













































































 Anatomia di una maggioranza
 
    Anatomia di una maggioranza La 
      Right Nation italiana esiste. Ed è, potenzialmente, maggioranza strutturale 
      in Italia. Dopo i tanti numeri immaginari che hanno infettato questa campagna 
      elettorale – sondaggi taroccati, exit poll psichedelici, proiezioni 
      che contraddicevano se stesse, conti e riconti – è forse questo 
      l’unico dato reale emerso dalle ultime elezioni politiche. Inoltre, 
      si tratta di un risultato ottenuto nelle peggiori condizioni possibili per 
      il centrodestra italiano: dopo un quinquennio di durissima congiuntura economica 
      internazionale, con l’establishment finanziario, culturale e mediatico 
      schierato come un sol’uomo contro il Caimano, con le inchieste ad 
      orologeria della magistratura, con una buona parte della classe dirigente 
      del centrodestra impegnata a remare contro (o, nella migliore delle ipotesi, 
      a non remare affatto) e pezzi della coalizione saliti anzitempo sul carro 
      del vincitore annunciato.
 
      La 
      Right Nation italiana esiste. Ed è, potenzialmente, maggioranza strutturale 
      in Italia. Dopo i tanti numeri immaginari che hanno infettato questa campagna 
      elettorale – sondaggi taroccati, exit poll psichedelici, proiezioni 
      che contraddicevano se stesse, conti e riconti – è forse questo 
      l’unico dato reale emerso dalle ultime elezioni politiche. Inoltre, 
      si tratta di un risultato ottenuto nelle peggiori condizioni possibili per 
      il centrodestra italiano: dopo un quinquennio di durissima congiuntura economica 
      internazionale, con l’establishment finanziario, culturale e mediatico 
      schierato come un sol’uomo contro il Caimano, con le inchieste ad 
      orologeria della magistratura, con una buona parte della classe dirigente 
      del centrodestra impegnata a remare contro (o, nella migliore delle ipotesi, 
      a non remare affatto) e pezzi della coalizione saliti anzitempo sul carro 
      del vincitore annunciato. 
      Eppure, in queste condizioni oggettivamente disperate, con i sondaggi “perbene” 
      (non quelli commissionati da Forza Italia, insomma) che garantivano all’Unione 
      un vantaggio abissale ed incolmabile, la Casa delle Libertà è 
      riuscita a superare il 50 per cento dei voti al Senato ed a sfiorarlo alla 
      Camera. Un miracolo tattico di Silvio Berlusconi? O piuttosto la conferma 
      che la Right Nation italiana è intrinsecamente maggioranza in questo 
      paese e, con qualche accorgimento tecnico minore, sarebbe naturalmente destinata 
      a governare per i prossimi decenni? 
      Probabilmente la verità, come spesso accade, si nasconde da qualche 
      parte tra queste due affermazioni estreme. È vero, infatti, che la 
      gestione delle ultime settimane della campagna elettorale da parte di Silvio 
      Berlusconi è stata – tatticamente – perfetta. Ma è 
      anche vero che ad una prima analisi dei dati e dei flussi elettorali si 
      nota una tenuta complessiva della coalizione di centrodestra che va ben 
      al di là di qualsiasi invenzione dell’ultimo minuto.
      Prendiamo i numeri della Camera, che sono anche quelli più sfavorevoli 
      alla CdL. Rispetto alle Politiche 2001, Forza Italia ha perso circa 1 milione 
      e 800mila voti (passando da quasi 11 milioni a poco più di 9 milioni 
      di preferenze). Questa emorragia, peraltro molto contenuta rispetto alle 
      “previsioni” della vigilia e alle consultazioni amministrative 
      degli ultimi anni, è stata completamente assorbita dagli alleati 
      della coalizione. L’Udc ne ha recuperati 1 milione e 385mila (più 
      che raddoppiando la propria cifra elettorale), Alleanza Nazionale è 
      cresciuta di quasi 250mila voti e la Lega Nord (che al Sud era alleata con 
      il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo) ha raccolto 283mila 
      voti in più rispetto al 2001. Insomma, la tanto celebrata transumanza 
      da destra verso sinistra, su cui gli analisti avevano speso in anticipo 
      tonnellate d’inchiostro, non c’è stata. Mentre si è 
      assistito a spostamenti, anche considerevoli ma tutto sommato prevedibili, 
      all’interno della coalizione. Nel suo complesso, 
      il centrodestra ha ottenuto quasi 19 milioni di voti: 385mila in più 
      rispetto alle elezioni precedenti. Ma dove si nascondeva questa enorme massa 
      di cittadini, che è sembrata sfuggire a lungo ad ogni tentativo di 
      inquadramento statistico?
 La maggioranza che non si 
      vede
 
