 
      falsificati più tardi almeno per qualche aspetto. Ciò non 
      porta affatto all’anarchismo epistemologico di un Feyerabend: porta 
      alla qualification dell’enunciato; a una sua precisazione sempre maggiore, 
      che gli dà un significato senza esaurirlo. La verità scientifica 
      ha una storia, e anche la verità religiosa, in funzione della quale 
      fu istituita la Chiesa. I dogmi, in cui si “qualifica” la Rivelazione, 
      si stabiliscono col tempo e, anche se poi non mutano più nella lettera, 
      sono sempre aperti all’interpretazione: non a qualsiasi interpretazione 
      (secondo una teologia allegra) ma neppure a nessuna nuova interpretazione, 
      come vuole la fede coranica, che pertanto non dà luogo a una Chiesa.
      Lo scientismo è l’opposto dello spirito scientifico e il dogmatismo 
      è l’opposto della Rivelazione, che non toglie il mistero, ma 
      lo apre, e invita ad approfondirlo senza fine. Mi accadde di sentir dire 
      negli anni del Concilio – ahimé, da un presunto esperto conciliare 
      – che il mistero c’è finché non c’è 
      la verità rivelata. Anzi: il mistero comincia ad esserci quando c’è 
      la verità rivelata, così come un problema comincia ad essere 
      scientifico quanto è filosoficamente “qualificato”.
      
       L'Europa 
      di Napoleone II
 
      L'Europa 
      di Napoleone II
      Indipendentemente da Senza radici Weigel si pone lo stesso problema a proposito 
      del Cubo, che è una costruzione di vetro e marmo, alta più 
      di 100 metri, nella zona di La défence, tra Parigi e Saint-Germain: 
      una zona dal destino architettonico e sociologico non felice, ma meno criminale 
      del trou des Halles. Il cubo vuol essere una negazione delle nostre radici, 
      simboleggiate per contro dalla cattedrale di Notre Dame, che Viollet-le-Duc 
      (sec. XIX) cercò amorevolmente di rabberciare dopo i disastri della 
      rivoluzione, che l’aveva trasformata in Tempio della Ragione. Quanto 
      a volume il Cubo potrebbe tranquillamente contenere la cattedrale, ma quanto 
      a memoria è vuoto, mentre la cattedrale contiene tutta la storia 
      di Francia, costruita com’è dopo il 1163, su un tempio gallo-romano.
      Rifiutare la storia equivale a rifiutare il futuro; e anche il “suicidio 
      demografico” in Europa lo dimostra (Cubo p. 95). Negli Stati Uniti 
      non è così ma, teme il Weigel, forse non è ancora così. 
      Negli Stati Uniti non c’è quello che Joseph Weiler (2003) chiama 
      “cristofobia”, ma «il problema di oggi in Europa potrebbe 
      essere un problema americano un giorno. Se gli americani desiderano evitare 
      questa sorte, devono trarre indicazioni dall’esperienza» dell’Europa 
      stessa (Cubo p. 24-25). Giustamente David Fromkin fa risalire il morbo conclamato 
      dell’Occidente a L’ultima estate dell’Europa (2004): l’estate 
      del 1914, in cui la gioventù colta, da entrambe le parti, auspicava 
      e incoraggiava la guerra che l’avrebbe distrutta. Nietzsche influì 
      sul Continente quando, andato troppo presto a riposo dopo gli eccellenti 
      studi di filologia classica, si mise in testa di riscrivere la morale contro 
      il cristianesimo. Nella seconda parte del Ventesimo secolo la sua influenza 
      è stata enfatizzata, a volte in modo ridicolo, ma la “volontà 
      di potenza”, interpretata nel suo senso autentico di “volontà 
      di valore” è effettivamente affermazione di un nichilismo ontologico. 
      Non si tratta di potenza politico-militare: Nietzsche fu, anzi, un lodevole 
      fustigatore di Bismarck. Ciò che il volere di Zaratustra sarebbe 
      in grado di fare, secondo lui, è imporre valore a un mondo che non 
      ne ha nessuno. («Come spazzatura gettata a caso il più bello 
      dei mondi», aveva detto Eraclito).
