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    della missione italiana
 
    Legittimità e successo 
    della missione italiana Dalla 
      fine della guerra in Iraq sono passati tre anni, durante i quali, nel nostro 
      paese, sono state spese tante, troppe parole. La conclusione annunciata 
      dell’impegno italiano, ora, permette un’analisi a posteriori 
      e un bilancio politico – successo o fallimento? – che vede coinvolto 
      l’operato del governo Berlusconi nella crisi internazionale più 
      importante della legislatura scorsa.
 
      Dalla 
      fine della guerra in Iraq sono passati tre anni, durante i quali, nel nostro 
      paese, sono state spese tante, troppe parole. La conclusione annunciata 
      dell’impegno italiano, ora, permette un’analisi a posteriori 
      e un bilancio politico – successo o fallimento? – che vede coinvolto 
      l’operato del governo Berlusconi nella crisi internazionale più 
      importante della legislatura scorsa.
      In questa sede si analizzerà la missione Antica Babilonia nel suo 
      insieme, in ragione della sua prossima fine. In particolare si tenterà 
      di confutare alcuni “miti” – come, ad esempio, la convinzione 
      assai diffusa del mancato rispetto dell’articolo 11 della nostra Costituzione 
      o del diritto internazionale da parte del nostro governo – e di spiegare 
      i motivi per i quali ritenere opportuno un accordo tendenzialmente bipartisan 
      tra le forze di maggioranza e di opposizione sulla fine della missione in 
      Iraq. Infine, considereremo il contributo dato dal nostro contingente alla 
      ricostruzione post-bellica e come esso abbia permesso al nostro paese di 
      acquistare credibilità internazionale.
      Il governo italiano, nel corso dello scorso anno, ha prefigurato più 
      volte un ritiro del nostro contingente militare di stanza in Iraq1 e, tra 
      l’agosto del 2005 ed il gennaio del 2006, ha proceduto al rientro 
      in Italia di un totale di 600 soldati, riducendo così a 2.600 il 
      numero degli effettivi in territorio iracheno. Lo scorso 19 gennaio, il 
      ministro della Difesa Antonio Martino ha dichiarato che entro la fine del 
      2006 l’operazione Antica Babilonia verrà portata a termine, 
      e che entro maggio 1.000 soldati italiani rientreranno nel nostro paese2. 
      
      A posteriori, questa pianificazione può essere spiegata, almeno in 
      parte, con motivi elettorali: inevitabilmente, le richieste di un ritiro 
      immediato dei militari italiani da parte dell’opposizione di centrosinistra 
      si sarebbero intensificate. Il governo in tal modo ha voluto agire per tempo, 
      così da non subire l’iniziativa avversaria e depotenziare un 
      probabile “cavallo di battaglia” elettorale nelle Politiche 
      dello scorso aprile della coalizione guidata da Romano Prodi3. 
      Era infatti fondato presumere che la campagna elettorale sarebbe potuta 
      facilmente diventare il campo di uno sterile j’accuse, ormai vecchio 
      di tre anni, sulla guerra, sulle sue ragioni, sull’intervento italiano 
      e sul (presunto) mancato rispetto del diritto internazionale da parte del 
      governo. Dall’altra parte, per spiegare il graduale ritiro del contingente 
      italiano, è necessario considerare anche il progressivo esaurimento 
      della nostra stessa missione, man mano che i vari obiettivi di ricostruzione 
      e pacificazione sono stati raggiunti nell’area geografica di nostra 
      competenza.
      Poiché la questione irachena costituisce inevitabilmente materia 
      di dibattito, sarebbe opportuno evitare da subito ogni diatriba impropria 
      su chi avesse ragione e chi avesse torto al tempo della guerra, e ancora 
      peggio ogni speculazione sui militari italiani impegnati in un territorio 
      nel quale rischi e pericoli di certo non mancano. Una riflessione scevra 
      da partigianerie e focalizzata sul ruolo del nostro paese e sulla fine della 
      nostra missione in Iraq servirebbe a rimarcare un passaggio da più 
      parti auspicato e quasi mai concretamente accolto dal centrosinistra: una 
      gestione politica concordata dei mesi che restano, prima della conclusione 
      della missione, ovvero una politica irachena in chiave bipartisan, ora che 
      i termini sono noti e la controversia internazionale che caratterizzò 
      tutto il 2003 – e che ebbe ripercussioni violente nel dibattito politico 
      nazionale – non ha più ragion d’essere. Per questo motivo 
      ci si augura che le forze politiche di entrambi gli schieramenti si accordino 
      per portare a termine con successo la transizione. 
      Prima di affrontare propriamente l’aspetto del ritiro, è opportuno 
      considerare la natura della nostra missione, anche per respingere le accuse 
      pretestuose all’azione del governo Berlusconi – sul versante 
      giuridico-istituzionale e su quello internazionale – che hanno trovato 
      larghi consensi in Italia, annoverando finanche illustri opinionisti e generando 
      un preoccupante fenomeno di disinformazione.