      La maggioranza che non si 
      vede
      Non esistono parole sufficienti per descrivere l’incredibile débâcle 
      degli istituti di ricerca che, durante la campagna elettorale, si sono esercitati 
      nella difficile (e ben pagata) arte della sondaggistica politica. Volendo, 
      con una buona dose di magnanimità, credere nella buona fede di swg, 
      ispo, Piepoli, ipsos, ekma e compagnia, il minimo che si possa dire è 
      che la continua, insistente e univoca pubblicazione di sondaggi che registravano 
      un distacco enorme a favore del centrosinistra ha fatto perdere alla CdL 
      almeno mezzo milione di voti. Colpa di quel bandwagon effect che gli studiosi 
      conoscono da prima che nascesse la scienza della politica in senso stretto. 
      Ancora più imbarazzanti degli exit poll che già circolavano 
      nella notte di domenica 9 aprile o delle proiezioni che si autosmentivano 
      nel giro di qualche minuto, poi, sono stati gli astrusi tentativi dei sondaggisti 
      di spiegare questo flop così clamoroso.
      In uno studio pubblicato da swg nei giorni successivi al voto, vengono identificate 
      tre cause principali della “sistematica sovrastima del centrosinistra”: 
      segmenti di popolazione poco raggiungibili; aumento imprevisto dei voti 
      validi; reticenza a rispondere alle domande dei sondaggisti. Ma procediamo 
      a ritroso. 
      La “reticenza a rispondere” sarebbe la “tendenza a non 
      dichiarare correttamente il proprio orientamento al voto”. Per swg 
      si tratta di «un fattore che ha determinato la sottostima di Forza 
      Italia (a favore di Alleanza Nazionale) e quella dell’udc [...] una 
      condizione, più forte nell’elettorato moderato, che determina 
      la difficoltà a rivelare il proprio orientamento perché difforme 
      dal clima di opinione o meglio da quella che si ritiene essere la tendenza 
      elettorale prevalente o quella maggiormente e socialmente accettata in un 
      dato momento». La scoperta dell’acqua calda, insomma, visto 
      che la necessità di ponderare i dati raccolti tra l’elettorato 
      moderato è nota almeno dal 1992, anno in cui i sondaggisti britannici 
      si accorsero di aver sottostimato di almeno 8-9 punti percentuali il risultato 
      dei Conservatori di John Mayor (il cosiddetto Shy Tory Factor). E comunque 
      non è una spiegazione convincente per fare luce sull’errore 
      di stima nei confronti del centrodestra nel suo complesso (Forza Italia 
      e udc sono state sottostimate, ma an sovrastimata).
      Il secondo punto, invece, quello relativo «all’incremento significativo 
      dei voti validamente espressi», spinge swg a ritenere che «la 
      riduzione delle schede bianche e nulle» abbia premiato maggiormente 
      il centrodestra «con un effetto analogo a quello descritto dai sondaggi 
      preelettorali che evidenziavano come ad un aumento del livello di partecipazione 
      (e quindi dei voti validi) si riducesse lo scarto tra le due coalizioni». 
      Peccato che l’unico istituto di ricerca che abbia osato avanzare un’ipotesi 
      del genere durante la campagna elettorale – Euromedia Research di 
      Alessandra Ghisleri – sia stato sbeffeggiato dai colleghi con la terribile 
      (e neanche troppo velata) accusa di “lavorare per Berlusconi”. 
      Come se avere L’espresso o i ds come committenti contribuisse a rendere 
      più solide le proprie rilevazioni statistiche.
      Ma il non Daily ultra si raggiunge con la prima delle tre spiegazioni, e 
      cioè con «l’impossibilità di monitorare, o meglio 
      di arrivare, ad alcuni segmenti dell’opinione pubblica». swg 
      si riferisce a «quelle aree sociali, prevalentemente lontane dalla 
      politica, marginali, anti sistemiche [...] segmenti generalmente a basso 
      livello di scolarizzazione e informazione che più facilmente vengono 
      attratti da espressioni e/o messaggi di tipo evocativo-emozionale o a forte 
      impatto, quelli cioè che muovono comportamenti irrazionali, istintivi, 
      impulsivi o che incidono sulla formazione non ragionata di idee e orientamenti. 
      Tali segmenti sono stati toccati marginalmente dai sondaggi, pur trovando 
      nelle ultime settimane di campagna elettorale un forte stimolo all’espressione 
      di voto nella capacità comunicativa del Premier che ha agito in tali 
      aree inducendo una maggior spinta partecipativa o meglio dichiarativa al 
      voto». Sì, avete letto bene. I berlusconiani dispersi, in estrema 
      sintesi, sono ignoranti e disinformati (anti-sistema, addirittura), si fanno 
      ipnotizzare dai messaggi irrazionali ed impulsivi sparati dal Caimano in 
      televisione e, soprattutto, hanno idee e orientamenti che si formano in 
      modo “non ragionato”. Una sorta di esercito di catatonici in 
      letargo, insomma, che soltanto il Cavaliere Nero è in grado di risvegliare 
      con un click del telecomando.
 La maggioranza che si vede
 