      Nei primi decenni del Ventesimo secolo, però, la parola “potenza”, 
      introdotta dalla funesta sorella di Nietzsche, fu effettivamente intesa 
      come un valore che nasce dalla potenza politica. Per questo occorre però 
      risalire più in là del 1914. Weigel risale al “nominalismo” 
      di Ockham, che oppone alla libertà attribuita all’uomo dalla 
      tradizione aristotelico-tomistica una “libertà di indifferenza”, 
      «concepita semplicemente come una facoltà di scelta neutrale, 
      che può riguardare qualsiasi cosa, poiché la scelta è 
      un atto di auto-affermazione, di potere» (Cubo, p. 68). «Vista 
      attraverso le lenti della storia delle idee, la controversia sulla invocatio 
      Dei nella costituzione europea è stata dunque una disputa tra i sostenitori 
      della libertà di qualità e i sostenitori della libertà 
      di indifferenza» (Cubo p. 70).
      Come mai, però, questa indifferenza non è rimasta realmente 
      tale: laica, nominalistica, formale? Come mai è divenuta una sorta 
      di controreligione, che giudica politicamente scorretta la fede nel trascendente? 
      Per rispondere occorre gettare tra storia delle idee e storia politica un 
      altro ponte, che Weigel non getta. Il nominalismo non si accontenta di negare 
      che “la verità vi farà liberi”: immagina una libertà 
      che dipenda tutta dall’arbitrio; e per spiegare le conseguenze politiche 
      di tale relativismo occorre associare alla storia delle idee la storia politica 
      della Francia.
      Al tempo in cui l’occamismo si diffondeva in Inghilterra, in Francia 
      gli inglesi, d’accordo con la Santa Sede, facevano bruciare come eretica 
      Giovanna d’Arco. Costei predicava una Francia come popolo unito sotto 
      la monarchia, mentre la corona d’Inghilterra pretendeva, per ragioni 
      dinastiche, metà dell’antica Gallia. Nasceva così in 
      Francia il concetto di Stato-nazione entro confini naturali, mentre tradizionalmente 
      lo Stato era l’impero romano, in cui le nazioni si intrecciavano variamente, 
      in confini non naturali. Anche Weigel osserva che nel medioevo dire “lo 
      Stato” è un anacronismo (Cubo, p. 80): ciò che noi chiamiamo 
      Stato era l’impero (sacro-romano) di Carlo Magno. Nella monarchia 
      francese, però, le due cose si fondono. Quando Luigi XIV dice l’état 
      c’est moi va preso alla lettera. Perfino la salute della nazione coincide 
      con lo stato di salute del sovrano (in termini repubblicani, si pensi al 
      discorso sullo “stato dell’Unione”). In breve, nella Francia 
      di Luigi XIV Carlo Magno e Giovanna d’Arco vengono a coincidere. Evidente, 
      del resto, l’intenzione di Luigi XIV di paragonarsi ad Augusto imperatore, 
      con il suo circolo di Mecenate e col neoclassicismo in piena età 
      barocca. 
      Il Sacro Romano Impero era ormai ereditario nella casa d’Austria e 
      Luigi XIV lo combatte, ma ne accoglie per sé l’idea che, attraverso 
      una rivoluzione feroce ed equivoca, passa direttamente a Napoleone. Costui 
      fa abolire il Sacro Romano Impero a Francesco II, ne sposa la figlia, e 
      si incorona imperatore da sé. Ogni finzione è deposta: l’“aquilotto” 
      suo figlio diviene “re di Roma”, secondo la tradizione. Dunque, 
      negli ultimi due secoli la storia d’Europa è stata decisa dal 
      Napoleone che non c’è: Napoleone II. Propongo che l’Europa 
      senza radici sia chiamata “l’Europa di Napoleone II”.
      Contemporaneamente avviene una sorta di divinizzazione della Francia come 
      Stato-nazione. Al plurale, “le nazioni” traducono il latino 
      gentes, cioè i gentili, a cui San Paolo sprona a predicare il cristianesimo. 
      Ma la Francia volge quel plurale al singolare: diviene la Nation per eccellenza, 
      occupando il posto in cui l’Antica Alleanza aveva collocato Israele. 