 Antica Babilonia: il quadro 
      normativo
 
      Antica Babilonia: il quadro 
      normativo
      Conviene 
      analizzare, innanzitutto, il quadro normativo interno ed internazionale 
      che attiene alla missione Antica Babilonia. A poco meno di tre anni dall’avvio 
      della stessa e a pochissimi mesi dalla sua conclusione, infatti, c’è 
      più di una forza politica che continua a sostenere l’illegittimità 
      internazionale di una siffatta operazione e, addirittura, la violazione 
      della Costituzione da parte del governo che l’ha varata. Dopo un’analisi 
      attenta, in realtà, risulterà fuori discussione la piena conformità 
      della condotta del governo italiano sia al diritto internazionale che al 
      dettato costituzionale.
      All’indomani della presa di Baghdad da parte delle forze armate americane 
      (9 aprile 2003), il governo Berlusconi presentò tempestivamente al 
      Parlamento il primo progetto di intervento italiano in Iraq. Con le comunicazioni 
      alla Camera e al Senato del 15 aprile 2003, l’allora ministro degli 
      Esteri Frattini rese nota la volontà dell’Esecutivo di intraprendere 
      una missione «multidimensionale» avente l’obiettivo di 
      «assicurare i necessari aiuti umanitari» e «realizzare 
      quelle opere urgenti di ripristino infrastrutturale e quei servizi indispensabili 
      a garantire le migliori condizioni di vita quotidiana»4 per la popolazione 
      irachena. Seguì ampio dibattito, in cui le forze della sinistra radicale 
      attaccarono pesantemente il progetto governativo, tacciandolo di coprire 
      cinicamente gli interessi dell’industria nazionale, mentre ds e Margherita 
      in parte si astennero, in parte bocciarono la missione – seppur con 
      alcuni, isolati distinguo – ritenendo che progetti di siffatta importanza 
      dovessero essere sviluppati dall’onu5. Le risoluzioni di sostegno 
      alla proposta furono approvate a larga maggioranza.
      Questi atti di indirizzo parlamentare costituiscono l’autorizzazione 
      interna necessaria all’avvio di Antica Babilonia, anche dal punto 
      di vista strettamente militare. La successiva pianificazione logistico-militare 
      del ministero della Difesa infatti tenne obbligatoriamente conto dei limiti 
      politici all’azione italiana in territorio iracheno, sanciti da queste 
      statuizioni conformemente alle indicazioni del ministro Frattini.
      Per poter avere un seguito giuridicamente ammissibile, la missione necessitava 
      di due ulteriori passaggi. Anzitutto, la dichiarazione ufficiale di cessazione 
      delle ostilità militari, la quale arrivò il primo maggio 2003, 
      per bocca del presidente americano George W. Bush, in qualità di 
      capo di Stato del paese belligerante risultato vittorioso. In seconda battuta, 
      una risoluzione del Consiglio di Sicurezza onu che legittimasse, dal punto 
      di vista internazionale, i propositi italiani di partecipazione al processo 
      di post conflict peace building.
      La volontà italiana di contribuire alla soluzione dell’emergenza 
      umanitaria irachena e alla sicurezza e alla ricostruzione del paese, quindi, 
      trovò una base giuridica fondamentale nella Risoluzione 1483 del 
      22 maggio 2003. Questa, approvata all’unanimità6 e sotto le 
      disposizioni del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite,7 si appellava 
      a tutti gli Stati membri affinché aiutassero la popolazione irachena 
      negli sforzi per la ricostruzione politica, sociale ed economica del paese8 
      e richiamava gli Stati membri come l’Italia, ossia quelli già 
      pronti ad agire in conformità all’appello, ad attivarsi immediatamente, 
      al fine di fornire al popolo iracheno, in modo tempestivo, l’assistenza 
      umanitaria e gli strumenti necessari per la ricostruzione9. All’appello 
      del Consiglio di Sicurezza onu risposero circa 40 Stati membri, tra i quali 
      l’Italia.
      In presenza della legittimazione giuridica internazionale, perciò, 
      il governo italiano poté procedere alla messa a punto degli aspetti 
      strettamente tecnici, mentre l’autorizzazione all’implementazione 
      di Antica Babilonia si ebbe col decreto legge 165 del 10 luglio 2003, poi 
      convertito, in sede parlamentare, nella legge 219 del 1 agosto 2003. Questi 
      strumenti normativi comprendevano anche la necessaria copertura finanziaria 
      e necessitavano di un rinnovo a cadenza annuale, puntualmente garantito 
      anche negli anni successivi. La missione Antica Babilonia cominciò 
      ufficialmente il 15 luglio 2003.
      In sede di conversione in legge del decreto autorizzativo della missione 
      irachena, fu ribadita la piena conformità dell’azione del governo 
      Berlusconi al dettato costituzionale, sia prima che dopo la conclusione 
      del confronto bellico tra alleati e Iraq. Si ricordò, in quella sede, 
      che l’Italia si era dichiarata paese non belligerante circa il conflitto 
      in Iraq, mediante il comunicato del Consiglio Supremo di Difesa del 19 marzo 
      2003, presieduto dal presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, 
      e che la missione che si andava ad autorizzare era legittimata dalla Risoluzione 
      1483, la quale prevedeva espressamente un intervento umanitario attuato 
      anche con forze militari, al comando di Stati Uniti e Regno Unito, le potenze 
      legittimate come occupanti dallo stesso disposto della risoluzione in esame.