      La maggioranza che si vede
      “Ignoranza” o “reticenza”, però, cambia poco. 
      Perché queste “radiografie” postume che tentano di analizzare 
      l’humus socio-economico che ha permesso la rimonta della CdL sono 
      fondamentalmente in linea con l’idea che settori consistenti dell’establishment 
      mediatico e culturale hanno maturato a proposito della forma e della sostanza 
      della Right Nation italiana (e non soltanto della parte di essa che sfugge 
      sistematicamente alle rilevazioni statistiche). Basta rileggere l’articolo 
      scritto da Giorgio Bocca per Repubblica il giorno dopo le elezioni, per 
      toccare con mano l’assoluta incapacità di comprendere i confini 
      e la struttura del blocco sociale che sceglie, ormai da tempo, di affidare 
      il proprio voto al centrodestra. Per Bocca si tratta, né più 
      né meno, di un’Italia «sempre più ricca e sempre 
      più sovversiva», la stessa che «negli anni Venti ha preferito 
      il fascismo alla democrazia, che in quelli Quaranta si è rifugiato 
      sotto lo scudo democristiano», oscillando senza troppa convinzione 
      tra un voto «ora fascista, ora clericale, ora manageriale o finanziario».
      Si tratta, naturalmente, di una caricatura che poco o nulla ha a che fare 
      con la realtà. Perché la realtà, quella fatta di numeri 
      solidi e di croci incise con forza sui simboli dei partiti, racconta una 
      storia del tutto diversa. Racconta di una coalizione forte su tutto il territorio 
      nazionale e che raccoglie uno spettro molto ampio di condizioni socio-economiche 
      e di sensibilità culturali e politiche. Una coalizione che, alle 
      Politiche del 2006, è tornata maggioranza in tutto il Nord e nelle 
      regioni più produttive e moderne del Mezzogiorno. Non si tratterà 
      forse, come ha scritto Renato Brunetta, di una coalizione che vince dove 
      viene prodotto l’85 per cento del Pil, ma non si può negare 
      che – oltre ad aver consolidato la sua netta maggioranza in Lombardia 
      e Veneto (con numeri che sfiorano le percentuali “bulgare” delle 
      regioni rosse), il centrodestra abbia riconquistato il Piemonte, il Lazio 
      e la Puglia, sfiorato il clamoroso successo al Senato in Campania e riaffermato 
      la propria supremazia quasi strutturale in Sicilia. Viste le premesse della 
      vigilia, ci troviamo di fronte ad un risultato oggettivamente straordinario.
      Da analizzare con attenzione, piuttosto, sarebbe la vera vulnerabilità 
      della CdL, quella relativa al voto dei giovani tra i 18 e i 24 anni, che 
      ha regalato – anche se per una manciata di voti – la maggioranza 
      della Camera al centrosinistra. Secondo le analisi dei flussi elettorali 
      (che, ricordiamocelo, sono comunque basate su exit poll ampiamente smentiti 
      dai risultati reali), degli oltre 3 milioni di giovani che si sono recati 
      per la prima volta alle urne nel 2006, il 42,1 per cento ha scelto l’Unione 
      mentre il 34,6 per cento ha scelto il centrodestra. Mancano all’appello 
      circa 700mila votanti (il 23,3 per cento) che si sono astenuti. Viene spontaneo 
      chiedersi quanti di questi 700mila voti potenziali si sarebbero potuti recuperare 
      se la CdL avesse evitato, nella fase centrale ma anche in quella finale 
      della legislatura uscente, di prendere provvedimenti che sono stati quasi 
      universalmente riconosciuti come iniqui dalla fascia d’età 
      di cui ci stiamo occupando. Pensiamo soprattutto alla nuova legge sulla 
      droga (che è stata, nella migliore delle ipotesi, spiegata malissimo 
      ai cittadini) oppure al famigerato decreto Urbani che si è mosso 
      inconsultamente verso la criminalizzazione dello scambio di file su Internet. 
      Quando si perde la Camera per 24mila voti, non si può non rimanere 
      perplessi sul modo in cui è stato gestito il rapporto con questa 
      cruciale fascia d’età.
 Le ragioni di un'alleanza
 