      Allora le nazioni al plurale troveranno salvezza grazie alla Nation redentrice. 
      Questa idea avrebbe fatto inorridire Voltaire, abbastanza feroce contro 
      “La pulzella d’Orleans”, che nel secolo XX da eretica 
      diventa santa; ma la rivoluzione non la fece Voltaire; e la secolarizzazione 
      non la fece l’illuminismo con l’Enciclopedia: la fece il religioso 
      Robespierre, seguace del Rousseau, anti-illuminista per eccellenza e in 
      conflitto esplicito con tutti gli illuministi. Robespierre, sacerdote alla 
      guida del corteo dell’Essere supremo, appena poté fece ghigliottinare 
      Hébert che aveva introdotto il culto della dea Ragione.
      Questo punto è spesso trascurato dagli storici delle idee, tratti 
      in inganno da una Francia che accomuna Rousseau e Voltaire nel Pantheon; 
      ma esso spiega perfettamente il carattere del laicismo francese, incompatibile 
      con un autentica laicità perché, in realtà, è 
      di lontane origini calvinistiche. Il laicismo francese è intollerante 
      perché è confessionale (anche se con Rousseau le Confessioni 
      assumono un carattere individualistico). La laicità ha significati 
      diversi nelle diverse nazioni europee (e un convegno della fondazione Nova 
      Spes ha messo bene in luce questi significati; Atti in corso di stampa presso 
      il Mulino); ma per influsso francese “laico” diviene un termine 
      incompatibile con “cristiano” e segnatamente con “cattolico”. 
      Tanto che, ad esempio, nelle università italiane dell’ultimo 
      dopoguerra, laici e cattolici si disputavano le cattedre anche di chimica 
      o di clinica chirurgica. Ma ci fu di peggio: l’identificazione della 
      Francia con il popolo eletto produsse un nazionalismo politico che, esportato 
      dalle guerre napoleoniche, esplose soprattutto in Prussia (“Discorsi 
      alla nazione tedesca” di Fichte). E poiché l’elezione 
      dà il predominio a uno solo, i nazionalismi divennero totalitari 
      (pangermanesimo, panslavismo) al tempo stesso che plurimi, cozzando idealmente 
      ancor prima che politicamente. Di qui la finis Europae del 1914. 
      
        Il senso del limite
 
      Il senso del limite
      Presa coscienza di tutto questo, si troverà qualche rimedio per il 
      futuro? Non si tratta di tornare al passato. Anche in questo Benedetto XVI 
      è esemplare. Giustamente persuaso dell’importanza della liturgia, 
      non approva «l’errore dei tardi anni Sessanta di cambiare l’orientamento 
      del rito romano di 90 o anche di 180 gradi, senza per questo pensare che 
      la soluzione sarebbe ricambiare la liturgia di 90 o 180 gradi in direzione 
      opposta» (Choice, p. 213). Anche in politica, al falso progressismo 
      verso il nulla non si rimedia correggendo la rotta verso un altro nulla. 
      Il revisionismo però (o, meglio, la revisione dei luoghi comuni) 
      serve a smascherare finzioni che ci traggono su una cattiva strada. Ad esempio, 
      la storia delle insorgenze antifrancesi può farci smettere di chiamare 
      “patrioti” coloro che tradivano la patria, associandosi al Bonaparte 
      che la saccheggiava. Nessuno vuole rimettere sul trono i Borboni o gli Absburgo; 
      ma le lamentele sulla sorte di Carlo Pisacane o dei fratelli Bandiera inducono 
      a prendere poco sul serio il giuramento degli ufficiali. Dedichiamo pure 
      una piazza a Cesare Battisti, ma non lamentiamoci se poi a Innsbruck dedicano 
      una piazza a chi fa saltare i tralicci nel Südtirol, ovvero in Alto 
      Adige. Anche l’Italia cadde nella “trappola” del 1914 
      (Cubo, p. 31), quando Vittorio Emanuele III dichiarò la guerra nel 
      1915, contro il parere del Parlamento. L’Italia tornerà ad 
      essere una grandissima nazione se le origini del nazionalismo saranno chiarite 
      e, per ciò stesso, respinte. Ciascun paese ha le sue colpe. La Francia 
      è il luogo del mondo in cui si vive meglio, ma, se l’Iran è 
      un problema, lo dobbiamo anche alla sua politica che riportò in Iran 
      Khomeini: la tradizionale politica del “Re cristianissimo contro i 
      cristiani”. (Leibniz scrisse in proposito un eccellente opuscolo).