      Un passo in avanti decisivo nel consolidamento della piena legittimità 
      internazionale dell’operazione fu rappresentato dalla Risoluzione 
      1511 del 16 ottobre 2003. Questa, votata all’unanimità, non 
      prevedeva un impegno diretto delle Nazioni Unite nel processo di ricostruzione 
      irachena e, così disponendo, svuotava di significato la posizione 
      di ds e Margherita, ancorati ad un generico quanto ormai irrealizzabile 
      rinvio alle istituzioni onu del peace-building in Iraq. Al contrario, la 
      Risoluzione 1511 autorizzava una forza multinazionale, a comando unificato 
      statunitense, a prendere tutte le misure necessarie per contribuire al mantenimento 
      della sicurezza e della stabilità necessaria al processo di ricostruzione 
      dell’Iraq. Con ciò si dava inizio ad un processo parallelo, 
      di fondamentale importanza perché costituente il metro in relazione 
      al quale dover valutare gli eventuali progressi compiuti dai paesi intervenuti 
      in territorio iracheno: il graduale passaggio, calendarizzato, dei poteri 
      dall’Autorità provvisoria alleata al nuovo governo iracheno.
      Il ruolo delle forze militari inviate in Iraq fu così non soltanto 
      legittimato dall’onu ma espressamente sollecitato. D’altronde, 
      i noti problemi di sicurezza che il paese doveva affrontare non avrebbero 
      mai permesso, altrimenti, uno svolgimento efficace dei compiti di assistenza 
      umanitaria alla popolazione e di ricostruzione politica, sociale ed economica. 
      Una conferma decisiva sul punto proviene dalle prese di posizione delle 
      più alte cariche onu, colpevolmente ignorate, in quel periodo, dagli 
      organi di stampa del nostro paese. La Commissione di esperti delle Nazioni 
      Unite, guidata da Lakhdar Brahimi, infatti, asserì che il miglioramento 
      delle condizioni di sicurezza fosse di essenziale importanza per consentire 
      all’onu di svolgere il proprio mandato. Di più. Il segretario 
      generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in visita al Senato giapponese, 
      affermò quanto segue: «Voi avete risposto agli appelli del 
      Consiglio di Sicurezza dell’onu e offerto una prova esemplare a livello 
      internazionale di vera solidarietà al popolo iracheno»10. Lo 
      stesso Annan, successivamente, ringraziò ufficialmente il presidente 
      del Consiglio Berlusconi, in visita al Palazzo di Vetro, per il contributo 
      attivo del nostro paese alla normalizzazione della situazione irachena11. 
      Risulta inequivocabile, dunque, l’appoggio politico delle massime 
      autorità onu – oltre a quello strettamente giuridico, espressosi 
      nella forma delle risoluzioni citate – all’invio di contingenti 
      militari che, insieme al personale civile specializzato, potesse garantire 
      la sicurezza e il peace-enforcement12.
      Il quadro normativo in esame si completa con un’ulteriore, importante 
      risoluzione: la 1546 dell’8 giugno 2004. Mediante quest’ultima 
      il Consiglio di Sicurezza, ancora una volta all’unanimità, 
      richiedeva agli Stati membri di sostenere la transizione politica irachena 
      con supporto tecnico e professionale e con una forza multinazionale, alla 
      quale il governo provvisorio iracheno guidato da Allawi – insediatosi 
      da appena una settimana, in conformità alla calendarizzazione posta 
      in essere dalla Risoluzione 1511 – chiese anche all’Italia di 
      partecipare13.
      Risulta evidente, pertanto, l’incontestabile legittimazione giuridica 
      dell’operato del governo, sia sul versante di diritto interno, sia 
      su quello di diritto internazionale. A ciò si è aggiunta un’approvazione 
      politica internazionale pressoché indiscutibile. L’Italia non 
      solo non ha partecipato al conflitto, dichiarandosi paese non belligerante 
      e conformandosi, pertanto, al disposto dell’articolo 11 della propria 
      Costituzione, ma ha altresì aderito immediatamente all’appello 
      delle Nazioni Unite all’aiuto della popolazione irachena e alla ricostruzione 
      di un nuovo Iraq, democratico e libero. Emerge quindi chiaramente come le 
      strumentalizzazioni di larga parte del centrosinistra e le interessate valutazioni 
      di pretesi esperti, tanto critiche quanto superficiali rispetto alla complessità 
      di un quadro normativo comunque ricostruibile, non abbiano alcun fondamento.
