Apologia della guerra giusta
di Stefano Magni
Ideazione di maggio-giugno 2006

Ayn Rand è sempre stata considerata come una voce isolata che urla nel deserto. La fondatrice della filosofia oggettivista, nata in Russia come Alyssa Rosenbaum, cresciuta in Unione Sovietica e fuggita negli Stati Uniti sotto falso nome (Ayn Rand), si è sempre tenuta rigorosamente alla larga dal dibattito accademico e politico. Venuta negli Stati Uniti per godere il massimo della libertà individuale, vide con orrore la metamorfosi culturale del paese, a partire dal “decennio rosso” di Roosevelt fino allo statalismo dominante nei programmi, non solo di Johnson, ma anche di Nixon. Fu soprattutto per questo motivo, per il socialismo e il collettivismo sempre più egemoni nella classe colta americana (giornalisti, scienziati, artisti, insegnanti, professori, opinion maker), che Ayn Rand preferì rivolgersi direttamente alla gente comune, all’americano medio. Lo fece scrivendo romanzi filosofici di grande divulgazione, conferenze e seminari aperti al pubblico e molti editoriali su quotidiani a tiratura nazionale. La strategia seguita da Ayn Rand fu sia un successo che un fallimento: fu un successo perché contribuì a rafforzare le idee dell’individualismo in milioni di americani, ma fu anche un fallimento, nel senso che, rimanendo rigorosamente fuori dal dibattito accademico e politico, la Rand non ha lasciato oggi una vera e propria eredità.
Questo successo/insuccesso è particolarmente evidente nella sua dottrina di politica estera.
Quando Ayn Rand incominciò ad occuparsi seriamente dei temi legati alla politica internazionale, la guerra fredda era in una delle sue fasi più calde: la presa del potere di Fidel Castro a Cuba, la crisi del muro di Berlino e infine il pericolo dei missili sovietici installati a Cuba, per la prima volta portarono il mondo sull’orlo di una guerra nucleare. In questa fase della storia degli Stati Uniti, la Rand constatò che nessuno, né il pragmatismo della destra di Eisenhower, né l’idealismo democratico della sinistra di Kennedy, stava difendendo coerentemente l’America e i suoi ideali di libertà da un nemico totalitario. Innanzitutto, la Rand fu convinta fin da subito che la guerra fredda non era competizione, ma scontro. Una competizione, infatti, implica l’accettazione di regole comuni, prima fra tutte il divieto di ricorrere all’aggressione, mentre l’Unione Sovietica rifiutava qualsiasi regola. In un confronto di sistema come la guerra fredda, il neutralismo e l’intellighenzia pacifista che lo sosteneva erano i nemici più subdoli: «Tali sedicenti neutralisti» – scriveva ne La virtù dell’egoismo – «sono peggio che semplicemente neutrali nel conflitto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: essi si impegnano, per principio, a non vedere alcuna differenza fra le parti, a non esaminare mai il merito di un problema e a cercare in ogni occasione di raggiungere un compromesso, qualsiasi compromesso in qualsiasi conflitto, come, ad esempio, quello tra un aggressore e un paese invaso». Anche l’onu, proprio perché istituzione super-partes, non ha alcuna ragione morale di esistere: «Io non accetto la pretesa grottesca di un’organizzazione teoricamente dedita alla pace mondiale e alla protezione dei diritti umani che comprende anche la Russia sovietica, il peggior aggressore e il più sanguinoso assassino della storia, come uno dei suoi membri fondatori» – rispondeva a un intervistatore della rivista Playboy nel 1964 – «La stessa nozione della protezione dei diritti umani, se la Russia sovietica è fra gli Stati protettori, diventa un insulto al concetto di diritto». La Rand, inoltre, vide che la sinistra liberal aveva tradito palesemente il suo ideale internazionalista, proprio perché male inteso fin dal principio: «L’internazionalismo è sempre stato uno dei dogmi fondamentali dei liberal. Essi consideravano il nazionalismo come un immenso male sociale, come un prodotto del capitalismo e come causa delle guerre. I liberal si opponevano a qualunque forma di interesse nazionale, si rifiutavano di distinguere il patriottismo razionale dal cieco sciovinismo razzista, denunciando entrambi come “fascisti”. Essi sostenevano la dissoluzione dei confini nazionali in un “Mondo Unico”. Dopo i diritti di proprietà, i “diritti nazionali” erano il bersaglio privilegiato dei loro attacchi. Oggi sono proprio i “diritti nazionali” che essi invocano per mantenere un’ultima, debole ed effimera presa su una qualche giustificazione morale per i risultati delle loro teorie, per la genia di piccole dittature stataliste