      Basterà riformare il linguaggio, eliminando le ipocrisie del “politicamente 
      corretto”, per salvare l’Europa? No certo; ma gli intellettuali 
      non possono fare molto di più. Possono rinunciare a presentarsi come 
      “maestri del pensare” e a illudersi che chi è chiamato 
      a fare li ascolti. Allora, se si dedicheranno a uno studio delle nostre 
      “radici”, è più probabile che riescano a dire 
      qualcosa a chi vorrebbe dimenticarle perché le trova scomode, affetto 
      com’è da un inconscio delirio di onnipotenza. Un delirio su 
      cui convergono parecchi “ismi”: scientismo, statalismo, perfettismo; 
      e, a un livello più basso, sciovinismo, pacifismo, illusionismo.
      Carriere come quella di Ratzinger o, a livello nazionale, di Pera mostrano 
      che chi riflette, se ha il senso del limite, può giungere, anche 
      senza proporselo, a incarichi che non sono più solo di riflessione. 
      Dobbiamo essere loro grati che li accettino, benché ne conoscano 
      le noie e il peso. Se non vogliamo parlare di Provvidenza, parliamo di allegoria: 
      tre grandi papi si sono succeduti in ordine inverso a quello delle tre virtù 
      teologali: Giovanni XXIII, o la carità; Giovanni Paolo II, o la speranza; 
      Benedetto XVI, o la fede. È un’allegoria che mostra il bisogno 
      di “ritornare ai princìpi”, come diceva molto laicamente 
      il Machiavelli. Riconoscendo che abbiamo dei “princìpi” 
      – dunque che non ci siamo fatti da soli – ci rendiamo conto 
      del nostro limite ontologico e guariamo dal delirio di onnipotenza (che, 
      del resto, nelle prime età è una condizione normale).
      Risalire ai princìpi ci riporta alla “questione delle radici”, 
      che Quagliariello tratta nel capitolo terzo. Lo storico distingue due atteggiamenti 
      contrastanti nelle posizioni ufficiali dei cattolici. C’è chi 
      (ad esempio il Cardinal Pompedda) si compiace che la costituzione europea 
      riconosca la situazione giuridica (in sostanza concordataria) delle Chiese; 
      e c’è, per contro, chi preferirebbe un riconoscimento ideale. 
      Avviene così che Angelo Panebianco si trovi «arruolato nelle 
      legioni teocon» solo perché nega che sia «possibile risolvere 
      la questione dell’identità con un semplice catalogo di diritti» 
      (Q. p. 123). (Anche a me, come a Giuliano Ferrara, queste abbreviazioni 
      – neocon, teocon – dispiacciono: ricordano troppo i giochi di 
      parole scurrili con cui Shakespeare, nell’Enrico V, divertiva la parte 
      più popolaresca del suo pubblico, quando fa imparare l’inglese 
      alla principessa francese). 
      A parte ciò, verrà la salvezza, anche dell’Europa, dai 
      neocon nordamericani? Dice Ferrara su Il Foglio, «il modello americano, 
      la completa separazione tra Chiesa e Stato e insieme la completa legittimazione 
      […] delle oltre trenta denominazioni cristiane o Chiese che abitano 
      il mondo americano, è migliore di quello europeo fondato sui concordati 
      e sulla negazione delle radici della nostra storia» (Q. p. 126). La 
      democrazia liberale americana, antitetica al francese “Comitato di 
      salute (o salvezza) pubblica”, cerca fortunatamente nello Stato laico 
      una salvezza privata. Appunto per questo non va soggetta al fondamentalismo 
      laicista della rivoluzione francese e può dare il giusto valore alla 
      religione e alle nostre radici cristiane. Mette sullo stesso piano molte 
      confessioni diverse, ma non qualsiasi religione. Non potrebbe ammettere, 
      ad esempio, che chi si converte al cristianesimo sia per ciò solo 
      condannato a morte, come vuole l’Islam. Solo così si potrà 
      risolvere il problema islamico: con la fermezza e la richiesta di reciprocità. 