 Perché parlare di ritiro
 
      Perché parlare di ritiro
      A questo 
      punto è necessario sottolineare come sia nell’interesse del 
      paese affrontare in modo responsabile la questione del ritiro, in considerazione 
      dell’impatto sensibile che una missione di tal portata comporta sulla 
      credibilità dell’Italia nel mondo. Occorre, insomma, che gli 
      esponenti dell’Unione più moderati e meno pregiudizialmente 
      ostili all’invio di militari all’estero, rinuncino alla tentazione 
      di strumentalizzare l’esperienza irachena ed impongano un gentlemen’s 
      agreement a quelle forze politiche radicali che tuttora, nonostante la decisione 
      sulla conclusione di Antica Babilonia sia stata assunta, continuano ad invocare 
      vere e proprie fughe, sull’esempio di quella compiuta dal premier 
      spagnolo Zapatero. 
      In secondo luogo, una discussione franca, svuotata di residuati anacronistici 
      ed ideologici, ed incentrata sull’interesse nazionale come perno dell’azione 
      governativa all’estero, è ancora auspicabile, perché 
      capace di favorire una scelta realmente condivisa almeno sulla gestione 
      politica dei restanti mesi, evitando in tal modo che il nuovo governo si 
      trovi nella paradossale situazione di dover riaffrontare una questione delicata 
      e già grosso modo risolta dall’Esecutivo precedente.
      Affrontare la questione della gestione politica del completamento del ritiro 
      è, dunque, nell’interesse dei maggiori partiti, sia di centrodestra 
      che di centrosinistra. Il nuovo governo dovrà pertanto limitarsi 
      a seguire la rotta tracciata dall’esecutivo precedente, rispettando 
      i termini fissati, senza cedere alle pressioni interne e alle manifestazioni 
      popolari. 
      In questo modo, l’azione governativa si troverebbe libera da ostacoli 
      che non trovano davvero motivo d’essere e che soprattutto sono già 
      stati affrontati e risolti a tempo debito. In questo contesto, è 
      importante che il pianificato ritiro non venga né presentato all’opinione 
      pubblica né tanto meno gestito come se si trattasse di una fuga o 
      – peggio ancora – come un rimedio a pretesi errori passati. 
      Il punto è di fondamentale importanza. Il difetto di comunicazione 
      e di contro-argomentazione ha caratterizzato infatti negativamente buona 
      parte della conduzione politica della missione. Come ha recentemente dimostrato 
      il ministro Martino14, bisogna riconoscere che le ragioni dell’impegno 
      italiano in Iraq sono venute meno e che la nostra presenza non sarà 
      più necessaria, stante il consolidamento d’autorità 
      e di capacità del governo legittimo iracheno.
      A questo proposito è davvero un peccato che l’Unione, nel suo 
      programma di governo presentato prima delle elezioni, non sia riuscita ad 
      andare oltre le polemiche da cortile, e addirittura abbia incluso un richiamo 
      quanto mai improprio al multilateralismo con riferimento al caso iracheno, 
      invocando in modo generico l’onu nell’opera di ricostruzione 
      del paese15. Forse che i dirigenti della coalizione del centrosinistra non 
      sanno delle plurime risoluzioni del Consiglio di Sicurezza precedentemente 
      menzionate, della conseguente presenza di funzionari onu in suolo iracheno 
      e della fine dell’occupazione militare delle truppe alleate di cui 
      continuano a richiedere la cessazione? È perciò evidente come 
      le forze di governo e quelle di opposizione, diversamente da quanto accaduto 
      durante la campagna elettorale, abbiano il dovere, prima di tutto politico, 
      di spiegare in modo chiaro che la ragione del nostro ritiro risiede esclusivamente 
      nel successo della nostra missione. Come d’altronde è stato 
      a più riprese ribadito dalle autorità irachene, dalle più 
      alte cariche delle Nazioni Unite e dai massimi dirigenti dei paesi alleati.
 Rientro in Italia: il significato 
      della missione italiana
 
      Rientro in Italia: il significato 
      della missione italiana
      Il nostro 
      impegno in Iraq ha avuto, come stabilisce espressamente la legge 219 del 
      1 agosto 2003, un obiettivo fondamentale: «Garantire quella cornice 
      di sicurezza essenziale per un aiuto effettivo e serio al popolo iracheno 
      e contribuire con capacità specifiche alle attività d’intervento 
      più urgente nel ripristino delle infrastrutture e dei servizi essenziali»16. 
      In un momento di instabilità, le nostre truppe hanno dunque permesso 
      il consolidamento, se non addirittura la nascita, di istituzioni politiche, 
      sociali ed economiche assolutamente necessarie per avviare il paese sulla 
      strada dello sviluppo. Infatti, oltre alle operazioni volte al ripristino 
      e al mantenimento della sicurezza, il contingente italiano ha concorso attivamente 
      alla «ricostruzione di scuole, riparazione e manutenzione di acquedotti 
      e fognature, ripristino di centrali elettriche e rifornimento di combustibili 
      per le stesse, ripristino di tribunali e di strutture carcerarie, lavori 
      di pulizia nelle città e nei villaggi, eccetera»17.