che si vanno diffondendo come una lebbra sulla superficie del globo, sotto forma di cosiddette nazioni emergenti semisocialiste, semicomuniste, semifasciste e pienamente votate all’uso della forza bruta». La Rand non concepiva il mondo come un insieme di Stati, ma come somma di individui, ciascuno con la propria vita. Non esistono diritti nazionali, insomma, ma solo individuali. Ha diritto di difendersi solo quello Stato che rispetta e protegge la vita e le proprietà dei suoi cittadini: «Una nazione siffatta» – scriveva sempre ne La virtù dell’egoismo – «ha diritto alla propria sovranità (che deriva dai diritti dei propri cittadini) e diritto a esigere che la propria sovranità sia rispettata da tutte le altre nazioni. Ma tale diritto non può essere rivendicato dalle dittature, dalle tribù selvagge o da qualsiasi forma di tirannide assolutistica. Una nazione che violi i diritti dei propri cittadini non può rivendicare alcun diritto di sorta. […] Il diritto a ridurre in schiavitù non esiste. Una nazione può farlo, proprio come un uomo può diventare un criminale, ma nessuno di essi può farlo in virtù di un diritto. Non importa in questo contesto, se una nazione viene ridotta in schiavitù con la forza, come la Russia sovietica, o col voto, come la Germania nazista. I diritti individuali non sono soggetti a un voto pubblico; una maggioranza non ha alcun diritto a eliminare col voto i diritti di una minoranza; la funzione politica dei diritti è precisamente quella di proteggere le minoranze dall’oppressione delle maggioranze (e la più piccola minoranza sulla terra è l’individuo)».

Diritti e doveri delle nazioni libere
Le guerre non scoppiano a causa del capitalismo, ma dello statalismo: «Lo statalismo» – scrive in Capitalism, the Unknown Ideal – «non è niente più che un governo criminale. Una dittatura è una gang dedita alla rapina degli sforzi produttivi dei cittadini del suo paese. Quando un leader nazionale ha esaurito le risorse del suo paese, attacca i suoi vicini. È il suo unico metodo per rimandare il suo collasso interno e prolungare il suo dominio. Un paese che viola i diritti dei suoi stessi cittadini, non rispetta nemmeno quelli dei suoi vicini. Coloro che non riconoscono i diritti individuali, non riconoscono nemmeno quelli delle nazioni: una nazione è solo una somma di individui. Lo statalismo ha bisogno della guerra, un paese libero no. Lo statalismo sopravvive grazie alla rapina, un paese libero vive grazie alla produzione».
Se solo i paesi liberi hanno il diritto di difendersi e non le dittature, come dovrebbero essere impostate le relazioni tra nazioni libere e dittature nel mondo presente? Anzitutto per nazioni libere, la Rand intendeva tutte le nazioni del Mondo Libero, che pure erano (e sono) caratterizzate da economie miste e anche da alcune violazioni dei diritti individuali. La sua è una definizione a contrario: è una nazione libera, quella che non è una dittatura. E per dittatura si intende lo Stato che presenta quattro caratteristiche: «Il partito unico, le esecuzioni senza processo (o con un processo farsa) per reati politici, la nazionalizzazione o la espropriazione della proprietà privata e la censura». Detto questo: «Le nazioni rette da una dittatura sono fuorilegge. Qualsiasi nazione libera aveva il diritto di invadere la Germania nazista e, oggi, ha il diritto di invadere la Russia sovietica, Cuba o qualsiasi altra gabbia di schiavi. Che una nazione libera decida di farlo o meno è una questione che riguarda il proprio interesse e non il rispetto di inesistenti diritti dei capi della gang. Liberare altre nazioni al prezzo del sacrificio di sé non è il dovere di una nazione libera, ma una nazione libera ha il diritto di farlo se e quando lo decida».
La guerra, però, è l’ultima delle opzioni possibili, perché comporta necessariamente grandi sacrifici. Secondo Ayn Rand i regimi autoritari e totalitari, proprio perché si fondano esclusivamente sulla rapina di risorse, sono inevitabilmente deboli e dipendenti dalla sottomissione o dalla legittimazione altrui. Regimi come quello sovietico vivono in modo parassitario sul lavoro estorto ai propri cittadini e dipendono dalla tecnologia creata nelle nazioni libere: «Non credo sia necessaria una guerra» – rispondeva la Rand all’intervistatore di Playboy – «Non al momento. Sosterrei, invece, ciò che l’Unione Sovietica teme più di ogni altra cosa: il boicottaggio economico. Sosterrei un blocco per Cuba e un boicottaggio economico per l’Unione Sovietica: entrambi i regimi collasserebbero senza la perdita di una sola vita americana».