      Il musulmano è mite con chi non ne ha paura.
      In particolare, pensiamo a fonti di energia alternativa al petrolio; obblighiamo 
      gli immigrati a comportarsi secondo le nostre leggi e non secondo le loro: 
      e potremo convivere. Solo gli Stati Uniti hanno la forza di farlo. Per questo, 
      pur senza cedere a un americanismo di maniera, dobbiamo lasciar cadere l’antiamericanismo 
      preconcetto e accogliere quanto osserva in proposito Jean-François 
      Revel. L’Europa non sarà più l’Europa di prima 
      del ’14, ma ritroverà se stessa al di qua e al di là 
      dell’Atlantico. E in molte altre parti del mondo.
      Spingendo lo sguardo più in là – ma questo richiederebbe 
      una riflessione più profonda – se vogliamo accogliere indiscriminatamente 
      immigrati senza distinzione di razza e di religione dobbiamo rivedere il 
      concetto di cittadinanza, con i diritti e i doveri che comporta. È 
      idiota pensare che chi nasce in un certo territorio – comprese le 
      navi o gli aeroplani – sia automaticamente cittadino dello Stato che 
      ha la sovranità su quel territorio. Ridicolo, ad esempio, che dai 
      documenti ufficiali il mio collega Gaspare Barbiellini Amidei risulti “nato 
      nel mar Arabico”: probabilmente sua madre era su una nave inglese 
      e il regime di allora non voleva che Gaspare fosse inglese. Oggi, all’opposto, 
      qualcuno arriva dal golfo Persico e i figli che fa qui sono ipso iure cittadini 
      italiani. Idea balorda di Caracalla, quella di dare la cittadinanza romana 
      a tutti gli abitanti dell’impero (esclusi però gli schiavi 
      e altre categorie). Oggi si deve tornare alla situazione precedente, in 
      cui Paolo di Tarso, oltre che di Tarso, era cittadino di Roma, non perché 
      fosse nato a Roma, ma perché suo padre si era meritato quel titolo. 
      Se le teste pensanti vogliono pensare qualcosa, devono rimeditare appunto 
      queste ed altre nostre “radici”, senza alcun timore di apparire 
      politicamente scorrette.
      Se ritrovassimo le nostre radici, almeno in Italia, potremmo trarne qualche 
      insegnamento per il futuro prossimo? Non per imitare pedissequamente il 
      passato, ma per proporci un futuro di libertà: libertà di 
      pensare e libertà di agire rispettando la legge (ma una legge che 
      vieti tutto e solo ciò che è da vietare, senza pretendere 
      di prescriverci il bene). 
      è in atto un movimento che sposa la ricerca dotta dei fondamenti 
      con l’aspirazione pratica – e perfino pragmatica – a rimodellare 
      la società. Uno studioso imprestato alla politica come Marcello Pera 
      ha ideato per questo la Fondazione Magna Carta a cui ha preposto Gaetano 
      Quagliariello. Il nome della Fondazione richiama la storia inglese: la libertà 
      concessa come “privilegio” che, attraverso i secoli, giunge 
      a fare di ogni cittadino un piccolo sovrano nella sua sfera. 
      A questo punto è chiaro che di libertà può parlarsi 
      solo al plurale: la libertà in astratto sarebbe vuota, e perciò 
      pronta a riempirsi di pulsioni contrarie. La parola “liberale”, 
      che da noi era divenuta poco più che un insulto e in America un segnale 
      d’intolleranza, può tornare ad associare persone libere da 
      fondamentalismo teologico, da illusioni millenaristiche e da una indifferenza 
      per i principi che scatena aspirazioni meramente utilitarie. In altre parole, 
      una memoria storica addirittura di millenni potrà illuminare i percorsi 
      di un cambiamento degno di essere detto “politico” nel senso 
      migliore della parola.
      
      
 Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei, presidente del comitato scientifico 
      della Fondazione Ideazione.
 
      Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei, presidente del comitato scientifico 
      della Fondazione Ideazione.
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