      E i risultati non si sono fatti attendere: per quanto riguarda la normalizzazione 
      del paese, nella provincia di Dhi Qar – quella nella quale opera il 
      contingente italiano – sono state riaperte scuole e ospedali; è 
      stato assunto personale locale per la pulizia e la sistemazione delle strade; 
      sono stati redatti piani di prelevamento e di distribuzione della benzina, 
      impedendo in tal modo il proliferare del mercato nero; si è eseguito 
      il ripristino e il miglioramento della stazione elettrica di Nassiriya, 
      consentendo l’adeguata erogazione di energia nell’area; si sono 
      salvaguardati i siti archeologici e sono stati distribuiti gli aiuti umanitari 
      provenienti dai paesi donors18.
      Inoltre, nel corso degli ultimi due anni, un totale di undicimila poliziotti 
      e di duemila soldati sono stati addestrati dal contingente italiano19. Per 
      quanto riguarda invece il mantenimento della sicurezza, come ha osservato 
      il ministro Martino, «[f]inora gli iracheni hanno già votato 
      per una nuova Costituzione e per il Parlamento, inaugurando il loro cammino 
      verso la democrazia. Noi li abbiamo messi in condizione di provvedere da 
      soli alla loro sicurezza, addestrando la polizia e i soldati, tanto che 
      nella provincia a noi affidata c’è stata la più alta 
      affluenza alle urne e nessun incidente durante le votazioni»20.
      La missione italiana, quindi, ha permesso lo svolgimento di quelle che il 
      politologo Francis Fukuyama ha identificato come le prime due fasi (su tre) 
      del processo di nation building: la ricostruzione post-bellica e la creazione 
      di istituzioni autosufficienti che possano sopravvivere anche dopo il ritiro 
      delle truppe straniere21. La terza fase – il rafforzamento dell’apparato 
      statale – richiede, inevitabilmente, la legittimazione delle istituzioni 
      da parte della popolazione locale. A questo punto il restante lavoro è 
      principalmente in mano alle forze irachene.
      Questa prospettiva è comune a tutti gli Stati intervenuti nel processo 
      iracheno: anche gli Stati Uniti ed il Regno Unito si apprestano a ritirare 
      una parte cospicua del loro contingente militare. Infatti, nonostante l’effettiva 
      capacità sul campo delle forze dell’ordine e dell’esercito 
      iracheni non sia ancora del tutto sufficiente a garantire la sicurezza e 
      la stabilità politica necessarie, i progressi compiuti negli ultimi 
      mesi, e gli ultimi dati disponibili sembrano offrire più che un motivo 
      per rimanere ottimisti22. E come hanno sottolineato Andrew Terril e Conrad 
      Crane in uno studio pubblicato lo scorso ottobre per lo Strategic Studies 
      Institute, un’occupazione militare protratta oltre il necessario potrebbe 
      andare a lenire proprio quegli obiettivi di lungo periodo che dovrebbe invece 
      aiutare a raggiungere23.
      In questo processo di ricostruzione, le elezioni del mese di dicembre hanno 
      segnato una svolta fondamentale, come testimonia un dato politico emblematico: 
      i sunniti hanno finalmente deciso di abbandonare gli “altri mezzi” 
      mediante i quali perseguivano i loro obiettivi politici (per usare l’adagio 
      clausewiziano), per sedersi al tavolo delle trattative, scelta che apre 
      la strada alla normalizzazione del paese. Ovviamente è ancora presto 
      per ogni tipo di giudizio definitivo, e molte incertezze rimangono: i terroristi 
      che agiscono in Iraq sotto la guida di Al Zarkawi hanno infatti un vantaggio 
      strategico di fondamentale importanza sulle forze di occupazione e sull’esercito 
      iracheno. Mentre i secondi, per vincere, devono riavviare un intero apparato 
      statale, facendolo funzionare efficacemente, e garantire un futuro di pace 
      e relativo benessere alla popolazione locale, per i secondi è sufficiente 
      impedire che ciò avvenga. Ciò significa, quindi, che il costo 
      marginale sostenuto dai terroristi stranieri è drammaticamente inferiore 
      a quello sostenuto dalla coalizione e dal popolo iracheno24. Dall’altra 
      parte, però, i segnali incoraggianti non mancano, e sembrano aumentare 
      di giorno in giorno: ad inizio gennaio, per esempio, malgrado nel nostro 
      paese non ne sia stata data notizia, si sono registrati degli scontri tra 
      baathisti e terroristi legati ad Al Zarkawi, segno, forse, di una rottura 
      che potrebbe segnare la svolta finale nella ricostruzione del paese25. 
      Il processo di democratizzazione – per ora al suo stadio embrionale 
      – sarà inevitabilmente lungo, e non certo privo di insidie26. 
      Lasciare che faccia il suo corso nella maniera più autonoma possibile 
      significherà permettere alla democrazia irachena di piantare le radici 
      per il suo decisivo rafforzamento. 
 Il ruolo dell’Italia 
      e la missione in Iraq
 
      Il ruolo dell’Italia 
      e la missione in Iraq
      Prima 
      di concludere, è giusto considerare anche il significato che la missione 
      Antica Babilonia ha avuto per il nostro paese. Impegnandosi in una missione 
      rischiosa e avversata da una campagna mass-mediatica senza precedenti, l’Italia 
      ha dimostrato di essere un alleato affidabile e soprattutto credibile nella 
      guerra contro il terrorismo.