In caso di guerra, l’aggressore perde tutti i diritti, a partire da quello alla sua sovranità territoriale. Anche la protezione dell’incolumità dei civili del governo aggressore viene messa in discussione: non spetta al governo che si sta difendendo proteggere i diritti dei civili del governo aggressore. Per Ayn Rand il principio di responsabilità individuale non decade nemmeno sotto una dittatura: «Questa (la possibilità di uccidere civili innocenti in guerra, ndr) è una delle ragioni principali per cui la gente comune deve essere preoccupata della natura del proprio governo» – sostenne nel corso di una conferenza al Ford Hall Forum nel 1972 – «Se per negligenza, ignoranza, o incapacità, non rovescia il proprio governo aggressore per sostituirlo con uno migliore, la popolazione paga il prezzo per le colpe di chi la comanda». Il governo di una nazione libera, semmai, ha il dovere di proteggere i diritti dei cittadini e dei soldati che hanno cessato di combattere: «Un paese schiavizzato non ha alcun diritto nazionale, ma i diritti individuali dei suoi cittadini rimangono validi, anche se non riconosciuti e il conquistatore non ha diritto di violarli» – spiegava ne La virtù dell’egoismo – «Pertanto l’invasione di un paese ridotto in schiavitù è moralmente giustificata solo se e quando i conquistatori istituiranno un sistema sociale libero, ossia un sistema fondato sul riconoscimento dei diritti individuali».
In una nazione libera, l’esercito non può fondarsi legittimamente sulla coscrizione obbligatoria, proprio perché la scelta di difendere il proprio paese (ritenendone giusta la causa) ricade sui singoli individui. E nel corso della guerra del Vietnam, Ayn Rand, anche se avversava fortemente il movimento pacifista, fu in prima linea nel condannare la leva obbligatoria e nel sostenere un esercito interamente costituito da volontari. La leva, altro non è che un rinnovato sistema di schiavitù, anche se non permanente: «Di tutte le violazioni statali dei diritti individuali» – scriveva in merito – «la leva obbligatoria militare è la peggiore. È un’abrogazione dei diritti. Nega il principale diritto umano, quello alla vita, e consolida il principio fondante dello statalismo: che la vita dell’uomo dipende dalla discrezione dello Stato e dunque lo Stato può chiedergli di sacrificarsi in battaglia. Una volta che questo principio venga accettato, la perdita degli altri diritti sarà solo una questione di tempo».
Siccome la responsabilità e i diritti sono sempre individuali, il diritto di resistenza alla tirannide è sempre giustificato. Anche in questo caso, come per le guerre internazionali, l’uso della forza è sempre l’ultima delle opzioni ed è giustificata solo per rispondere ad un’aggressione militare del governo contro i suoi cittadini. Così come il boicottaggio economico è la forma di lotta privilegiata contro le tirannidi straniere, il tipo di resistenza contro il proprio tiranno proposto dalla Rand, soprattutto nel suo romanzo filosofico più famoso, La rivolta di Atlante, è lo sciopero: i cittadini smettono di lavorare per il loro governo, cessano ogni forma di collaborazione con i loro persecutori. Un’altra forma di resistenza che viene contemplata, nella filosofia randiana, è la secessione. Ma con limiti molto ben determinati: «Se una provincia vuole secedere da una dittatura o anche da uno Stato a economia mista, per stabilire un governo più libero, ha il diritto di farlo» – scriveva nel saggio Global Balkanization nel 1977 – «Ma se una gang locale, etnica o ideologica, vuole secedere per stabilire il suo controllo governativo, non ha questo diritto. Nessun gruppo ha il diritto di violare i diritti degli individui che, non per loro scelta, vivono in un determinato territorio. Un desiderio, individuale o collettivo, non è un diritto».