      Le ragioni di un'alleanza
      Nelle condizioni ambientali migliori della sua storia politica, la sinistra 
      – ramazzando perfino negli angoli più oscuri degli schieramenti 
      politici – non è riuscita a raggiungere il 50 per cento dei 
      voti né alla Camera né al Senato. Ce ne sarebbe abbastanza 
      per considerare il risultato elettorale come una clamorosa sconfitta per 
      una classe dirigente eterogenea e rissosa che sembra riuscire a stare insieme 
      soltanto con l’obiettivo (per ora fallito) di porre fine all’era 
      berlusconiana. Dall’altra parte, invece, ci troviamo di fronte ad 
      una coalizione piuttosto omogenea, che sembra aver trovato – più 
      a livello popolare che di élite dirigenti – una coesione invidiabile. 
      Anche gli spostamenti di voto all’interno della coalizione, che si 
      ripetono con frequenza ad ogni tornata elettorale, a ben guardare rappresentano 
      un punto di forza per il centrodestra nel medio e nel lungo periodo. Soprattutto 
      se, come è possibile, ad un’accelerazione verso il “partito 
      unico” tra Ds, Margherita e cespugli vari, corrispondesse un’analoga 
      spinta centripeta per la costruzione di un partito moderato di centrodestra 
      riconducibile alla grande famiglia dei Popolari europei. Forza Italia stessa, 
      seppure allo stato embrionale, è una sorta di esperimento fusionista 
      tra anime diverse – liberale, conservatrice, cattolica, moderata e 
      riformista – che riescono a convivere sulla base di istanze, istinti 
      e ragioni comuni. Alleanza Nazionale e l’udc, sul fianco destro e 
      su quello più moderato, rappresentano elettorati assolutamente compatibili 
      (e per questo spesso interscambiabili) con quello del partito di maggioranza 
      relativa. La Lega, naturalmente, resterebbe fuori da questo nuovo soggetto 
      politico, anche se alleata con esso; ma è opinione diffusa che questa 
      scelta potrebbe rafforzare la sua forza elettorale e portare giovamento 
      (se non altro numerico) all’intera coalizione.
      Partendo dal risultato elettorale del 2006, non è comunque necessario 
      pensare ad un “partito unico” del centrodestra per puntare, 
      nel giro di pochi anni, allo status di “maggioranza strutturale” 
      nel paese. A patto, naturalmente, di prendere coscienza degli errori commessi, 
      non tanto durante la campagna elettorale ma soprattutto negli anni precedenti. 
      Investire nella produzione culturale (pensiamo anche alla cultura popolare) 
      non è più rinviabile. Think tank, fondazioni, riviste e giornali, 
      ma anche soggetti in grado di sfruttare le potenzialità immense di 
      old e new media, già esistono ma vanno potenziati, messi in rete 
      tra loro e considerati come una risorsa per la crescita complessiva di un’area 
      politica di riferimento, non come scorciatoie per il raggiungimento di obiettivi 
      personali. L’organizzazione politica sul territorio, che sia quella 
      del “partito unico” o dei singoli partiti della coalizione, 
      deve essere considerata importante almeno quanto la capacità di mobilitare 
      il proprio elettorato in occasione degli appuntamenti “nazionali”. 
      A questa esigenza è strettamente connessa quella di migliorare il 
      livello della propria classe dirigente, soprattutto locale, per diventare 
      competitivi nelle tornate elettorali amministrative.
      È necessario, insomma, prepararsi ad una “campagna elettorale 
      permanente” in grado di favorire la proiezione, anche sul piano più 
      strettamente tecnico-elettorale, di quella “maggioranza strutturale” 
      che il centrodestra, ancora una volta, ha dimostrato di 
      rappresentare nel paese.
      
      
        
      
        Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione.
 
      Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione.
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