      La fermezza del governo di fronte alle pressioni e alle strumentalizzazioni 
      dei partiti di centrosinistra e delle manifestazioni di piazza, e soprattutto 
      di fronte ai richiami alla pace (privi di alcun significato, in un approccio 
      realistico alle cose internazionali) che provenivano anche da alte cariche 
      istituzionali europee, hanno permesso un sensibile rafforzamento delle relazioni 
      tra il nostro paese e Washington, risultato altrimenti assai difficilmente 
      conseguibile27. Non essendosi fatto sopraffare da rigurgiti antiamericani 
      e prettamente idealistici sul piano della politica interna, il nostro paese 
      ha guadagnato credibilità a livello internazionale, dopo una serie 
      storica caratterizzata dalla cronica inaffidabilità28. Va sottolineato, 
      però, come la credibilità guadagnata sia dovuta anche e soprattutto 
      alla condotta delle nostre forze armate, che con grande impegno ed immancabile 
      professionalità hanno gestito con successo i compiti loro affidati.
      Ad oggi, avendo dato un’ulteriore prova di poter contribuire attivamente 
      con operazioni di peace-enforcing e peace-keeping ove necessario, il nostro 
      paese può vantare un discreto peso internazionale relativo. Nel 2002, 
      il generale Carlo Jean definiva «disastroso» lo stato dell’immagine 
      internazionale del nostro paese, e «scarso» il prestigio di 
      cui esso godeva29. Oggi, ad essere obiettivi, bisogna riconoscere come le 
      cose siano migliorate, e non poco. La prova emerge chiaramente dalla comparazione 
      con l’impegno in Afghanistan: lo stesso generale Jean ricorda come 
      l’Italia non sia stata «neppure menzionata dal presidente Bush 
      tra i paesi che hanno dato un supporto fattivo agli Stati Uniti»30. 
      La partecipazione alla ricostruzione in Iraq, invece, ha avuto un effetto 
      ben diverso, anche dal punto di vista mediatico: il presidente degli Stati 
      Uniti che, rivolgendosi al suo sfidante, John F. Kerry, nel corso di un 
      dibattito televisivo durante la campagna elettorale del 2004, controbatte 
      all’accusa di agire unilateralmente dicendo «Tell Silvio Berlusconi 
      we are going alone», non ha probabilmente alcun precedente31. Ma una 
      prova ulteriore testimonia al meglio il consolidamento dell’asse con 
      Washington: il discorso che Silvio Berlusconi ha tenuto lo scorso 1 marzo 
      di fronte al Congresso degli Stati Uniti, un riconoscimento che non è 
      mai stato accordato a nessun altro dei nostri presidenti del Consiglio in 
      passato.
 Conclusioni
 
      Conclusioni
      L’Italia 
      con la missione Antica Babilonia ha partecipato attivamente ad un’impresa 
      di estrema importanza nella lotta contro il terrorismo, assistendo un popolo 
      vessato da decenni di brutale dittatura nel suo cammino iniziale verso un 
      futuro democratico e contribuendo da protagonista alla nuova stagione mediorientale. 
      
      È ancora troppo presto per trarre delle conclusioni definitive sulla 
      guerra e sulla ricostruzione post-bellica. Analogamente, è troppo 
      presto per valutare il contributo dell’Italia. Ma certamente esso 
      non può essere sottovalutato. Da una parte, infatti, mantenendo stretti 
      i rapporti con Washington, l’Italia ha impedito che gli Stati Uniti 
      venissero isolati politicamente, come invece aveva auspicato l’allora 
      ministro degli Esteri francese De Villepin. In secondo luogo, contribuendo 
      alla stabilizzazione di una provincia irachena, e in particolare impedendo 
      che i terroristi jihadisti cogliessero l’occasione del vuoto di potere 
      per realizzare il loro progetto di dominio, ha offerto una prospettiva alternativa 
      concreta ad un paese musulmano.
      L’Italia non ha partecipato alla guerra, come testimoniano le importanti 
      parole del presidente della Repubblica32. Ciononostante, la missione Antica 
      Babilonia ha comportato dei rischi per il paese, ed è costata la 
      vita a ben ventisei militari, tra carabinieri e soldati. Questo impegno 
      in Iraq, come argomentato nelle pagine precedenti e diversamente da quanto 
      è stato sostenuto da più parti negli ultimi tre anni, è 
      stato assolutamente conforme alle prescrizioni della nostra Costituzione 
      e del diritto internazionale, e ha risposto ad un invito molto preciso che 
      l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha rivolto più volte alla 
      comunità internazionale perché i paesi che ne fossero in grado 
      contribuissero attivamente alla stabilizzazione dell’Iraq.
      Quando il tempo della polemica domestica e delle strumentalizzazioni politiche33 
      lascerà il posto al tempo della riflessione storica, tutto questo 
      gran parlare verrà forse ricordato come uno di quei segni indistinguibili 
      del nostro paese. Stavolta, però, l’Italia potrà dire 
      di aver attivamente contribuito a sconfiggere il disegno del terrorismo, 
      di aver contribuito al nuovo corso del popolo iracheno, di essere stata 
      protagonista leale e capace del fronte occidentale.