Nessun presidente, nessun responsabile della politica estera degli Stati Uniti o di qualsiasi altra nazione del mondo libero, seguì la filosofia di Ayn Rand. Lo stesso candidato presidente Barry Goldwater, a cui la filosofa russa aveva prestato la sua consulenza per le elezioni del 1964, non inserì che una parte di questa filosofia nel suo programma di politica estera. Tutti, Ronald Reagan compreso, scesero a patti con l’Unione Sovietica e con altre dittature ostili (prima fra tutte l’Arabia Saudita), rafforzandole e prolungandone la sopravvivenza. E quando l’Unione Sovietica diede palesi segni di cedimento nel 1991, fu George Bush senior a pregare i Baltici e l’Ucraina di non secedere, nel nome di principi collettivisti, quali la “sicurezza internazionale” e la “stabilità”. Praticamente tutto l’establishment prese le distanze dalla filosofia di Ayn Rand, per diversi motivi. Gli intellettuali libertari, che pure hanno attinto moltissimo dalla filosofia oggettivista, condannano in particolar modo la sua dottrina di politica estera: la accusano di legittimare il ruolo dello Stato e addirittura di essere alle spalle del cosiddetto “imperialismo” presidenziale americano; i liberal la considerano semplicemente una pericolosa filosofia guerrafondaia; i conservatori, soprattutto quelli più pragmatici, vedono Ayn Rand semplicemente come una imbarazzante testa calda, una sorta di comunista alla rovescia, lo stesso atteggiamento di emarginazione intellettuale che oggi riservano a giornaliste come Ann Coulter o Oriana Fallaci. In generale, nessuno vuol riconoscere apertamente di essere in debito con le idee di Ayn Rand, perché lei stessa era solita non riconoscere crediti a nessuno, nemmeno ai grandi fondatori della filosofia occidentale. Eppure la dottrina randiana di politica estera si presenta come la sintesi coerente e attualizzata di sette secoli di teoria della “guerra giusta” che, a partire da S. Tommaso d’Aquino, è alla base della filosofia politica internazionale occidentale. E, sul piano pratico, non si può fare a meno di notare che il mondo non andò affatto nella direzione opposta rispetto a quella auspicata da Ayn Rand. Bastò un limitato boicottaggio economico promosso da Reagan nei confronti dell’Unione Sovietica per far collassare, in dieci anni, un impero che tutti gli analisti più in vista consideravano ancora pienamente vitale. In quasi tutte le democrazie occidentali, gli eserciti di leva sono stati sostituiti da forze armate interamente costituite da volontari. Al giorno d’oggi nemmeno l’inviolabilità della sovranità nazionale è più un tabù: varie forme di ingerenza, giustificate dal rispetto dei diritti individuali, sono sempre più presenti nell’agenda politica delle democrazie occidentali, proposte sia da partiti di sinistra che di destra. Anche la frammentazione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia e la nascita di nuove nazioni libere dalla dittatura comunista, sono fenomeni di cui si è ormai riconosciuta la legittimità. Il diritto di resistenza alla tirannide, anche sostenuto dall’estero con politiche di regime change, è un principio che è gradualmente accettato nell’agenda politica internazionale, soprattutto di quella degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e delle nuove democrazie dell’Est europeo. Il libero mercato e i diritti individuali si sono diffusi fino a comprendere la maggioranza delle nazioni del mondo e il numero dei conflitti è drasticamente calato di conseguenza. Ma soprattutto milioni di americani, anche grazie ad Ayn Rand e nonostante le idee dell’establishment, riscoprirono la fierezza di far parte della nazione guida del Mondo Libero. La riscossa internazionale degli Stati Uniti negli anni ’80, dopo un decennio di “sindrome del Vietnam”, fu dovuta a uno scatto di orgoglio popolare, non da decisioni prese dall’establishment. Anche il patriottismo diffusosi dopo l’11 settembre è un sentimento popolare, ben lontano dall’acidità autoaccusatoria dell’élite intellettuale americana. È il frutto dei valori degli americani semplici e invisibili, lontanissimi dalla ribalta internazionale dei grandi media liberal e della Hollywood radical-chic: sono le idee dell’americano medio che, da qualche parte, nella sua libreria, conserva almeno una copia di La rivolta di Atlante, il libro che in America è diffuso quasi quanto la Bibbia.

Bibliografia
La virtù dell’egoismo, Liberilibri, Macerata 1999.
Capitalism, the Unknown Ideal, Penguin, New York 1967.
Return of the Primitive, the Anti-Industrial Revolution, Penguin, New York 1999.
Intervista della rivista Playboy, marzo 1964, cfr. Ideazione, novembre-dicembre 2004.
Intervento alla Ford Hall Forum su http://www.aynrand.org/site/News2?page=NewsArticle&id=5138
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Stefano Magni, giornalista.

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