Note
      1. 
      “Fini sulle truppe italiane in Iraq: Il ritiro inizierà entro 
      febbraio 2006”, la Repubblica, 10 maggio 2005; “Berlusconi: 
      “Via dall’Iraq entro dicembre del prossimo anno”, la Repubblica, 
      22 novembre 2005.
      2. “Martino: missione in Iraq chiusa entro l’anno”, Corriere 
      della Sera, 19 gennaio 2006; Lepore F., “Porto a casa i nostri soldati”, 
      intervista ad Antonio Martino, Diva e Donna, 19 gennaio 2006.
      3. Fischer I., “Italy Election Produces Date to Pull Out of Iraq”, 
      International Herald Tribune, 20 gennaio 2006.
      4. Camera dei Deputati, XIV Legislatura, Comunicazioni del Governo in merito 
      ad un intervento di emergenza umanitaria in Iraq, seduta n° 298, 15 
      aprile 2003.
      5. “Scheda: I precedenti voti del Parlamento sulla missione in Iraq”, 
      la Repubblica, 10 marzo 2004.
      6. Il rappresentante siriano si assentò in sede di votazione.
      7. Il capitolo VII della Carta onu racchiude le disposizioni concernenti 
      le misure che il Consiglio di Sicurezza può adottare in sicurezza 
      collettiva.
      8. Consiglio di Sicurezza onu, Risoluzione 1483, 22 maggio 2003, par. 1.
      9. Ibidem, par. 2.
      10. L’affermazione è richiamata dal ministro della Difesa, 
      Martino, in Senato della Repubblica, XIV Legislatura, Comunicazioni del 
      ministro della Difesa alle Commissioni Difesa di Senato e Camera sui più 
      recenti eventi della missione militare nazionale in Iraq, 07 aprile 2004.
      11. Luzzi G., “Berlusconi al Palazzo di vetro: ‘Annan ci chiede 
      di restare’”, la Repubblica, 19 maggio 2004.
      12. A differenza del peace-keeping, che consiste in un’operazione 
      finalizzata al mantenimento di un trattato di pace o all’interposizione 
      di forze tra belligeranti che esprimono chiaramente un mutuo intento di 
      addivenire alla pace e ad un accordo di cessate-il-fuoco, e che, per tali 
      caratteristiche, comporta l’obbligo in capo ai soldati partecipanti 
      a tale operazione di aprire fuoco solo in legittima difesa, il peace-enforcement 
      è un’operazione militare condotta da singoli Stati o da coalizioni 
      di Stati, sotto l’egida delle Nazioni Unite o anche al di fuori del 
      sistema onu, che intervengono al fine di riportare la pace in un contesto 
      in cui i belligeranti, o uno solo di essi, continuano a fronteggiarsi e 
      non manifestano alcuna intenzione di addivenire alla tregua. Stanti tali 
      caratteristiche, i soldati impegnati in operazioni di peace-enforcement 
      possono aprire il fuoco anche in assenza di motivi di legittima difesa, 
      al solo fine, tuttavia, di imporre la sicurezza dei territori coinvolti 
      e la pace tra i belligeranti.
      13. Altri due atti internazionali meritano una menzione: l’accordo 
      in ambito nato del 28 giugno 2004 col quale si aderisce alla richiesta irachena 
      di assistenza per l’ equipaggiamento e l’addestramento delle 
      forze armate e di polizia del paese e le statuizioni della Conferenza internazionale 
      per l’Iraq di Sharm el Sheik del 22 e 23 novembre dello stesso anno, 
      in base alle quali si richiama un ruolo più incisivo per le Nazioni 
      Unite e si riafferma il mandato della forza multinazionale.
      14. Intervento del ministro della Difesa, Antonio Martino, davanti alle 
      commissioni Difesa di Camera e Senato a Montecitorio, il 19 gennaio 2006 
      (cfr. sito: http://www.paginedidifesa.it/2006/dsc.martino_060120.html).
      15. «In coerenza con il principio del multilateralismo, riteniamo 
      necessaria la internazionalizzazione della gestione della crisi irachena, 
      con una netta ed evidente inversione di rotta da realizzarsi con la presenza 
      di una autorità internazionale (onu) che superi l’attuale presenza 
      militare e che affianchi il governo iracheno nella gestione della sicurezza, 
      del processo di transizione democratica e della ricostruzione» (cfr. 
      L’Unione, Programma di Governo 2006-2011, p. 102).
      16. Legge 1 agosto 2003, art. 1.
      17. Stato Maggiore della Difesa, Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore, 
      Scheda Notizie Relativa alla Partecipazione Italiana Multinazionale ‘Antica 
      Babilonia’ – Iraq, p. 6 (cfr. sito: http://www.difesa.it/NR/rdonlyres/1566794A-258D-4908-9A6A-845E2F3124FB/9690/SchedaNotizieOperazioneAnticaBabiloniaversBrigArie.pdf).
      18. Ministero degli Affari Esteri, L’Italia e il peacekeeping: le 
      missioni italiane di pace nel mondo, Agenzia Ansa, 2006, p. 10.
      19. Intervento del ministro della Difesa, Antonio Martino, davanti alle 
      commissioni Difesa di Camera e Senato a Montecitorio, il 19 gennaio 2006, 
      cit.
      20. Lepore F., cit.
      21. Fukuyama F., State Building: Governance and World Order in the 21st 
      Century, Cornell University Press, 2004, pp. 100-102. 
      22. “Il Momento di Tornare”, L’uovo di Giornata, Fondazione 
      Magna Carta, 20 gennaio 2006. 
      23. Terrill W.A. and Crane C.C., Precedents, Variables, and Options in Planning 
      a U.S. Military Disengagement Strategy from Iraq, Strategic Studies Institute, 
      Carlisle, PA October 2005, pp. 5-10.
      24. Cordesmann A., “Casualties, the Election, and Insurgency - A ‘Red 
      Team’ View”, Center for Strategic and International Studies, 
      “Burke Chair In Strategy”, 6 gennaio 2006 (cfr. sito: www.csis.org/component/option,com_csis_progj/task,view/id,473/).
      25. Beehner L., “Is There a Rift in Iraq’s Insurgency?”, 
      Council on Foreign Relations, “Background Q&A”, 12 Gennaio 
      2006 (cfr. sito: http://www.cfr.org/publication/9560/is_there_a_rift_in_iraqs_insurgency.html).
      26. Come hanno dimostrato due studiosi di fama internazionale, proprio tra 
      i paesi in via di democratizzazione si registrano i più alti indici 
      di bellicosità (cfr. Mansfield E.D and Snyder J., Electing to Fight: 
      Why Emerging Democracies Go To War, Mit Press, Cambridge, MA, 2005).
      27. Giova ricordare che il presidente Bush non rispose al telefono quando 
      il primo ministro spagnolo Josè Luis Zapatero lo chiamò per 
      complimentarsi per il suo successo alle elezioni presidenziali del novembre 
      2004 (cfr. Carretto E., “E Bush non risponde al ‘nemico’ 
      Zapatero”, Corriere della Sera, 12 Novembre 2004).
      28. Il professor Aurelio Lepre fornisce una analisi certamente obiettiva 
      e non criticabile per partigianeria a proposito dell’affaire Ocalan 
      che – come tutti ben ricordano – riguardò direttamente 
      il nostro paese. Riferendosi a questo episodio, ma generalizzando sulla 
      politica estera del governo di allora, il professor Lepre scrive: «In 
      questo come negli altri campi, appariva più che mai evidente la necessità 
      di abbandonare la navigazione a vista, per seguire una rotta sicura che 
      potesse far uscire definitivamente l’Italia dalle secche dalle quali 
      rischiava ancora di arenarsi» (cfr. Lepre A., Storia della Prima Repubblica, 
      Il Mulino, Bologna 2003, 2a edizione, p. 372).
      29. Jean C., Manuale di Geopolitica, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari, 
      2003, p. 289.
      30. Id., p. 291.
      31. Allen M. and Balz D., “A Debate on Iraq and the Home Front”, 
      Washington Post, 9 Ottobre 2004.
      32. «Siamo andati in Iraq quando la guerra guerreggiata era finita. 
      Ricordiamocelo sempre. Le nostre truppe sono arrivate a Nassiriya nel giugno 
      2003 e gli eventi bellici veri e propri si erano conclusi a marzo» 
      (Presidenza della Repubblica Italiana, Discorso agli Italiani, 31 dicembre 
      2005).
      33. Secondo l’onorevole diessino Marco Minniti, il piano di rientro 
      predisposto dal governo è comunque insoddisfacente perché 
      «è grave l’assenza di un giudizio sulla guerra». 
      Il responsabile per la Difesa dei ds, quindi, sembra convinto che le scelte 
      di politica internazionale alle quali un governo è chiamato debbano 
      comprendere anche giudizi storici sul passato e non, più semplicemente, 
      scelte opzionali per il futuro: riscrivere il passato anziché “fare” 
      il presente e determinare, per quanto possibile, il futuro sarebbe il compito 
      di un ministro della Difesa!
 Mauro Gilli, laureato in Scienze Politiche presso l’Università 
      degli Studi di Torino, inizierà un dottorato di ricerca in Scienze 
      Politiche presso la State University of New York, Binghamton.
 
      Mauro Gilli, laureato in Scienze Politiche presso l’Università 
      degli Studi di Torino, inizierà un dottorato di ricerca in Scienze 
      Politiche presso la State University of New York, Binghamton.
 Daniele Sfregola, laureato in Diritto Internazionale presso la facoltà 
      di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli di Roma, è specializzato 
      in Relazioni Internazionali alla Sioi di Roma.
 
      Daniele Sfregola, laureato in Diritto Internazionale presso la facoltà 
      di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli di Roma, è specializzato 
      in Relazioni Internazionali alla Sioi di Roma.

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